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Sono in Italia da quando avevo due anni, dopo 25 anni non sono ancora cittadino italiano

26 Settembre 2024 8 min lettura

Sono in Italia da quando avevo due anni, dopo 25 anni non sono ancora cittadino italiano

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Mi sono ritrovato in Italia quasi inconsapevolmente. È come se ci avessi sempre vissuto: come chi ci è nato, non ho mai avuto una scelta da prendere. Non avevo ancora compiuto due anni quando fui catapultato nella periferia di Napoli, per scappare dalla devastazione economica e sociale dell’Ucraina post-sovietica.

Sono cresciuto sentendomi chiamare Andrea, all’asilo come pure dai miei genitori. Quando mia madre mi spiegava il perché di quell’Andriy sulle scartoffie che rovistavo in giro per casa, faticavo a comprendere. Credevo si riferissero a mio padre, mio omonimo (pratica comune nei paesi dell’Europa orientale), ma poi leggevo la mia data di nascita.

Quando arrivai era il 1999. Nello stesso anno sbarcò in Italia anche l’attaccante ucraino Andriy Shevchenko, col quale la maggior parte degli italiani avrebbe finito per associare il mio paese, e quindi anche me, almeno fino agli sconvolgimenti politici dell’ultimo decennio. Mentre io crescevo lui diventava una stella del Milan di Silvio Berlusconi, e io piano piano mi convincevo che anche Andriy non fosse poi così tanto male come nome.

Ma in ogni caso preferivo Andrea, continuavano a chiamarmi così del resto. Condividevo però con Shevchenko e Berlusconi lo stesso giorno di compleanno: il 29 settembre. Il mio nonno casertano acquisito, l’unico della famiglia allargata italiano per ius sanguinis, ed elettore di Forza Italia della prima ora, me lo vendeva quasi come un segno del destino. Annuivo, obbediente, sperando di guadagnare cinque o dieci euro di mancia.

Avevo di poco mancato per questioni anagrafiche l’ascesa del berlusconismo ma ho avuto modo di crescere immerso nei suoi riferimenti culturali, così come di assistere alla sua normalizzazione e postuma beatificazione. Quando Berlusconi – l’uomo contro il quale avevo poi plasmato le mie fragili convinzioni politiche – è morto, ho percepito ancora una volta perché l’Italia continuasse a farmi sentire incompleto. Un altro pezzo del mondo in cui ero nato era scomparso per sempre (se non sui cartelloni elettorali), ma io rimanevo comunque al punto di partenza.

Dopo venticinque anni di residenza non sono in possesso della cittadinanza italiana, e non possiedo i requisiti per farvi richiesta ancora oggi. Il mio ucraino (peggio ancora il russo) è allo stesso livello dell’italiano parlato da un siciliano nato in Germania: parlo e lo comprendo pienamente, con qualche incertezza lo scrivo, tuttavia ne provo vergogna. Com’è difficile, ogni volta, compilare la sezione ‘madrelingua’ nel curriculum.

Prima di diventare maggiorenne, ogni anno, o quasi, tornavo nella mia regione di nascita, la Transcarpazia, Oblast più occidentale dell’Ucraina. Lì mi ricordano, in ordine sparso, come: l’Italiano, Celentano, Andriano (sic), Berlusconi, Iglesias (?!). Affibbiare nomignoli da strada è in Ucraina, come in altri paesi, una prassi diffusa nelle piccole comunità, e durante i miei periodi estivi di riposo dalla scuola italiana i miei soprannomi tradivano la mia provenienza. Provenienza? Possibile che pure lì non mi considerassero come loro?

Al ritorno in classe in Italia, mi ero ormai abituato allo storpiatura del mio cognome da parte degli insegnanti (Braschenko? Brascaio?) o ai soprannomi più banali dei compagni di calcio (Sheva). Ovunque andassi, incontravo qualcuno che volesse a tutti i costi ricordarmi della mia doppia, multipla, identità. Non che ciò mi desse fastidio: probabilmente ero bianco abbastanza, e altrettanto estroverso, da non notare i soprusi, qualora ci fossero. Quando dopo scuola giocavamo a calcio in piazza, il mio napoletano stretto era l’attrazione delle piazzette dell’Arenella. “Chillo là è ucràino, tu ce crir?”

L’ultima volta che sono tornato in Transcarpazia risale alla fine del gennaio 2022, poche settimane prima dell’invasione russa su larga scala dell’Ucraina. Prima di partire la guerra appariva già più probabile che possibile, ma come molti ucraini e non, avevo scelto deliberatamente di non crederci.

Amiche e amici da Bologna, dove studiavo da cinque anni, si offrivano come potenziali candidate(i) per un matrimonio, così da regalarmi quella cittadinanza italiana che mi avrebbe permesso di uscire dal paese in caso di legge marziale. Sorridevo ai loro scherzi per esorcizzare la tensione, ma quando, come altre volte, salutai mio padre sull’autostrada che porta in Ungheria e poi in Italia entrambi percepimmo che questa volta non ci saremmo visti per molto tempo, a prescindere dalle nostre scelte. Per la prima volta, almeno da adulto, durante questi addii che detestavo, scoppiai in lacrime.

Neanche un mese dopo un suo messaggio su Skype alle cinque del mattino mi svegliava. У нас війна”, da noi c’è la guerra. Non importa in quale lingua lo leggi: fa lo stesso uno schifo indicibile. E infatti l’identità strabordò. Quel paese che da anni avevo tenuto nel cassetto, deluso dal tradimento politico della rivoluzione di Euromaidan, e rispolveravo solamente durante avvenimenti sportivi (non chiedetemi perché, ma mi sento più italiano in tutto al di fuori del tifo calcistico) mi bussava di nuovo all’anima. Rimetteva in discussione, ancora una volta, tutta la mia vita.

Notti insonni, l’angoscia del rumore degli aerei in decollo da Borgo Panigale, i gruppi Telegram, l’astio contro il dilagante filoputinismo in Italia, i primi articoli pagati capitati un po’ per caso, la speranza di una resistenza ucraina che avrebbe accorciato la guerra: per mesi non mi sentivo presente in nessun luogo. Fisicamente nella mia stanza a Bologna, con la mente nei luoghi bombardati, in cui in realtà non avevo mai messo piede. Il punto più orientale dell’Ucraina che ho avuto modo di vedere rimane Kyiv, praticamente al suo centro.

O forse la rabbia derivava proprio da ciò: la Russia stava radendo al suolo luoghi che non avevo mai visto, precludendomi per sempre la possibilità di visitarli, mentre nel frattempo mi ero costruito una vita parallela e per vedere Odessa, Kharkiv, Mariupol rimaneva una sola scelta praticabile: abbandonare tutto in Italia e tornare in Ucraina, senza certezza di ritorno. Che senso poteva avere tutto questo? Il paese in cui avevo trascorso la mia intera vita cosciente aveva scelto di non riconoscermi, quello in cui non avevo mai vissuto mi avrebbe probabilmente costretto a difenderlo qualora ci avessi messo piede, o quantomeno mi avrebbe vietato di lasciarlo per un periodo indefinito.

Questo bivio mi ha fatto sentire un codardo, e continua a farlo. In questi anni alcuni mi hanno definito giornalista, ma io provo inquietudine nel definirmi tale senza avere possibilità di raccontare con i propri occhi i luoghi di cui scrivo. Lo scorso anno, nella difficile transizione da università a lavoro, mi dicevo che in mancanza di opportunità in Italia sarei potuto tornare in Ucraina a raccontare la guerra. Non so quanto fossi serio, ma ho scelto di conservarla come ultima spiaggia. Mi fa provare, in potenza, un po’ di quel coraggio che non ho.

La mia passione per la scrittura, con alti e bassi, galleggia, e nel frattempo ho iniziato a lavorare nell’ambiente in cui ho sempre sognato di trovarmi: scrivo per un’agenzia dell’Unione Europea. Quell’Unione Europea che sin da piccolo sognavo per il mio paese d’origine, perché l’ingresso di Kyiv mi avrebbe permesso di sentirmi meno cittadino di serie B. O, quantomeno, di poter viaggiare liberamente senza aspettare dodici ore in auto nelle dogane ungheresi o polacche.

Vent’anni dopo i miei sogni di bambino, e nel mezzo una rivoluzione nel 2014 in cui le bandiere comunitarie si sono bagnate di sangue, l’Ucraina è ancora fuori dall’Unione Europea. Allo stesso modo, io non sono ancora abbastanza italiano per il paese di cui so imitare l’intero caleidoscopio dialettale, da Trento a Reggio Calabria.

Il mio contratto temporaneo presso l’Unione Europea finirà presto, e per una posizione stabile c’è un requisito sopra tutti gli altri: essere cittadini di un paese membro dell’Unione. Se voglio diventare, finalmente, italiano, però, non ho tempo per i sogni: ai sensi dell’art. 9 della legge 5 febbraio del 1992 n. 91 questo è solo il primo dei tre anni consecutivi di reddito economico necessari per poter presentare domanda di cittadinanza italiana in futuro. Avendo scelto di studiare negli anni precedenti, pur riuscendo a mantenermi con dei lavori saltuari, non ho potuto raggiungere la soglia economica minima richiesta, sebbene non fosse particolarmente elevata.

Ciò significa che nel migliore dei casi potrò fare domanda fra due anni, e, considerati i tempi di attesa stimati, sperare di essere cittadino italiano entro il 2029: esattamente trent’anni dopo il mio primo e definitivo ingresso in Italia.

Ancora una volta mi sento opprimere dal contesto politico che soffoca il mio percorso individuale. In questi giorni ho letto storie diverse ma nel disagio di fondo sempre simili alla mia. Sono storie che evidenziano i diversi ostacoli all’integrazione – economica, sociale, politica e mentale – derivanti da una legge anacronistica, classista, istituzionalmente razzista. Una legge che in teoria permette di poter avere accesso alla cittadinanza italiana persino a chi non ci ha messo piede ma ha lontane origini di sangue (basti ricordare l’esame di lingua farsa sostenuto dal calciatore uruguaiano Luis Suarez all’Università per Stranieri di Perugia) ma non chi vi risiede da diversi decenni e non conosce altra lingua al di fuori dall’italiano.

Fra le varie dimensioni dell’emarginazione che questa normativa riproduce quella che mi ha fatto riflettere più spesso è la depoliticizzazione. Ero un bambino atipico: a otto o nove anni, mia madre racconta che lottava per costringermi ad andare a letto quando in onda c’era Ballarò, oppure qualche reportage notturno di Rai3 o La7 dalle zone di conflitto. Il mio percorso di studi si è poi ramificato intorno a questi interessi, ma allo stesso tempo la mia condizione civica mi ha portato a non considerare davvero degno di attenzione l’impegno politico e l’attivismo. Ogni volta che nella mia vita mi sono interfacciato con manifestazioni, proteste, scioperi un demone interiore mi ha chiesto: per chi lo fai? Per una società che ti esclude dal suo circolo di aventi diritto?

Le uniche elezioni a cui avrei potuto partecipare nella mia vita sono quelle ucraine del 2019, in cui Volodymyr Zelensky ha battuto Petro Porošenko, e il cui partito Servo del Popolo ha poi vinto le politiche ottenendo la maggioranza in Parlamento. Probabilmente fra le tornate elettorali più importanti di questo secolo sul continente europeo, alle quali ho scelto di mia volontà di non partecipare, a venticinque già disilluso dal sistema di rappresentanza a cui in Italia avevo accesso solo da spettatore.

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La propensione all’analisi politica non mi ha mai abbandonato, ma uno dei pochi temi che mi riaccende l’entusiasmo fanciullesco della partecipazione politica concreta è quello della cittadinanza. Tra tentativi di riportare al centro del dibattito lo ius scholae e il raggiungimento, lo scorso 24 settembre, delle 500,000 firme necessarie per presentare un referendum abrogativo che abbasserebbe il requisito minimo per la cittadinanza da 10 a 5 anni di residenza continuativa, persone come me possono di nuovo sentirsi parte di un processo politico in cui hanno una voce reale. Siamo milioni. Per condizioni come la mia è ormai troppo tardi, ma non lo è per evitare che tanti altri ripercorrano lo stesso percorso infame, che in momenti di seria difficoltà personale rischia di portare all’autoesclusione dalla società.

Più volte mi hanno in buonafede chiesto: “Ma come è possibile tu non possieda i requisiti per diventare italiano?”, “Mi sembra strano, dovresti informarti meglio”, “Ti suggerisco questo centro di assistenza, vacci”. Se ci si stenta a credere, vuol dire che c’è qualcosa che va cambiato con urgenza.

 

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