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Elezioni presidenziali USA: gli ultimi giorni di campagna elettorale per un voto che può cambiare il volto della democrazia americana

3 Novembre 2024 13 min lettura

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Elezioni presidenziali USA: gli ultimi giorni di campagna elettorale per un voto che può cambiare il volto della democrazia americana

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Con la chiusura dei seggi sempre più vicina, datata al 5 novembre, la situazione di sostanziale parità nel confronto elettorale tra Kamala Harris e Donald Trump sembra difficile da sbloccare. La certezza è che il confronto si riduce ormai a sette Stati chiave, che determineranno in base al loro spostamento chi siederà nello Studio ovale a partire dal 20 gennaio prossimo. Di questi, secondo gli ultimi dati NYT – Siena, Trump è favorito in tre (Arizona, Georgia e North Carolina), Harris in due (Michigan e Wisconsin) e ci troviamo di fronte a una condizione di parità assoluta in Pennsylvania e Nevada. Per rendere più chiara la situazione, se i due vincessero tutti gli Stati in cui oggi sono considerati favoriti, a entrambi basterebbe assicurarsi i 19 grandi elettori della Pennsylvania per vincere le elezioni. In Iowa, roccaforte repubblicana, in uno degli ultimi sondaggi usciti il quotidiano Des Moines Register dà in vantaggio Harris, un ribaltamento guidato dalle donne, in particolare quelle più anziane e politicamente indipendenti, a sottolineare un clima in cui tutto sembra davvero possibile.

Le strategie di Trump e Harris nella fase finale

Le due campagne stanno attuando alcune strategie impensabili fino a poche settimane fa. Harris ha deciso di puntare molto sulle contee rurali degli Stati in bilico, solidamente repubblicane: la sua idea è che andare a contendere il voto, lei stessa o importanti esponenti del Partito, in luoghi da cui i democratici mancano da tanto tempo potrebbe abbassare il margine con cui i repubblicani vinceranno quei collegi, e in un’elezione che si potrebbe decidere su poche migliaia di voti questi singoli cambiamenti potrebbero risultare decisivi. 

Trump ha invece deciso di fare grandi comizi in luoghi molto democratici: nelle ultime settimane ha fatto un grande evento al Coachella, dove si svolge l’omonimo festival musicale in California, e al Madison Square Garden, famosa arena di New York City. Il candidato repubblicano galvanizza i suoi supporter in Stati che non ha nessuna possibilità di vincere e costruisce eventi di rilevanza nazionale che gli mantengono un elevato grado di visibilità. Per quanto concerne gli spostamenti dei segmenti demografici, Harris sta cercando di strappare a Trump il primato tra le donne bianche, che il tycoon ha ottenuto nel 2016 e mantenuto nel 2020. La stragrande maggioranza delle donne bianche non laureate, il cui interesse primario è il costo della vita, favorisce Trump: Harris, però, con la cosiddetta care economy, con cui vorrebbe abbattere i costi per le famiglie e allargare i sussidi, sta diventando competitiva. 

Al contrario, Trump attacca su un segmento che i democratici hanno sempre dato per scontato: gli uomini neri. Sostanzialmente la minoranza più conservatrice, con loro il messaggio di Harris non riesce ad attecchire: non è un caso che nelle ultime settimane sia stato mandato a fare comizi Barack Obama, che, con un linguaggio molto più vicino a quello di un membro della comunità piuttosto che di un ex-presidente, ha detto loro che “starebbero usando scuse” per non sostenere Kamala Harris. Un ulteriore problema per Trump è il sostegno della comunità latina, su cui ha ottimi numeri sin dal 2020: durante il comizio al Madison Square Garden il comico Tony Hinchcliffe ha chiamato Porto Rico  “isola di spazzatura”, e questo ha generato la perdita di alcuni endorsement già ottenuti di celebrità del mondo latino, o spinto celebrità come il rapper portoricano Bad Bunny a sostenere Harris.

Nel frattempo, molti americani hanno già votato. Sessantacinque milioni di persone hanno infatti già depositato le loro schede nelle urne, o votando per posta o presentandosi ai seggi già aperti. I giornalisti che analizzano i dati di chi ha già espresso la propria preferenza, dividendoli per affiliazione al partito democratico o repubblicano, hanno rilevato che Harris è avanti di circa 20 punti. Si tratta di un vantaggio superiore a quello che aveva Clinton su Trump nel 2016, in un’elezione sostanzialmente simile per tempistiche a questa, ma molto inferiore a quello di Biden del 2020, che conduceva di circa 50 punti. 

Da sempre i repubblicani sono il segmento elettorale che meno utilizza il voto anticipato, e preferisce presentarsi ai seggi il giorno delle elezioni, quindi un vantaggio democratico in questa fase è naturale. A tutto questo bisogna aggiungere che nel 2020 l’abbandono del voto anticipato rientrava nella più grande strategia di Trump per contestare il risultato delle elezioni: fin da subito il Presidente aveva parlato del voto per posta come di un sistema truccato e atto a garantire la vittoria dei democratici, e aveva chiesto ai suoi sostenitori di non votare in quel modo, pena il possibile annullamento della loro preferenza. Accuse totalmente infondate, ma che portarono a una massiccia presenza di repubblicani alle urne il martedì: siccome vengono conteggiati prima i voti espressi in presenza e solo successivamente quelli pervenuti ai seggi elettorali via posta, si generò il vantaggio momentaneo dei repubblicani in quasi tutti gli Stati, ribaltato dai democratici col conteggio dei voti anticipati. Trump si definì vincitore molto presto, in modo da poter contestare i voti giunti successivamente. 

In un’elezione che si giocherà su poche migliaia di preferenze, i repubblicani hanno cambiato registro sul voto anticipato: quest’anno Trump, pur continuando a parlare di brogli, sprona i suoi elettori a votare il prima possibile, anche per paura che poi non lo facciano. Nonostante questo, le teorie del complotto legate ai risultati elettorali sono state accolte da sempre più estremisti: governo e ufficiali elettorali sono stati presi di mira con minacce pesanti, fino all’invio di lettere contenenti sospetta polvere bianca, che hanno causato evacuazioni in alcuni uffici elettorali. Le misure di sicurezza ai seggi sono quindi aumentate, con l’utilizzo di metal detector e droni.

Il messianismo dei repubblicani e la retorica sempre più violenta

Nelle ultime settimane, poi, i toni si sono fatti più accesi. La campagna Harris, che aveva iniziato la sua corsa alla presidenza con un messaggio molto positivo, evitando di parlare dell’ex-presidente, ha cambiato rotta: complice anche un’incapacità di sfondare la parità sostanziale che si è creata, la vicepresidente è tornata a parlare di Trump in toni molto cupi, ribadendo il pericolo per la democrazia che rappresenterebbe il tycoon, e lo ha per la prima volta definito chiaramente un fascista in diretta televisiva, durante un incontro con possibili elettori indecisi organizzato da CNN. L’incapacità di accettare gli esiti elettorali, la violenza politica sempre più eccessiva, gli attacchi agli immigrati, che nella narrazione trumpiana starebbero distruggendo gli Stati Uniti e votando illegalmente, l’ammirazione per i generali nazisti, sono solo alcune delle posizioni di Trump che negli ultimi anni hanno fatto propendere molti storici e accademici, tra cui Robert Paxton, sul definire fascista Trump e le sue politiche.

La retorica della campagna Trump è nel frattempo diventata sempre più cupa, violenta e con una raffigurazione del candidato in stile messianico: solo negli ultimi giorni ha asserito che sarà “il difensore di tutte le donne, che a loro piaccia o meno” e ha detto che Liz Cheney, la figlia dell’ex-vicepresidente repubblicano Dick che sostiene apertamente Harris facendo con lei diversi incontri di campagna, dovrebbe affrontare un plotone d’esecuzione.

Sono apparse problematiche anche le condizioni di salute di Trump. Durante i comizi e nelle interviste appare spesso confuso, così come nelle interviste. Ospite di Joe Rogan, uno dei più famosi podcaster americani, Trump è andato più volte fuori tema, perdendosi per minuti in divagazioni senza senso, tra cui una sulla vita su Marte  La campagna Harris, e anche diversi media, tra cui il New York Times, hanno posto domande sulla stabilità fisica e mentale del candidato repubblicano, ribaltando la situazione rispetto a giugno, quando ci si chiedeva lo stesso di Biden. Harris ha rilasciato un certificato medico che denota il suo stato di buona salute e ha chiesto a Trump di fare lo stesso: il tycoon si è però rifiutato. 

Tuttavia tra maggio e luglio la salute psicofisica di Joe Biden è diventata un tema anche perché i giornali non la lasciarono sotto silenzio, e lo stesso New York Times chiese a gran voce a Biden di farsi da parte. Come evidenziato tra gli altri dalla Columbia Journalism Review, in un lungo pezzo che analizza l’astio che il mondo liberal ha nei confronti dei giornali, lo stesso non è accaduto nei confronti di Trump. Il suo comportamento instabile e la retorica violenta vengono spesso derubricati come minori, quasi fossero una cifra stilistica del trumpismo dal 2016 più che una minaccia per la democrazia.

Come stanno cambiando i rapporti tra potere economico e politico

 In queste ultime settimane si è parlato tanto di giornali per un motivo specifico. Due quotidiani, Washington Post e Los Angeles Times, hanno visto i rispettivi editori intervenire per bloccare i tradizionali editoriali di endorsement, che in questo caso avrebbero dovuto essere per Kamala Harris .I due editori, rispettivamente Jeff Bezos e Patrick Soon-Shiong, hanno infatti deciso di non schierarsi apertamente per evitare possibili ritorsioni di Trump in caso di vittoria. Nonostante le dimissioni di alcuni membri della redazione e il crollo di abbonamenti che il Post ha subito dopo la decisione, nulla è cambiato. Will Lewis, il contestato CEO del quotidiano, ha detto che il giornale è tornato alle sue tradizioni di terzietà e bilanciamento. 

Spesso i giornali, come scriveva già nel 2020 Jay Rosen sulla New York Book Review, sono più interessati a proteggersi da possibili critiche che a raccontare la realtà, e per farlo bilanciano artificialmente realtà sbilanciate. Come ha detto però Norm Ornstein, importante scienziato politico americano, il problema è che questo bilanciamento finisce per distorcere la realtà. Nel parlare del tema il Guardian ha usato il concetto di obbedienza anticipata: si rifà a un libro di Timoty Snyder, On tyranny, in cui si sostiene che il potere ai regimi totalitari europei è stato fondamentalmente concesso. Personaggi illustri, con potere economico e mediatico, che decidono di non schierarsi per paura di ritorsioni starebbero consegnando potere illimitato nelle mani di una persona che non ha a cuore la democrazia. 

Nell’articolo si parla apertamente della possibilità che Trump possa intraprendere un percorso simile a quello di Viktor Orbàn in Ungheria: esiste un collegamento diretto tra il Danube Institute, think-tank orbaniano di Budapest, e la Heritage Foundation, organizzazione ultra-conservatrice che ha scritto Project 2025, un piano per una futura presidenza repubblicana che amplierebbe i poteri presidenziali, unitamente a una visione sociale di estrema destra. I due think-tank si sono incontrati nel 2023, e il Danube ha invitato in Ungheria alcuni esponenti di Heritage per vedere dal vivo il funzionamento delle politiche orbaniane. Trump ha provato a negare la vicinanza a Project 2025, ma il suo vicepresidente, JD Vance, ha scritto la prefazione a un libro di uno dei principali esponenti dell’organizzazione. Durante il dibattito presidenziale, poi, Trump ha apertamente citato Orbàn come leader internazionale degno di stima e il premier ungherese ha ricambiato facendo i migliori auguri al candidato repubblicano per le elezioni imminenti.

Il problema è però più grande dei soli giornali e si intreccia al rapporto oramai simbiotico che c’è tra potere economico e politico. I miliardari in questa tornata elettorale hanno avuto un peso non indifferente, donando il 18% del totale di entrambe le campagne. Se Harris ha ottenuto da miliardari il 6% delle sue donazioni, principalmente dal co-fondatore di Facebook Dustin Moskovitz e dal fondatore di LinkedIn Reid Hoffman, Donald Trump ha ottenuto da grandi donatori il 34% dei suoi fondi elettorali. Nell’ultimo mese il miliardario proprietario di X Elon Musk è diventato molto presente nella campagna del tycoon. Trump gli ha promesso un importante posto nella sua prossima amministrazione, se non nel governo almeno da consulente, e Musk ha già dato delle idee su quello che farebbe. Vorrebbe in prima battuta tagliare la spesa pubblica e deregolamentare l’economia: Musk ha infatti commesse col governo di decine di milioni di dollari per l’utilizzo nelle missioni NASA di navette spaziali di SpaceX, compagnia di sua proprietà, e si lamenta spesso delle eccessive regole pubbliche a cui deve sottostare. Ha poi fatto recentemente parlare di sé per una lotteria che ha promosso negli Stati chiave: chi si registra per votare e firma una petizione che riprende alcuni valori repubblicani ha la possibilità ogni giorno di vincere un milione di dollari. Per la possibilità che si configuri un voto di scambio il caso è stato portato davanti alla corte federale, che però non deciderà prima delle elezioni.

Anche Harris ha ottenuto una parte, seppur minore, di finanziamenti da miliardari legati a questo mondo. Infatti nei piani della candidata democratica c’è una sostanziale differenza rispetto alle politiche del presidente in carica. Le criptovalute, per Biden pericolose e da regolamentare, sono definite invece da Harris “un asset”, in modo da non far scappare verso Trump, che invece vende alcuni gadget di campagna esclusivamente tramite crypto, tutte le persone interessate a questo ramo d’investimento. I miliardari del tech che supportano Harris, come il fondatore di LinkedIn Reid Hoffmann, sono contrari a un controllo statale sulle loro imprese: vorrebbero infatti sbarazzarsi di Lina Khan, scelta da Biden per guidare la Federal Trade Commission, che vuole ottenere serie leggi antitrust sulle compagnie tecnologiche. 

Donald Trump ha poi scelto come candidato vicepresidente il già citato JD Vance, che viene dal mondo del venture capital ed è molto vicino a Peter Thiel, fondatore di PayPal, orbitante nella galassia conservatrice, chiaro segnale della presa che il mondo degli imprenditori del ramo tech ha oramai sul mondo politico. In caso Trump dovesse avere problemi di salute, non impossibile data l’età avanzata, Vance diventerebbe il primo presidente frutto diretto di questo nuovo establishment economico. Non è l’unico problema del vicepresidente: negli ultimi mesi ha infatti dimostrato apertamente le sue idee estremiste nei confronti soprattutto delle donne. Ha detto più volte che le donne non possono essere leader se non hanno avuto figli, che scegliere la carriera al posto della famiglia è una strada di miseria, che una gravidanza frutto di incesto e stupro va portata a termine, che bisogna restare all’interno del matrimonio anche se si subisce violenza domestica. Nel 2021, in un’intervista con l’allora presentatore di Fox News Tucker Carlson, disse che gli Stati Uniti erano guidati da un gruppo di “gattare senza figli”: un insulto tornato in auge oggi, specialmente quando la famosa cantante Taylor Swift ha firmato il suo endorsement per Kamala Harris proprio con questa espressione.

Elezioni più cruciali che mai

Quali quindi i possibili scenari futuri di un’elezione definita come la più importante del mondo occidentale? Per quanto riguarda noi europei, la scorsa presidenza Trump aveva portato astio tra i paesi dell’Unione e gli Stati Uniti. Il tycoon si era più volte lamentato del fatto che gli Stati europei membri della NATO non contribuivano per il 2% del Pil in difesa e riteneva l’alleanza un retaggio del passato. Con Biden i rapporti sono invece migliorati, complice anche l’unità tra Stati Uniti e Unione Europea nell’affrontare l’invasione russa dell’Ucraina. Proprio su questo la posizione trumpiana è problematica: il candidato repubblicano dice costantemente di avere un piano che farebbe finire la guerra nel giro di ore, e molto probabilmente si tratta della cessione territoriale di pezzi dell’Ucraina. È infatti la posizione espressa dal vicepresidente Vance, che ha affermato che i russi dovrebbero mantenere le posizioni conquistate, insieme all’istituzione di una zona demilitarizzata lungo le linee del fronte. Putin dovrebbe rinunciare a una nuova invasione, e l’Ucraina non dovrebbe poter entrare nell’Alleanza Atlantica. A conti fatti, sono le richieste che Putin fa alla comunità internazionale dall’inizio dell’invasione.

Già nei mesi scorsi Trump aveva bloccato, tramite i suoi deputati, per lungo tempo l’invio di nuove armi a Kyiv, e una sua presidenza potrebbe mettere Zelensky davanti al fatto che non ci sarebbero più nuove armi senza una cessione di territorio. Di contro, Harris manterrebbe la linea Biden, continuando a finanziare l’invio di armi in Ucraina finchè Kyiv continuerà a combattere. L’altro elemento entrato prepotentemente in campagna elettorale è la questione mediorientale: Harris ha problemi, dovuti al fatto che gran parte dell’elettorato arabo-americano che la sosterrebbe vorrebbe segnali più chiari di critica a Israele per la situazione a Gaza e in Libano, mentre Trump è sempre stato molto vicino al premier israeliano Netanyahu, tanto da aver spostato l’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme durante il suo primo mandato. 

Entrambi cercano di non scontentare né la comunità araba né quella ebraica: nonostante questo, il candidato repubblicano ha più volte avuto colloqui telefonici con Netanyahu, in cui ha chiesto che la guerra a Gaza finisca entro il 20 gennaio, giorno della sua possibile inaugurazione a presidente, mentre corteggia la comunità araba definendosi un uomo di pace e contro ogni guerra. È difficile poterlo credere, in quanto in uno dei colloqui telefonici, Trump avrebbe detto a Netanyahu, parlando dei bombardamenti a Gaza e in Libano, “fai quello che devi”. Harris, invece, chiede apertamente un cessate il fuoco e una soluzione a due Stati, che però al momento sembra molto lontana dal poter essere praticabile. Una vittoria di Trump potrebbe poi far tornare indietro i progressi ottenuti in ambito ambientale, in quanto potrebbe smantellare i sussidi per le aziende green garantiti dall’Inflation Reduction Act, e vorrebbe ritornare a un maggior peso dell’oil and gas nel paniere energetico americano.

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Quella che si profila il 5 novembre è un’elezione determinante per capire la strada che prenderanno gli Stati Uniti e non solo. Pochi elettori in sette Stati avranno il compito di decidere non solo quale sarà la posizione del paese sui principali temi mondiali nel prossimo futuro, ma anche il suo stesso volto e la sua identità più profonda. Nel suo editoriale di sostegno a Kamala Harris, il settimanale britannico Economist ha scritto: “far sì che Trump torni alla presidenza vuol dire giocare d’azzardo con l’economia, lo Stato di diritto e la pace internazionale. Non è possibile quantificare le possibilità che qualcosa vada storto: nessuno può. Ma riteniamo che gli elettori che minimizzano queste possibilità si stiano illudendo”.

(Immagine in anteprima via Free Malaysia Today)


 

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