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Missili su Tel Aviv, l’attacco iraniano visto da Teheran

2 Ottobre 2024 12 min lettura

Missili su Tel Aviv, l’attacco iraniano visto da Teheran

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Alla fine Benjamin Netanyahu ci è riuscito, ad avere un confronto diretto con l’Iran, e la pazienza strategica della Repubblica Islamica sembra finita. Dopo una lunga escalation di azioni ostili con cui saggiare le reazioni di Teheran – dagli attacchi militari contro le forze sue e dei suoi alleati tra Libano e Siria, agli attentati e agli omicidi mirati anche sul suolo iraniano, dalla paternità mai confermata né smentita - il governo di Israele può finalmente incassare proprio quella reazione, da parte iraniana, che giustificherebbe il conflitto aperto su scala regionale tanto temuto, dal 7 ottobre in poi, quanto oggi più incombente che mai. 

La notte scorsa Teheran ha lanciato circa 180 missili balistici su Israele, molti respinti ma altri giunti a destinazione. Non avrebbero provocato vittime, tranne – ironia della sorte - un lavoratore palestinese ucciso a Gerico, nella Cisgiordania occupata. Oggi il Tehran Times, il quotidiano in lingua inglese con cui la Repubblica Islamica si presenta all’estero, è uscito con un titolo che la dice lunga: “Siamo pronti”, pronti alla guerra. A parlare per primi sono i vertici dell’IRGC, il Corpo dei guardiani della rivoluzione o Pasdaran, con due dichiarazioni in poche ore, la prima di conferma degli attacchi missilistici, la seconda con l’annuncio che tre basi militari vicino a Tel Aviv erano state prese di mira.

È la seconda volta che l'Iran lancia missili dal proprio territorio – ricorda il quotidiano - “nei territori occupati”, cioè contro Israele. La prima operazione si chiamava “True Promise” e risale a metà aprile, quando l’Iran rispose all’attacco al consolato iraniano di Damasco che uccise, insieme ad una quindicina di altre persone, l’alto ufficiale dei Pasdaran Mohammad Reza Zahedi. Quella di ieri era invece l’Operazione True Promise II: una “promessa” finalmente mantenuta, dopo tante minacce di ritorsioni che non si erano ancora concretizzate, ma anche una risposta fattuale ai tanti, nel panorama politico interno e tra le milizie alleate e i simpatizzanti della Repubblica Islamica nella regione, che chiedevano che finalmente Teheran cominciasse a darle di santa ragione al “nemico sionista”. Il quale uccideva impunemente decine di migliaia di palestinesi a Gaza, assecondava le violenze dei coloni in Cisgiordania e ora aveva superato ogni freno anche in Libano, uccidendo il leader di Hebzollah, Hassan Nasrallah, schiantando con lui le vite di un numero ancora imprecisato di persone in Libano e gettando sulla strada un milione (secondo l'ONU) di sfollati libanesi. 

Stavolta Teheran, dunque, ha fatto sul serio. In aprile, precisa ancora il Tehran Times, “l'IRGC ha utilizzato circa 300 dei suoi droni di vecchia tecnologia e una manciata di missili balistici”; ieri l'Iran ha schierato missili ipersonici per la prima volta da quando ha annunciato di averli, secondo la tv di Stato iraniana. Nonostante le sofisticate difese israeliane, affermano ancora i comandi dei Pasdaran, “circa il 90% dei nostri missili lanciati ha colpito con successo i loro obiettivi, spaventando i sionisti per l'intelligence e le capacità operative dell'Iran". E così è stata fatta vendetta per la morte del capo politico di Hamas Ismail Haniyeh, il 31 luglio scorso a Teheran, e anche di Nasrallah e di Abbas Nilforooshan, vicecomandante dei pasdaran morto con il leader di Hezbollah nel devastante attacco sul complesso residenziale di Beirut del 27 settembre. 

Le promesse “dei leader USA e dei paesi europei” di un cessate il fuoco a Gaza in cambio della rinuncia dell’Iran a “vendicare l’assassinio di Haniyeh erano tutte bugie", aveva detto il presidente Masoud Pezeshkian due giorni dopo l'assassinio di Nasrallah, osservava ieri lo stesso giornale, ricordando le pressioni diplomatiche su Teheran la scorsa estate. “A Teheran è stato chiesto di trattenersi per consentire ai colloqui sul cessate il fuoco, ripresi solo dopo la morte di Haniyeh, di avere successo. Nessun cessate il fuoco è ancora in vista due mesi dopo”.

E dunque ormai il Rubicone è stato attraversato e a parlare sono i militari. Ma anche il mite Pezeshkian, quello stesso presidente che solo pochi giorni prima si era presentato alla sua prima Assemblea generale dell’ONU rinnovando agli USA la disponibilità a riprendere i negoziati sul programma nucleare iraniano, sembra aver aderito alla logica di chi ha gonfiato i muscoli e si è preso la scena. “Sulla base di diritti legittimi e con l'obiettivo di pace e sicurezza per l'Iran e la regione – twitta il presidente sull’account ufficiale del governo - è stata data una risposta decisa all'aggressione del regime sionista. Questa azione è stata in difesa degli interessi e dei cittadini dell'Iran. Fate sapere a Netanyahu che l'Iran non è un paese belligerante, ma è fermamente contrario a qualsiasi minaccia. Questa è solo una piccola parte delle nostre capacità. Non entrate in conflitto con l'Iran”. Un messaggio con una doppia valenza, nessuna delle quali andrebbe estrapolata da sola. 

Severo contro l’Occidente l’ex ministro degli Esteri Javad Zarif, il grande negoziatore dell’accordo sul nucleare del 2015 ora vicepresidente per gli affari strategici di Pezeshkian. “L'ipocrisia occidentale non è solo scandalosa, ma anche estremamente pericolosa. Gli Stati occidentali hanno aiutato e favorito il genocidio israeliano a Gaza e hanno acconsentito alle aggressioni israeliane contro Iran, Palestina, Libano, Siria, Yemen e altri paesi della regione. L'Iran ha un diritto intrinseco all'autodifesa contro i ripetuti attacchi armati israeliani contro il territorio iraniano e i suoi cittadini. Israele e i suoi alleati sono i soli responsabili di tutte le conseguenze delle persistenti provocazioni ed escalation di Israele”. 

Non usa mezzi termini la missione iraniana presso l’ONU. “La risposta legale, razionale e legittima dell'Iran agli atti terroristici del regime sionista, che hanno coinvolto cittadini e interessi iraniani e violato la sovranità nazionale della Repubblica islamica dell'Iran, è stata debitamente data. Se il regime sionista osasse rispondere o commettere ulteriori atti di malevolenza, ne conseguirebbe una schiacciante risposta”. 

Ma dall’attuale ministro degli Esteri Abbas Araqchi, già fine negoziatore a Vienna, giunge un’apertura: per l’Iran l’azione può ritenersi conclusa, a meno che non sia Israele a voler continuare la guerra. Con l’attacco di ieri sera “abbiamo esercitato l'autodifesa ai sensi dell'articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite, prendendo di mira esclusivamente i siti militari e di sicurezza responsabili del genocidio a Gaza e in Libano. Lo abbiamo fatto dopo aver esercitato un'enorme moderazione per quasi due mesi, per dare spazio a un cessate il fuoco a Gaza. La nostra azione è conclusa a meno che il regime israeliano non decida di invitare a ulteriori ritorsioni”. Tocca ora ai sostenitori di Israele “frenare i guerrafondai a Tel Aviv”. 

Per Teheran può anche chiudersi qui, la guerra regionale può attendere 

Se dunque tra i falchi e le colombe sembrano essere stati i primi infine a prevalere a Teheran, come da una prima analisi del New York Times, proprio queste ultime parole aprono a una lettura diversa. Come già accaduto in aprile, Teheran ha voluto lanciare un messaggio forte per ristabilire la sua capacità di deterrenza e riguadagnare prestigio tra i suoi alleati regionali, ma è anche disposta a fermarsi qui: proprio da dove potrebbero aprirsi nuovi spazi per la diplomazia. 

Ne è convinto un diplomatico europeo molto attento al dossier iraniano, che preferisce rimanere anonimo. Innanzitutto, premette, quella dell’attacco su Israele è stata “una decisione di sistema, del ‘nezam’: questa distinzione fra falchi e moderati non vale più quanto in passato, i ranghi si sono ricompattati con le ultime elezioni”. Certamente a pesare sulla scelta dell’attacco - osserva - sono state le critiche dei protagonisti dell’Asse della resistenza che rimproveravano Teheran per non essere  ancora intervenuto, e ieri vi è dunque stato un recupero di fiducia da parte degli alleati. Ma anche questo secondo attacco, come quello di aprile, è stato ampiamente annunciato, “telefonato” come si usa dire, alle controparti. Inoltre, sembra non avere quasi provocato vittime, con l’eccezione di cui si è detto, forse anche deludendo quanti speravano in una vendetta più sanguinosa dopo il tragico bilancio dei bombardamenti di Israele. 

Insomma, le risposte di Teheran restano ancora su un piano poco più che simbolico e non pienamente ritorsivo, a sottolineare quasi una sorta di superiorità morale rispetto al governo di Netanyahu – anche se, aggiunge il diplomatico,  Teheran sa bene che gli USA entrerebbero in guerra direttamente se vi fossero vittime sul fronte opposto. Ma il carattere limitato dell’attacco “permette ancora a Washington di esercitare una moral suasion, consente un crisis management, in cui l’Iran gioca la parte di un attore razionale”. 

E se invece la crisi ormai non fosse più gestibile? “Teheran si prepara a questo scenario da vent’anni – risponde - il punto è se Netanyahu si spingerà oltre. Washington ha capito che se questo scontro continua, Teheran uscirà dall’NPT (il Trattato di non proliferazione nucleare), caccerà fuori tutti gli ispettori dell’AIEA (l'Agenzia Internazionale per l'Energia Atomica) e farà il suo test atomico, scenario cui gli USA non vogliono arrivare”. 

Le tensioni tra Pakistan e India sono finite quando il primo ha fatto i suoi test atomici, ricorda ancora il diplomatico. E se è vero che Israele può facilmente bombardare i siti nucleari iraniani, può certamente distruggere quelli, conclude, ma non la capacità ormai acquisita di dotarsi di ordigni nucleari – gli stessi che invece Israele, che non aderisce all’NPT né a certe misure di salvaguardia all’AIEA, possiede da tempo pur senza averlo mai ammesso. 

Sempre più avvelenato il frutto del ritiro USA dall’accordo sul nucleare 

Insomma, si continuano a raccogliere i frutti del peccato originale di sei anni fa, quando gli USA di Donald Trump abbandonarono quell’accordo nucleare che l’Iran stava rispettando alla lettera, come ripetutamente certificato allora dall’AIEA. Ora invece, proprio per reazione all’azione statunitense, Teheran ha uranio arricchito a sufficienza per dotarsi in breve tempo di un ordigno, e  ormai se ne parla apertamente persino in Parlamento. Qui il deputato Ahmad Naderi ha dichiarato nei giorni scorsi: “È giunto il momento di rivedere la dottrina nucleare. Le relazioni politiche internazionali erano e sono basate sull’equilibrio di potere. Bisogna fare qualcosa prima che sia troppo tardi”. Insomma, un tabù è stato superato e il tema di dotarsi di una deterrenza nucleare è entrato ormai nel discorso pubblico. 

Articola più ampiamente la questione Ali Akbar Dareini, giornalista e analista geopolitico che è stato per anni direttore dell’ufficio di Teheran della statunitense Associated Press, per poi scrivere una storia del nucleare iraniano in tre volumi (Legitimate Deterrence: A Thrilling Story of Iran's Nuclear Program). La ragione principale del genocidio, del terrorismo e delle guerre di Israele è la mancanza di equilibrio di potere in Medio Oriente – ci diceva un paio di giorni fa -. Non puoi privarti delle armi nucleari quando le ha il tuo nemico. Gli americani hanno chiesto all'Iran di non vendicarsi per l'assassinio di Haniyeh e che avrebbero ottenuto un cessate il fuoco a Gaza. Gli americani hanno forse mantenuto la promessa? È stata una tattica ingannatoria da parte americana per consentire a Israele di estendere la sua guerra genocida e colpire gli alleati iraniani”. 

Ma non è ormai troppo tardi, per acquisire questa capacità di deterrenza nucleare, alla luce non solo dei sabotaggi subiti in passato ma anche della guerra alle porte? “Il mio suggerimento immediato è che l'Iran si ritiri dall’NPT ma senza dotarsi di una bomba, e ponendo le condizioni per rientrare nello stesso accordo”. Interpellato in merito all’attacco di ieri sera, Dareini ha ribadito che l’Iran ha fatto i suoi calcoli e, nel caso di un contrattacco israeliano, ha già avvertito Washington delle conseguenze. 

“Gli americani stanno ora minimizzando l'impatto della rappresaglia iraniana – ci dice stamani – e questa è una possibile indicazione che starebbero provando a domare il lunatico Netanyahu, che tuttavia potrebbe ancora reagire. Da parte sua, l’Iran è pronto per il prossimo round. Ha già deliberatamente preso di mira installazioni militari e di sicurezza, potrebbe ora colpire siti economici chiave e paralizzare l'economia di Israele. Dipende da Biden ora scegliere se cadere nella trappola di Netanyahu, che cerca di trascinare gli Stati Uniti in una guerra devastante in Medio Oriente. La rappresaglia di ieri sera ha dimostrato che i fitti sistemi di difesa aerea di diversi stati, tra cui gli Stati Uniti, più Arrow 2 e 3 di Israele, David Sling e Iron Dome, non possono fermare i missili iraniani, la maggior parte dei quali ha colpito gli obiettivi”. 

Ma intanto, sottolinea, Teheran “non ha colpito nessun campo profughi, nessuna scuola, nessun ospedale o area residenziale, non ha ucciso donne e bambini nelle loro case, non ha ucciso medici o infermieri. Ha colpito invece siti terroristici che hanno massacrato palestinesi e libanesi, e basi aeree e centri di spionaggio che hanno compiuto attacchi terroristici contro l'Iran”. 

Il successo dell’operazione, conclude, “significa che Israele deve pensarci due volte, prima di impegnarsi in nuovi avventurismi. Secondo me la possibilità di una guerra più ampia oggi è minore di quanto fosse prima della rappresaglia iraniana, non maggiore”.

“La Repubblica Islamica non è l’Iran”, le diverse voci del dissenso

Ma le ragioni della Repubblica Islamica non sono le stesse dei suoi oppositori, in Iran come all’estero. Iranwire - sito di opposizione fondato dal giornalista Maziar Bahari e basato a Londra, molto ricco di contenuti -, segnala per esempio che l’intelligence dei Pasdaran ha lanciato un avvertimento agli iraniani, sconsigliando loro di sostenere Israele sui social media, atto che viene considerato un crimine da punire severamente. Avvertimento che lascia immaginare quanto siano diffusi sui social i messaggi che prendono le distanze dall’ultima azione del governo: cosa che di per sé, d’altronde, non vuol dire essere sostenitori di Israele, anche se questa finisce spesso per essere l’accusa nei confronti del dissenso.

Lo stesso Iranwire analizza poi nel dettaglio l’art. 51 della Carta delle Nazioni Unite, cui si è richiamato Teheran per giustificare il suo attacco di ieri come un’azione di legittima difesa. E presenta una dettagliata storia di Nasrallah, che – si afferma - “sarà probabilmente ricordato come una delle figure straniere più odiate dagli iraniani”, insieme a leader quali il russo Vladimir Putin e l’iracheno Saddam Hussein, la cui invasione dell’Iran nel 1980 condusse a una guerra lunga otto anni.

La tv di Stato Presstv segnala al contrario che gli iraniani del web (“netizens”) si sono subito espressi sui social media “per elogiare la rappresaglia dell’Iran contro gli assassinii israeliani e la guerra genocida in corso a Gaza”. L’agenzia governativa Irna, da parte sua, abbonda di foto sulle manifestazioni svoltesi a Teheran a sostegno dell’attacco missilistico di ieri, mentre sulla centralissima Piazza Engelab appariva un enorme murales con la scritta: "Se volete la guerra, noi siamo maestri nella guerra". La Repubblica Islamica parla da decenni con i murales, siano essi di propaganda o commemorativi o decorativi. Dal carcere di Evin, invece, giunge indirettamente la voce della Premio Nobel, Narges Mohammadi: sul suo profilo Instagram, gestito da persone di sua fiducia, si sostiene il post del segretario generale dell’Onu Antonio Guterres: “Condanno l’allargamento del conflitto in Medio Oriente con un’escalation dopo l’altra. Questo deve finire. Abbiamo assolutamente bisogno di un cessate il fuoco.”

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Qui si è già più volte parlato della pluralità delle voci dell’opposizione iraniana, e di alcune significative differenze tra quelle interne e quelle della diaspora. Una delle figure più influenti all’estero è quella dell’attivista irano-americana Masih Alinejad, che sul suo profilo “X” scrive: “L'Iran non è in guerra con Israele. È la Repubblica islamica che è in guerra sia con Israele che con l'Iran. Quest'uomo – aggiunge a commento di una foto della Guida Ali Khamenei - è un assassino. Ha trascinato l'intero Medio Oriente in guerra e spargimento di sangue per vendicare l'uccisione di due terroristi: i leader di Hamas e Hezbollah. Per lui, conta solo la sua ideologia, non la vita delle persone”. 

“Ali Khamenei ha portato la nostra amata nazione sull'orlo della guerra. Questo tiranno, questo paria, è sempre più isolato”, scrive da New York anche il principe Reza Pahlavi, leader dei monarchici. “Chiedo alla comunità internazionale – prosegue - di stare al fianco del popolo iraniano. Questo è un momento di opportunità. Questo regime non è mai stato così debole o diviso. I miei compatrioti stanno lottando per salvare la loro nazione e per essere un partner per la pace. Siate loro alleati nella loro lotta. Meritano il vostro massimo sostegno”. Sarebbe interessante chiedere a Reza Pahlavi e ai suoi simpatizzanti, e da parte loro doveroso rispondere, in cosa esattamente consista il “sostegno” più volte richiesto alla comunità e all’opinione pubblica internazionale. Se dovesse trattarsi di un sostegno a Israele in una guerra volta a far cadere la Repubblica Islamica, sarebbe opportuno ricordare come sono finiti avventuristici precedenti del genere in Afghanistan, Iraq, Libia e – infine – Siria. Così, per dovere di cronaca. 

Immagine in anteprima: frame video Channel 4 News via YouTube

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