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Dai rapporti con Putin all’insurrezione del 6 gennaio: le nuove devastanti rivelazioni su Trump (che quasi certamente non avranno ricadute sulle elezioni)

11 Ottobre 2024 8 min lettura

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Dai rapporti con Putin all’insurrezione del 6 gennaio: le nuove devastanti rivelazioni su Trump (che quasi certamente non avranno ricadute sulle elezioni)

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Lo scontro elettorale tra Donald Trump e Kamala Harris è in stallo, in una condizione di perfetta parità tra i candidati. Come è già avvenuto altre volte nella storia statunitense, a sbloccare il pareggio potrebbe arrivare una “sorpresa di ottobre”, un avvenimento che, siccome si collocherebbe molto vicino al momento del voto, avrebbe un impatto mediatico tale da decidere l’esito elettorale. Il termine “sorpresa di ottobre” è diventato popolare nel 1980, quando parte della campagna Reagan si aspettava che Carter avesse segretamente chiuso un accordo con l’Iran per riottenere gli ostaggi americani bloccati a Teheran, e che lo avrebbe annunciato pochi giorni prima delle elezioni per ottenerne un vantaggio finale. 

Carter non aveva chiuso nessun accordo, e anzi alcuni giornalisti ritengono che fosse in realtà Reagan ad aver ottenuto garanzie dall’Iran per ottenere gli ostaggi solo dopo la sua vittoria, ma il termine è rimasto in auge. La “sorpresa di ottobre” più famosa dell’era moderna è quella del 2016: il direttore dell’FBI James Comey ha riaperto il caso delle mail governative possedute da Hillary Clinton in alcuni suoi dispositivi privati 11 giorni prima delle elezioni, dando involontariamente a Trump lo slancio finale per ottenere la presidenza. Una delle sorprese di ottobre di quest’anno potrebbe essere la scottante rivelazione presente in “War”, il nuovo libro del giornalista premio Pulitzer Bob Woodward: ha scoperto che nel 2020, quando gli Stati Uniti non avevano abbastanza test per identificare il Covid-19, Trump ne ha regalati alcuni al presidente russo Vladimir Putin. 

Il Cremlino ha ufficialmente confermato questa storia. Sembra, poi, che Trump e Putin si siano sentiti telefonicamente più volte dopo questo favore dell’ex-presidente, anche dopo l’inizio dell’invasione su larga scala che la Russia conduce in Ucraina dal 2022. Tutto questo getta nuove ombre sulle posizioni che Trump assume riguardo agli aiuti militari a Kyiv: nell’ultimo anno, infatti, l’Ucraina ha dovuto attendere a lungo che la Camera statunitense sbloccasse l’invio di armi, per via dell’oltranzismo di parte dei Repubblicani. Trump stesso ha più volte dichiarato che con lui al potere la guerra tra Russia e Ucraina finirebbe nel momento esatto del suo insediamento: come ha fatto notare Margaret Sullivan sul Guardian, probabilmente perché lascerebbe totale mano libera a Putin.

Quella che però sembra essere la notizia più interessante e rivelatrice della condotta di Trump al potere riguarda i nuovi capi d’accusa che il procuratore Jack Smith ha imputato al tycoon relativamente ai fatti del 6 gennaio 2021, quando un gruppo di sostenitori dell’allora presidente assaltò il Campidoglio nel tentativo di bloccare il riconoscimento della vittoria di Joe Biden alle elezioni, in corso in quel momento. Il caso, con diversi capi d’accusa, era già finito davanti alla Corte Suprema a luglio: questa, però, con la sentenza Trump v. United States, ha garantito, per qualsiasi presidente degli Stati Uniti in carica, una vasta immunità sugli atti compiuti in quanto titolare del potere esecutivo. 

I sei giudici conservatori hanno tutti votato per la ratifica di questa immunità mentre le tre giudici progressiste hanno prodotto un’opinione in dissenso molto forte, scrivendo che con la sentenza appena passata si creava un istituto della presidenza più simile a un potere monarchico, e che nessuno dei costituenti avrebbe voluto porre un uomo, per quanto importante fosse, al di sopra della legge. Passata la sentenza, Smith ha riscritto i capi d’accusa, dovendosi muovere nel nuovo recinto di costituzionalità appena tracciato dalla Corte: il suo obiettivo è negare che a Trump spetti un’immunità di qualsiasi tipo, avendo agito nel tentativo di sovvertire il processo elettorale da privato cittadino, candidato alle presidenziali, e non da presidente in carica.

Il rapporto, che la giudice distrettuale di Washington Tanya Chutkan ha reso disponibile, pur con alcune omissioni, è lungo 165 pagine e racconta dettagliatamente gran parte dei momenti concitati della giornata del 6 gennaio, dal comizio di Trump all’Ellipse, il parco a sud della Casa Bianca, al momento in cui i sostenitori dell’allora presidente sono riusciti a introdursi nel Campidoglio. La tesi di Smith è che il potere esecutivo – e quindi la presidenza – non ha alcun potere nella certificazione del processo elettorale e questo renderebbe le mosse di Trump nel tentativo di sovvertirne l’esito quelle di un cittadino comune, candidato alle elezioni: la decisione riguardo all’integrità delle elezioni non ricade costituzionalmente sull’esecutivo proprio perché un presidente non dovrebbe avere il potere di giudicare un’elezione in cui si trova direttamente implicato. Se la Corte ha ribadito che si può processare un presidente se i temi della disputa non sono intrusioni nel funzionamento del potere esecutivo, Smith ribatte, muovendosi pienamente all’interno del nuovo perimetro costituzionale, che questi non possono esserlo proprio perché il presidente non ha potere sulla certificazione elettorale.

Smentendo molte dichiarazioni dell’ex-presidente, il rapporto rivela che Trump ha passato tutto il pomeriggio del 6 gennaio a guardare i canali all-news e utilizzare Twitter, essendo quindi perfettamente consapevole di quello che stava succedendo, non bloccando volontariamente il caos. Sono presenti varie testimonianze di dialoghi che Trump avrebbe avuto, da novembre in avanti, con l’ex-vicepresidente Pence: quest’ultimo, già il 7 novembre, avrebbe detto a Trump di non discutere sul risultato elettorale, ma di costruire piuttosto un Partito Repubblicano d’opposizione per ricandidarsi nel 2024; di contro Trump avrebbe continuato a cercare di convincere Pence di utilizzare il suo ruolo di presidente del Senato, che spetta di diritto al vicepresidente, per bloccare la certificazione della vittoria di Biden. 

Quando il tycoon capì che Pence non avrebbe mai sovvertito l’esito elettorale, Trump gli ha scatenato contro i suoi accoliti: in un tweet del 6 gennaio ha accusato Pence di non avere il coraggio di fare “ciò che è giusto”. In quel momento Trump, che stava guardando i notiziari in televisione, sapeva che un gruppo di suoi sostenitori aveva fatto irruzione in Campidoglio e si stava dirigendo verso l’aula in cui era in corso la certificazione dei voti, e il tweet serviva a comunicare loro che Pence li aveva abbandonati; pochi minuti dopo, il Secret Service ha dovuto prelevare Pence e portarlo in un luogo sicuro, mentre i sostenitori del movimento MAGA urlavano a gran voce di impiccarlo. Quando Trump è stato informato del fatto che Pence fosse riuscito ad arrivare in una località sicura, avrebbe risposto “e a me cosa importa?”.

Lo schema che ha portato al 6 gennaio – nel rapporto Smith – diventa evidente da mesi prima: il procuratore accusa l’ex-presidente di essere il vertice di un piano criminale volto a sovvertire le elezioni in suo favore. Trump sarebbe a capo di una banda di cospiratori, tenuti anonimi nel rapporto ma identificati in 71 diversi individui, che ha cercato in ogni modo di sovvertire il processo elettorale. Una fonte ha ricordato una discussione tra Trump, la moglie Melania, la figlia Ivanka e il genero Jared Kushner, in cui il tycoon avrebbe detto “Non importa se le elezioni si vincono o si perdono, l’importante è continuare a combattere”. 

Da quando alla Convention del Partito, tenutasi a Washington nell’agosto del 2020, Trump ha asserito che l’unico modo che aveva di perdere era che gli altri barassero, sarebbe stato il perno di decine di tentativi per rimanere alla Casa Bianca: dal mandare persone a contestare le operazioni ai seggi e nei luoghi dove si contano i voti, per instillare l’idea che chi contava non stava eseguendo un processo alla luce del sole, al dichiararsi vincitore durante la notte elettorale, sfruttando il fenomeno che molti politologi hanno definito red mirage. Siccome i repubblicani votano ai seggi molto più dei democratici, che preferiscono il voto per posta, anche perché Trump per mesi ha costruito la narrazione che quest’ultimo non fosse sicuro e passibile di frodi, durante la notte elettorale i repubblicani avrebbero avuto infatti un vantaggio parziale in molti Stati chiave, in attesa del conteggio dei voti per posta che sarebbe arrivato successivamente.

Il rapporto Smith, giunto a meno di un mese dalle elezioni, è molto importante per i democratici, che avranno nuove possibilità di parlare di uno degli argomenti in cui sono più avvantaggiati, la difesa della democrazia. Nonostante questo le opinioni giornalistiche sul tema si sono divise: alcuni editorialisti, soprattutto di area conservatrice, hanno evidenziato come le mosse di Smith fossero prettamente politiche. Il procuratore poteva ricostruire il caso, ma avrebbe dovuto aspettare che passassero le elezioni, anche perché non c’è nessuna possibilità che tutto questo possa venir discusso in aula prima del 5 novembre. Questo rapporto dovrà, infatti, tornare davanti alla Corte Suprema che decreterà se ci sono gli estremi per processare Trump; senza contare che, in caso di vittoria repubblicana, Trump darebbe il benservito a Smith e il caso verrebbe affossato. La mossa di Smith – per questi editorialisti – è il tentativo di creare una “sorpresa di ottobre” e di svantaggiare Trump nella corsa elettorale, politicizzando il potere giudiziario, che invece dovrebbe essere super-partes.

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Sempre Margaret Sullivan ha invece riflettuto sul perché la notizia ha avuto un risalto minore sui giornali. È vero che se ne è parlato, e che il rapporto è stato riportato integralmente sui siti di varie testate, ma ha avuto un peso minore nelle aperture dei quotidiani rispetto alla riapertura del caso delle mail di Clinton nel 2016. L’aria che si respira è che nel rapporto Smith non c’è scritto niente di davvero nuovo o inaspettato rispetto a tutto quello che già sapevamo sui comportamenti di Donald Trump dalla sconfitta del 2020 in avanti, e quindi molti non vi abbiano dato particolare risalto; non sarebbe, quindi, una vera “sorpresa di ottobre”. Scrive Sullivan:

Non si può dire che i media abbiano ignorato il rapporto di Jack Smith: la notizia è stata coperta ovunque, con storie, editoriali e commenti. Ma si può dire che non ha avuto il giusto risalto, dati i suoi contenuti, che avrebbero dovuto squalificare Donald Trump come candidato alla presidenza.

Probabilmente si trova qui il paradosso delle elezioni del 2024: un sostanziale pareggio tra una candidata che rispetta la legge, e uno che tutti sanno ha provato in ogni modo a rimanere al potere con ogni mezzo. Continuare a leggere di come Trump ha messo in pericolo agenti di polizia, deputati, perfino il suo vicepresidente nel tentativo finale di sovvertire il processo elettorale non genera nessuna sorpresa: gli statunitensi che andranno a votare il 5 novembre per metà pensano che Donald Trump sia il più grande ostacolo alla tenuta democratica del Paese, per metà invece ritiene che gli atti che ha compiuto erano nel pieno interesse della salvaguardia del paese stesso. Senza nessuna “sorpresa di ottobre” all’orizzonte, la vittoria delle elezioni appare sempre più sul filo di margini molto ristretti.

(Immagine anteprima via Flickr)

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