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L’emergenza della peste suina in Italia è il costo di scelte fallimentari e inadeguate

12 Ottobre 2024 12 min lettura

L’emergenza della peste suina in Italia è il costo di scelte fallimentari e inadeguate

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Quelli che durante il Covid-19 erano diventati i familiari bollettini con i dati aggiornati di contagi, morti e guariti sono ormai un lontano ricordo. Il ministero della Salute continua a pubblicare queste informazioni sul suo sito, ma non fanno più parte della nostra quotidianità. Negli ultimi mesi però un’altra emergenza sanitaria - che già da due anni interessa l’Italia - sta colpendo suini e cinghiali causando la morte improvvisa degli animali o altri sintomi come febbre alta, perdita di appetito, debolezza, aborti spontanei, emorragie interne e altre evidenti su orecchie e fianchi: è la peste suina africana (PSA). 

Bisogna precisare che non possono essere trovate delle analogie tra Covid-19 e peste suina africana. Infatti, la peste suina africana non è una zoonosi, ossia una malattia che si trasmette dagli animali all’uomo, ma colpisce esclusivamente le specie animali appartenenti alla famiglia dei suidi (suini domestici e specie selvatiche), risultando altamente contagiosa. Riguardo al modo in cui si gestiscono i contagi e la diffusione di un virus, la pandemia ha segnato un punto di svolta: ci si è interrogati e si è capita l’urgenza di pensare in modo strutturale alle modalità di intervento per possibili situazioni simili. Dalle parole ai fatti la situazione è ben diversa e lo dimostra l’approccio emergenziale adottato nel contrasto dell’epidemia di peste suina africana. Le disposizioni prevedono che appena si registra un caso positivo all’interno di un allevamento, automaticamente, tutti gli animali presenti vengono abbattuti. Ancora una volta la prevenzione è inesistente e si ricorre a risposte emergenziali che spesso si rivelano inadeguate. 

“Il virus si trasmette da un animale malato a un animale sano, compreso il contatto tra suini che pascolano all’aperto e cinghiali selvatici; con l’ingestione di carni o prodotti a base di carne di animali infetti: scarti di cucina, broda a base di rifiuti alimentari e carne di cinghiale selvatico infetta (comprese le frattaglie); con il contatto con qualsiasi oggetto contaminato dal virus: stivali, scarpe o vestiti sporchi, attrezzi zootecnici, abbigliamento, veicoli e altre attrezzature; ed infine con morsi di zecche infette”, si legge sul sito dell’istituto zooprofilattico della Lombardia e dell’Emilia Romagna Bruno Ubertini. Come suggerisce il nome stesso, la peste suina africana è legata alle regioni sub-sahariane, dove la malattia è endemica. Il virus della peste suina africana è un virus molto resistente nell’ambiente, difficile da eradicare. 

In Italia la peste suina africana si è estesa a macchia d’olio e la zona rossa coinvolge quattro regioni - Lombardia, Piemonte, Liguria, Emilia Romagna - ma sono presenti dei cluster di infezione anche in altre regioni. Nello specifico in Italia esistono 4 cluster più o meno estesi e che coinvolgono una o più regioni: Lazio, Campania-Basilicata, c’è poi il cluster nord-ovest che coinvolge più regioni contemporaneamente e la cui estensione territoriale oggi è raddoppiata rispetto alla fine del 2023. Infine c’è il cluster che interessa la Calabria.

Un aggiornamento positivo riguarda l’eradicazione della malattia in Sardegna: la Commissione europea ha riconosciuto la regione come indenne alla malattia. Questa decisione segna la fine di un focolaio di peste suina africana di genotipo I sviluppatosi più di 40 anni fa (nel 1978). 

Le strategie di gestione della peste suina e la situazione attuale

La prima diagnosi di peste suina africana in Italia è stata fatta il 7 gennaio 2022 sulla carcassa di un cinghiale, nelle montagne tra Piemonte e Liguria. Capire come è arrivata e come si sta diffondendo la malattia è difficile. Da quel momento, però, sono state messe in atto strategie spesso fallimentari che non hanno portato all’eradicazione del virus, al contrario in un primo momento si è sottovalutato il problema. Si è puntato soprattutto sull’abbattimento dei cinghiali: questa strategia ha fatto sì che l'estensione geografica dell'infezione aumentasse in maniera esponenziale. 

La lentezza nel mettere in atto queste misure di protezione ha sicuramente influito nella diffusione della PSA. Come racconta Vittorio Guberti, veterinario e ricercatore Ispra (istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale): “Quando l'Italia ha cominciato a mettere le recinzioni, nel giugno 2022, il tracciato delle recinzioni che era stato concordato con gli enti locali era già stato superato dalla malattia”. A quel punto si è preferito incentivare l’abbattimento dei cinghiali, nonostante molti esperti come il dottor Guberti fossero contrari a questa strategia. Le recinzioni sono fondamentali perché bloccano il contatto tra le popolazioni infette e quelle sane. In questo modo si riduce progressivamente la presenza del virus “come hanno fatto Belgio, Svezia e Repubblica Ceca che sono riuscite a eradicare la malattia. In Asia hanno puntato sull'attività venatoria e hanno ottenuto gli stessi risultati che abbiamo ottenuto noi”, precisa Guberti. Altri esempi sono la Polonia e l’Ungheria, anch’esse hanno scelto la caccia e hanno osservato la diffusione geografica del virus mese dopo mese. 

ll cortocircuito sta nel fatto che il cinghiale sottoposto ad attività venatoria subisce una pressione che lo spinge a scappare e quindi nel caso di cinghiali infetti o in incubazione si contribuisce ad aumentare la diffusione geografica del virus. Di conseguenza cacciatori, cani e macchine hanno aumentato la probabilità di trasmissione e la diffusione geografica della malattia: “All’inizio l'area infetta era di circa 500 chilometri quadrati, adesso - a distanza di due anni - ha raggiunto circa 20mila chilometri quadrati”, spiega Guberti.

A inizio luglio un gruppo di esperti europei dell’EU-VET (Veterinary Emergency Team) della Commissione Europea ha fatto un sopralluogo in Lombardia ed Emilia Romagna che ha portato a un rapporto che fa il quadro della situazione italiana riguardo alla gestione delle psa. Gli esperti hanno sottolineato che la malattia continua a diffondersi nel nord Italia; le misure di prevenzione e controllo non vengono applicate in modo coordinato; non c’è un’adeguata sorveglianza che consenta di avere indicazioni precise sull’evoluzione della malattia (indispensabile per pianificare misure di controllo e di verificarne la efficacia); gli esperti italiani non vengono coinvolti nelle decisioni; non esiste una vera strategia che non sia una semplice intensificazione della caccia e degli abbattimenti.

In linea con quanto denunciato dall’Unione Europea è stato presentato in Commissione Europea un nuovo piano d’azione che ha ricevuto valutazione positiva. La nuova strategia prevede quattro azioni: barrieramento, per cui sono già iniziati i lavori sugli assi stradali; depopolamento del cinghiale come strumento per prevenire la diffusione della PSA e non come soluzione del problema; attività di sorveglianza e biosicurezza.

“In questo momento il vero nemico è il virus della peste suina africana. Faremo di tutto per contrastarlo, ma soprattutto per anticiparlo perché in questo momento lo stiamo rincorrendo e finché si rincorre non si risolve il problema. Cerchiamo di anticiparlo ma sappiamo che è un nemico trasparente molto cattivo”, ha affermato il commissario straordinario alla peste suina africana Giovanni Filippini durante uno dei webinar di aggiornamento della situazione epidemiologica organizzati dal ministero della Salute e dall’istituto zooprofilattico della Lombardia e dell’Emilia Romagna Bruno Ubertini.

Inoltre,  Filippini  ha prorogato con modifiche l’ordinanza n. 3/2024: vengono confermate per un altro mese (fino al 31 ottobre 2024) le vigenti misure di gestione dei focolai negli allevamenti nelle regioni Piemonte, Lombardia ed Emilia Romagna. 

La situazione è in evoluzione e viene monitorata. Nel bollettino del 18 settembre, il dottor Giuseppe Ru dell’istituto Zooprofilattico Sperimentale del Piemonte Liguria e Valle d’Aosta, ha presentato i dati (aggiornati al 15 settembre 2024) della PSA in Piemonte e Liguria. La situazione dei suini in Piemonte conta 8 focolai (7 in provincia di Novara e 1 in provincia Vercelli). “I focolai piemontesi sono tutti concentrati in pochi chilometri, quindi tutto ciò suggerisce l’esistenza di un fattore di rischio comune e locale. Questo rischio potrebbe essere determinato da tante cose: potrebbero essere gli operatori della filiera, fornitori, attività collaterali che coinvolgono gli allevamenti. Il fattore umano in questi focolai è molto più importante del cinghiale”. Infine il dottor Ru sottolinea che sono i comportamenti, più che le mancanze strutturali, a contribuire alla diffusione della psa. Ad illustrare la situazione lombarda la dottoressa Silvia Bellini, dirigente responsabile Sorveglianza Epidemiologica

IZS della Lombardia e dell’Emilia Romagna: il quadro presentato mostra che tra le province di Milano, Pavia e Lodi sono stati abbattuti 70898 suini. La dottoressa segnala la recente positività di un cinghiale nella punta estrema della provincia di Pavia. I grafici riportati mostrano come la settimana tra il 26 agosto e il 1° settembre 2024 si sia raggiunto il picco in Lombardia con ben 7 focolai, con le province di Pavia e Lodi maggiormente interessate.

Al 18 settembre il commissario straordinario notificava 29 focolai, ma il quadro epidemiologico in Italia è dinamico. 

Il fattore umano e la biosicurezza sottovalutata

La malattia si diffonde sia per contiguità, quindi da un territorio infetto a uno vicino precedentemente indenne, ma anche per salti e in questo caso la causa è l’uomo che con i suoi comportamenti contribuisce alla diffusione. Un passo fondamentale che deve essere messo in pratica è la biosicurezza ossia una serie di strutture e comportamenti volti a bloccare la peste suina. “Lo Stato e le Regioni possono dare una mano agli allevatori nell’ammodernare o nel mettere in piedi le strutture necessarie alla biosicurezza, come ad esempio i cancelli per la disinfezione e la doppia rete”, spiega Guberti veterinario Ispra. Dall’altro lato però “i comportamenti sono responsabilità del singolo allevatore e bastano pochi allevatori che hanno dei comportamenti non corretti per diffondere il virus”. 

La biosicurezza – prosegue Guberti – si muove su due livelli: uno strutturale che può essere aiutato dal settore pubblico e uno comportamentale che è responsabilità diretta dell’allevatore. Attorno agli allevamenti esiste un sistema di persone e movimentazione di mezzi che va monitorato: “Probabilmente il 95% degli allevatori segue le regole di biosicurezza, ma purtroppo bastano pochi allevatori disattenti per introdurre il virus nell’ambiente antropico e lì il virus fa meno fatica a diffondersi perché soprattutto in certe aree dell'Italia gli allevamenti sono vicinissimi, appartengono a gruppi che utilizzano gli stessi camion dei mangimi, gli stessi mezzi di trasporto e quindi c'è una rete di connessione tra i diversi allevamenti che facilita la diffusione del virus”. 

La biosicurezza deve essere resa un punto centrale nella gestione della PSA negli allevamenti perché il virus è sempre presente grazie ai cinghiali nell’ambiente e ha una grande capacità di sopravvivere. “Non è più il cinghiale che ha il virus ma è l'ambiente, la foresta che ha il virus e quindi chiunque va nella foresta ha una buona probabilità di portare fuori il virus”, precisa il veterinario dell’Ispra.

Il caso PSA del rifugio Progetto Cuori Liberi, una storia di violenza

È il 20 settembre 2023 quando a Sairano, provincia di Pavia, le forze dell’ordine - sotto indicazione dell’Agenzia di tutela della salute (ATS) - entrano nel rifugio “Progetto Cuori Liberi” e, superando violentemente gli attivisti, uccidono 10 suini perché potenzialmente vettori di diffusione della peste suina africana. Il rifugio “Progetto Cuori Liberi” è un’associazione di volontariato antispecista che si occupa di salvaguardare la vita di alcuni animali provenienti da sequestri o da situazioni di maltrattamento. 

“Quando abbiamo saputo che due maiali di Cuori Liberi erano morti di peste eravamo consapevoli che andavamo incontro a una tragedia perché sapevamo che ci avrebbero proposto lo stamping out, ossia una pratica sanitaria che prevede l'uccisione di tutti i soggetti facenti parte di un concentramento di animali anche in caso di uno solo positivo”, racconta a Valigia Blu Sara D’Angelo, coordinatrice della Rete dei Santuari e tra le persone che hanno organizzato e gestito il presidio di resistenza a difesa del santuario Progetto Cuori Liberi. 

Ripercorrendo le vicende di quei giorni D’Angelo racconta: “Nei quattordici giorni precedenti al fatto, i volontari insieme ad altri attivisti animalisti si erano mossi per proteggere i maiali presenti nel santuario da eventuali irruzioni dell’ATS. Ma il 20 settembre durante le prime ore del mattino una squadra di forze dell’ordine in tenuta antisommossa, con 10 camionette, si reca al santuario con l’intenzione di sgomberare i numerosissimi attivisti presenti e di procedere con l’abbattimento dei maiali”. 

L'ordinanza di abbattimento è stata emessa dall'ATS di Pavia e l'esecuzione è stata sollecitata dal commissario straordinario per la psa che all'epoca era Vincenzo Caputo. La coordinatrice della Rete dei Santuari ricorda come in quei giorni concitati si è cercato di provare le strade più disparate: sono state chieste deroghe; si è provato a trattare, a trovare una soluzione. Alle attiviste e agli attivisti non restava altro che la resistenza, ma lo scenario è degenerato: “Hanno picchiato le attiviste e gli attivisti, hanno distrutto i recinti, hanno ucciso i maiali, hanno calpestato i diritti umani, l'empatia, la pietà. Ci siamo trovati veramente in una situazione allucinante. Non c'era necessità di picchiare nessuno, eravamo tutti disarmati, eppure siamo stati picchiati perché occorreva dare un segnale chiaro che di fronte a quest'emergenza non si tratta”. Oltre alla violenza esercitata sulle persone che protestavano in modo pacifico, con la sua irruzione nel rifugio la polizia ha distrutto casette e recinzioni procurando dei danni anche alle strutture del rifugio.

Un ruolo determinante in questa vicenda lo hanno avuto anche le associazioni animaliste più grandi che da subito si sono mobilitate a supporto del “Progetto Cuori Liberi” in particolare con il supporto legale. È il caso di LAV (lega anti vivisezione) che ha fatto ricorso al Tar per sospendere l’ordinanza. “Il ricorso al Tar non è stato accolto e quindi immediatamente abbiamo fatto ricorso anche al Consiglio di Stato per provare ad avere lo stop all'ordinanza di uccisione, ma anche da lì non è arrivata. Era proprio una corsa contro il tempo e contro il sistema che non prevede il trattamento diverso di questi animali rispetto a quelli che sono allevati a scopi alimentari”, spiega Lorenza Bianchi, responsabile area transizione alimentare della LAV. Poi aggiunge con amarezza: “La strage di Cuori Liberi non mi risulta aver fermato la peste suina”. Sul fronte legale, rispetto a Cuori Liberi, continua il procedimento e il 6 dicembre 2024 ci sarà l'udienza di merito del Tar che si pronuncerà sulla legittimità o meno dell’ordinanza di uccisione.

Dal superamento della PSA ai nuovi scenari possibili: cosa fanno gli altri paesi

Sulla situazione della peste suina in Europa, Carmen Iscaro - dottoressa del laboratorio nazionale di referenza delle pesti suine istituto zooprofilattico sperimentale Umbria e Marche - fa il punto della situazione nel bollettino del 25 settembre: “In Europa oggi sono 16 i paesi colpiti dalla malattia. Il virus è entrato nei Paesi Baltici nel 2014. Esistono ancora paesi che si infettano per la prima volta: è successo nei primi mesi del 2024 per Montenegro e Albania, ma ci sono anche paesi che dopo aver sperimentato la malattia e dove averla eradicata, la risperimentano. La Svezia è il terzo paese che è riuscito a eradicare la PSA”. Come spiega Iscaro, la Svezia ha sperimentato la malattia nel cinghiale e da quel momento sono state attuate delle misure di controllo stringenti come il campionamento delle carcasse in siti creati ad hoc e l’utilizzo di recinzioni. In questo modo l’infezione è stata contenuta in una zona poco estesa a livello territoriale.

Tornando all’Italia e alla gestione della PSA da un punto di vista dei finanziamenti, proprio qualche giorno fa il ministro dell'Agricoltura, della Sovranità alimentare e della Foreste, Francesco Lollobrigida, ha annunciato che verranno stanziati aiuti per 18,5 milioni di euro alle aziende danneggiate dalla peste suina sia per danni per la perdita di capi sia per il mancato export. 

“Questi 18,5 milioni si vanno ad aggiungere ad altre decine di milioni che sono stati stanziati in precedenti decreti sempre per andare a sostenere questo settore”, dice Bianchi responsabile area transizione alimentare della LAV. Per Bianchi servirebbe aggiungere un tassello in più: “Vi diamo un sostegno economico perché avete perso la vostra attività però è vincolato al fatto che facciate qualcos'altro. Questa sarebbe una misura lungimirante: legare dei fondi alla riconversione in altre attività produttive come hanno fatto in altri paesi”. 

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C'è l'esempio dell'Olanda che ha previsto una riduzione del 30% del numero di animali allevati entro il 2030 in risposta soprattutto a un'emergenza ambientale di inquinamento da nitrati. D’angelo, coordinatrice della Rete dei Santuari racconta di alcuni progetti in Svizzera e in Austria sulla riconversione di allevamenti intensivi: si cerca di accompagnare gli allevatori a trovare un altro business generalmente nell'agricoltura. “Vengono dati degli incentivi anche alcuni paesi nordici per la chiusura degli allevamenti. Noi, invece, diamo i soldi per mettere delle toppe e tenerli aperti. Siamo anacronistici”, denuncia D’Angelo.

Per D’Angelo, l’emergenza PSA ha mostrato come l’industria della carne sia un sistema produttivo insostenibile e “basato solo sugli interessi della lobby della carne che vanno a braccetto dell'altra lobby potentissima che è quella delle armi e della caccia”. Quella che viene definita emergenza sanitaria è sicuramente un'emergenza sanitaria per i suini, ma anche un'emergenza economica per il comparto zootecnico. Si continua ad alimentare così un sistema che fa male agli animali, ha impatti ambientali altissimi e ripercussioni sulla salute pubblica. Sia Bianchi che D’Angelo sono d’accordo, per tenere sotto controllo la peste suina serve una politica di riconversione.

Immagine in anteprima: frame video TG2000 via YouTube

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