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Dalla Palestina al Libano: Israele alla resa dei conti e la fine del diritto internazionale

15 Ottobre 2024 11 min lettura

Dalla Palestina al Libano: Israele alla resa dei conti e la fine del diritto internazionale

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Il ministro delle Finanze israeliano Bazael Smotrich sorseggia un bicchiere d’acqua. Poi sorride, mentre risponde: “A poco a poco”. La domanda che precedeva la sua risposta, formulata nell’intervista che è parte del documentario Israel: Ministers of Chaos, prodotto da Arté, è: “La sovranità dello Stato di Israele si estende adesso dal mare al fiume. A questo punto, volete andare oltre in una fase successiva?”. Dopo avere rivelato che il progetto procede inesorabilmente, Smotrich aggiunge: “È scritto che il futuro di Gerusalemme è espandersi fino a Damasco, lungo tutta la terra promessa”. 

A ben guardare, l’intervista non dice nulla di nuovo ma ha il pregio di rivelarlo in tutta la sua cruda e nuda verità: le mostrine già identificate sulle uniformi di alcuni ufficiali dell’esercito israeliano, la carta geo-politica che il primo ministro Benjamin Nethanyau ha mostrato nella sua recente visita alle Nazioni Unite, l’articolo sul concetto de “Il Grande Israele” apparso sul Jerusalem Post mesi fa e poi cancellato dall’indicizzazione, ma soprattutto l’ultimo mese di fatti di guerra in Libano, chiariscono una serie di cose: la necessaria autodifesa dello Stato di Israele, nei piani dell’attuale esecutivo e della destra messianica israeliana, si salda fortemente con il progetto di espansione dello Stato lungo lo Sham mediorientale: Sinai, Egitto, Libano, Siria, Iraq, fino ad arrivare al Nord dell’Arabia Saudita. Sempre nella stessa intervista Smotrich lo chiarisce bene: dovrà essere uno “Stato ebraico” ossia organizzato e che operi “secondo i principi del popolo ebraico”. Dunque, sarà lo Stato degli ebrei e per gli ebrei, dove altri soggetti di diritto non saranno considerati egualitari. De facto, in Israele questa concezione del diritto è applicata già come legge di Stato, nonostante gli appelli alla Corte Suprema del 2021 in difesa delle minoranze. 

Ma qui il passaggio è ulteriore: è una dichiarazione di proprietà territoriale. Nella תנך (ossiaTanakh, la Bibbia ebraica), in Genesi 12,2 Dio promette ad Abramo che la sua discendenza diventerà un goy gadol, una “grande nazione” e si tratta di uno dei passi in cui il termine goy indica gli Israeliti. Lo stesso termine nell’uso è invece diventato un identificativo delle popolazioni non-israelite, dunque dei gentili, assumendo anche un'accezione spregiativa. Per la destra messianica, questa promessa va riconsiderata alla lettera e, anche se per una certa parte della società israeliana questa interpretazione è considerata un’esagerazione, l’attentato del 7 ottobre ha legittimato l’obiettivo di conquista in nome del diritto alla difesa dello Stato, in virtù del senso di accerchiamento e insicurezza patito dagli israeliani in quanto ebrei, nonché della necessità di rendere effettive le parole “mai più” di fronte a un potenziale secondo Olocausto.

Le guerre asimmetriche e le guerre ibride

Ma come si è arrivati a consentire e giustificare questa espansione di Tel Aviv? Non bastano le Sacre Scritture, infatti, per convincere della bontà di questo obiettivo anche coloro che sono ebrei riformati, o che non amano la destra messianica, senza contare l’importanza che per Israele hanno le comunità diasporiche e tutti i sostenitori del sionismo anche tra i gentili (ossia tra i non ebrei). Una serie di fattori strategici spiegherebbe il fenomeno e avrebbe accelerato il processo di consenso.

Da molti anni ci troviamo di fronte a ciò che viene descritto come “guerra asimmetrica”, e adesso anche “guerra ibrida”, ossia guerreggiata con minacce informatiche. Vista per prima nei laboratori asiatici del Vietnam, dell’Afghanistan ma naturalmente anche in Palestina e in Iraq, per non tacere dei casi europei come l’ETA, o il PKK in Turchia, è la nascita di milizie non statuali ad avere reso possibile l’ibridazione della distinzione netta tra civili e militari nel diritto di guerra. Si tratta di milizie che partono da rivendicazioni separatiste, di difesa della loro autonomia territoriale, e sfociano poi nella lotta armata contro strutture statuali ed eserciti nazionali. La questione è piuttosto grave perché, se da una parte l’asimmetria è stata l’unico modo, da parte di questi gruppi, di garantirsi un controllo territoriale e una vittoria parziale o prolungata nel tempo, confondendo il nemico in battaglia, dall’altra ha autorizzato progressivamente gli eserciti nemici a confermare il concetto secondo cui ogni civile è potenzialmente un miliziano e, per estensione, che anche obiettivi civili tra le infrastrutture (centrali elettriche, porti, aeroporti, per poi passare a fabbriche, scuole, ospedali) fossero di fatto aree di interesse militare.

La verità non sta da una sola parte. Chi abbia avuto reale accesso al mondo delle milizie, sa benissimo che esattamente questo è il ragionamento che esse hanno sviluppato in anni di guerriglia, inizialmente, per proteggere le loro risorse – certamente di gran lunga inferiori agli eserciti NATO, americano o israeliano, solo per citarne alcuni – da perdite irreparabili. Per citare vicende recenti, è notorio che le milizie yemenite di Ansarullah abbiano costruito le strutture per prigionieri di guerra filo-sauditi (in massima parte di nazionalità sudanese) accanto a depositi di munizioni, soprattutto nel governatorato del Dhamar. Quando, nel 2019, la (in ogni modo feroce) aviazione saudita bombardò l’area, uccise 170 suoi soldati e ne ferì 40. Questo caso scuola non è estraneo al modus operandi di altre milizie, che siano filo-iraniane o di altra ideologia: fa parte delle raffinatezze delle guerre asimmetriche. Difficile è però provare e verificare con accuratezza l’utilizzo di una specifica struttura a determinati fini, soprattutto in alcune aree del mondo di difficile accesso sul terreno, dove è molto complesso portare la propria attività di intelligence e dove le osservazioni satellitari sono scarse o più difficili.

È però evidente che, così come alcune milizie hanno massimizzato questa tecnica, così gli eserciti nazionali hanno deciso di asfaltare il diritto bellico per ottenere i propri obiettivi primari di eliminazione, distruzione e punizione del nemico. Così, la retorica degli “scudi umani” nelle guerre recenti ha tracimato ogni verosimiglianza: qualsiasi obiettivo territoriale diventa lecito nella misura in cui si dia per scontato, sulla base di narrazioni supposte e difficili da verificare concretamente, che dentro ogni casa si nasconda uno scantinato zeppo di munizioni e lanciarazzi; che ogni ospedale nasconda reti di tunnel dove albergano centinaia di miliziani; che le scuole, essendo luoghi dove si indottrinano i bambini alla resistenza, siano centri di addestramento con armi, giustificando anche lo sterminio. Questa narrazione nell’ultimo anno ha raggiunto il parossismo sulla bocca di Benjamin Netanyahu: se peraltro la teoria degli “scudi umani” poteva anche reggere su Gaza – nonostante fosse inaccettabile in ogni caso per giustificare attacchi a scuole e ospedali affollati di  profughi e di feriti – è suonata persino ridicola quando è stata rivolta ai libanesi, al punto da generare meme e reel sui social per mostrare al primo ministro di Tel Aviv cosa eventualmente avrebbe trovato nelle cucine dei villaggi del Sud del Libano.

La retorica della vittima e del salvatore

Mentre dunque il diritto umanitario internazionale viene sgretolato, la guerra di “giusta difesa” viene massimizzata e passa a un secondo e a un terzo livello: se la minaccia non è esclusivamente presente nel territorio che è comunque sotto il proprio controllo ma – a più bassa intensità – proviene da territori mediamente contigui, si giustifica l’applicazione della stessa tecnica ai fini di difesa: punizione, eradicazione al suolo, e ancora mancato rispetto del diritto per puntare all’inglobamento territoriale e all’assimilazione culturale in nome della “lotta al terrorismo”. Lo avevamo già visto fare, in modo forzoso, dagli Stati Uniti in Iraq e Afghanistan ma qui è tutto molto più sottile e sfacciato allo stesso tempo. In Libano la chiamano già “dottrina Dahiya”, dal nome dei suburbi a Sud di Beirut bombardati da Israele per uccidere il leader di Hezbollah Hassan Nasrallah: fare fuori cento civili per eliminarne uno solo, un oppositore di alto interesse.

È qui che la “guerra ibrida” dà una spallata alle fastidiose incertezze della “guerra asimmetrica”, e mette a segno un punto inequivocabile a favore di chi ha una superiorità tecnologica non indifferente. Gli omicidi mirati con drone armato di Israele nel centro di Beirut contro i membri del politburo di Hamas prima, e nel cuore di Teheran nei confronti di Ismail Haniyeh, leader di Hamas, poi, senza contare soprattutto la distribuzione e l’esplosione dei cerca-persone in Libano tra il gruppo più vasto degli affiliati al partito e al movimento Hezbollah, dimostrano che le minacce strategiche determinate dalla superiorità tecnologica e di intelligence possono mettere in ginocchio le milizie statuali più accorte e motivate. Tutto questo segna comunque l’ingresso in un ulteriore livello di complessità e di impunità: l’omicidio extragiudiziale internazionale giustificato dal diritto alla difesa e alla esistenza territoriale di Israele che, nel caso dei cerca-persone esplosi, introduce la variabile di piena casualità su target del tutto secondari. Per dirla in un linguaggio più semplice: non è assolutamente rilevante ucciderne venti dal fruttivendolo per colpirne uno, magari l’ultima ruota del carro di Hezbollah, fosse anche l’addetto alla mensa del centro ricreativo. La sua colpa è quella di tenere in tasca questo device, ammesso e non concesso che fosse di sua proprietà o non gli sia stato rivenduto.

Il punto di arrivo di questo processo di avanzamento della guerra Israele-Gaza è la saldatura tra la retorica della vittima e la retorica del salvatore: noi siamo la vostra salvezza da Hamas, noi siamo la vostra salvezza da Hezbollah, noi siamo la vostra salvezza dai pasdaran. Per ottenere, infatti, questa trasformazione e aumentare il consenso regionale, ormai arrivato ai minimi secolari (come evidenziato da una recente indagine dell’Arab Center Washington DC), il primo ministro israeliano si erge a gigante liberatore contro l’Asse del Male filo-iraniano. Chiaramente, per trasformare il nano in un gigante è necessario giocare sullo scacchiere più ampio possibile. La guerra va avanti e andrà avanti fino all’eliminazione del cuore del Male: la Repubblica Islamica dell’Iran.

L’obiettivo non è impossibile per Israele. In Libano Israele gode del dialogo con una dirigenza corrotta che è sempre stata in equilibrio, accettando la presenza di Hezbollah, ma tenendosene formalmente distante e giocando al dialogo con l’alleato statunitense: figure politicamente leggendarie e immarcescibili come il sempreverde presidente del parlamento libanese Nabih Berri o come Samir Geagea, leader del partito cristiano delle Libanese Forces, e chiarissimamente contrario all’influenza siriana nel paese nonché a Hezbollah che avrebbe orchestrato un attentato per farlo fuori nel 2012, sono o potrebbero diventare dei ponti di opportunità politica. Ma il Libano ha una coscienza nazionale forte, una memoria della guerra del 2006 contro Israele molto vivida e, come ha dichiarato di recente una scrittrice libanese liberale molto distante dall’oscurantismo religioso come Joumana al-Haddad, “non è possibile accettare che la liberazione del Libano da Hezbollah venga da un governo ugualmente estremista, terrorista arrogante e ultra-religioso” come l’attuale governo israeliano

Sul piano iraniano, paradossalmente Israele ha molte più possibilità: la sua intelligence ha già penetrato le dirigenze militari e l’apparato dei servizi segreti che gli hanno consentito di orchestrare l’assassinio di Ismail Hanyeh a Teheran; ha dalla sua parte il vasto movimento globale dei bahai da una parte e dei monarchici persiani della diaspora dall’altra, con Reza Phalavi, figlio dell’ultimo shah di Persia, pronto a riprendere in mano Teheran con la benedizione di Israele e degli Stati Uniti. Ma soprattutto ha una vasta maggioranza della popolazione che due anni fa era in piazza per il movimento “Donna, vita, libertà” che accetterebbe probabilmente qualsiasi cosa pur di liberarsi del regime attuale. Nethanyau lo sa e si rivolge direttamente agli iraniani, apostrofandoli con un “voi, nobili persiani sempre più sprofondati nell’abisso”. 

Posto questo, e posta l’evidenza che l’Iran sogna un Medio Oriente senza Israele e che Israele sogna un Medio Oriente senza l’Iran, siamo alla resa dei conti. L’Iran non ha lasciato – come previsto – incompiuta la sua vendetta su Israele contro l’uccisione di Ismail Hanyeh. Bombardando Israele, ha inferto delle perdite mediamente consistenti alle sue strutture militari, in particolare sui depositi di aerei caccia-bombardieri. Sull’argomento vige una assoluta censura da parte dell’IDF, al punto che il giornalista americano Jeremy Loffredo è stato detenuto in Israele per 33 giorni con accuse pesantissime. Le milizie parenti di Teheran non stanno a guardare: gli al-Hashd al-Shaabi in Iraq hanno colpito le basi americane, Ansarullah in Yemen prosegue la sua attività di pirateria contro le petroliere che si avvicinano al Nord di Aden, adesso colpendole anche con piccoli natanti-kamikaze telecomandati come i droni aerei. 

L’IDF bombarda Gaza giornalmente, bombarda Damasco, continua a bombardare il Sud del Libano, inaugura la sua operazione di terra sul fiume Litani, non senza vittime tra i suoi soldati, e intima al contingente UNIFIL di stanza e garanzia in Libano di farle largo. Tutto è spinto così oltre che la speranza di un cessate il fuoco di qualsiasi natura è ormai morta e sepolta.

A Lega Araba e NATO l’ultimo atto per salvare il salvabile

Se Israele, come appare sempre più probabile, si spingerà a un attacco sull’Iran (ipotesi già discussa al telefono con il presidente americano Joe Biden che era perplesso sulla possibilità di colpire i siti petroliferi perché questa strategia avrà un effetto domino sui mercati globali) e se, così facendo Israele trascinerà gli Stati Uniti alla sua piena difesa, ci troveremo di fronte a uno scenario in cui il cerino dell’ipotetico terzo conflitto mondiale resterà in mano, da una parte agli alleati della NATO, dall’altra alla Lega Araba. E se è saggia abbastanza, anche alla Cina. 

Tra tutte le incertezze e le possibilità, su due punti non abbiamo, al momento, alcun dubbio. Il primo: che non saranno le elezioni statunitensi a determinare la fine di questa guerra. L’appoggio di Washington a Israele è e sempre sarà incondizionato. Netanyahu lo sa e questo sarà il suo lasciapassare per completare il lavoro che ha iniziato. Se Israele è una democrazia, la chiave del destino del paese nel suo prossimo futuro è in mano ai suoi cittadini. Ma i peggiori governanti hanno sempre ampio potere quando nell’opinione pubblica dominano orrore, odio, paura. 

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Il secondo: nonostante le cancellerie americane e israeliane vogliano convincerci del contrario, i paesi della Lega Araba potranno lasciar fare Israele contro Hezbollah o contro i pasdaran iraniani, ma fino ad un certo punto. Il nodo palestinese resta, resterà ed è irrisolvibile. Se non nascerà uno Stato di Palestina, non ci sarà alcuna normalizzazione con Israele, soprattutto per l’Arabia saudita. E non ci può essere Stato di Palestina se non si pone fine all’occupazione di insediamento nei Territori, se non si crea una sovranità piena di questo Stato, se l’Autorità Nazionale Palestinese non viene rinnovata nelle sue dirigenze, prone allo status quo degli ultimi venti anni. Senza contare che non è possibile alcuna negoziazione senza avere la piena garanzia che il terzo luogo sacro per l’Islam, la moschea al-Quds in Gerusalemme non venga protetta. Ipotesi peregrina, considerato che la destra messianica israeliana ha in programma il suo abbattimento, quantomeno sul lungo periodo.

Prima del conflitto mondiale, è la morte del diritto internazionale

Prima che tutto precipiti, c’è da registrare l’ultimo atto di questa debacle collettiva: la morte del diritto internazionale. Per quanto le Nazioni Unite si siano attivate in tutte le capacità possibili, certamente in modalità last minute, solo a partire da questo ultimo anno, per costringere Israele a riconoscere la violazione delle risoluzioni internazionali applicate ai Territori Occupati, è francamente inconcepibile assistere a un senso di impunità che nell'immaginario collettivo dei paesi occidentali è associato solo a regimi dittatoriali. Eppure questo è quanto abbiamo visto da parte di Israele. Così, nel suo discorso alle Nazioni Unite, nonostante la sala si fosse svuotata della maggior parte dei suoi rappresentanti, Benjamin Nethanyau poteva permettersi di apostrofare il maggiore consesso internazionale (di cui peraltro Israele fa parte) come “palude antisemita”, e – tacendo sulle vicende che interessano l’URNWA -  si è accettata come inevitabile la nomina del Segretario delle Nazioni Unite Antonio Guterres come “persona non grata” in Israele. Davvero, una cosa di questo genere non l’avevamo vista mai. Resta da capire se ne vedremo ancora delle altre e a quale prezzo.

Immagine in anteprima: frame video PBSNews Hour via YouTube

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