Cisgiordania, la resistenza nonviolenta in Masafer Yatta
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Dal 7 ottobre, mentre lo sguardo internazionale è rivolto a Gaza, la situazione in Cisgiordania non fa che peggiorare. In Masafer Yatta, Youth of Sumud continua il suo lavoro di resistenza nonviolenta con il sostegno di attivisti israeliani e internazionali. Nelle ultime settimane, dopo l’invasione del nord della Cisgiordania da parte dell’esercito israeliano, “anche a sud,” riferisce a Valigia Blu Guy Butavia, attivista israeliano con il movimento Taayush in Masafer Yatta, “l’atmosfera, l’odio e il razzismo contro i palestinesi sono aumentati drasticamente, così come gli attacchi dei coloni.
L’esercito entra nelle città e la restrizione alla libertà di movimento per i palestinesi è cresciuta esponenzialmente nelle ultime due settimane”. Questo significa per esempio non riuscire a entrare o uscire dalle città e dai villaggi. La resistenza nonviolenta della comunità però non si ferma: “Ora più che mai,” continua Butavia, “è essenziale che attivisti palestinesi, internazionali e israeliani restino presenti sul campo”.
Di cosa parliamo in questo articolo:
L’escalation post 7 ottobre in Cisgiordania
È del 19 luglio la sentenza con cui la Corte Internazionale di Giustizia ha stabilito, con un parere consultivo, che le colonie israeliane nei territori palestinesi sono illegali secondo l’articolo 49 della quarta convenzione di Ginevra. Il parere, subito definito storico, non ha però avuto per il momento effetti concreti sul campo, dove, come confermano tutte le testimonianze raccolte da Valigia Blu, il livello di violenza non è mai stato così alto e sembra anzi continuare a crescere, specie con le recenti incursioni dell’esercito Israeliano nei Territori.
“Mentre gli occhi del mondo sono puntati sul genocidio in atto a Gaza”, spiega a Valigia Blu Michele, attivista di Mediterranea Saving Humans, “nei Territori Occupati della Cisgiordania le forze di Occupazione stanno accelerando la loro azione di lenta ma costante pulizia etnica, rafforzando il regime di apartheid ai danni della popolazione palestinese”.
Il peggioramento delle condizioni di vita in questa zona riguarda ogni aspetto della quotidianità, dal diritto alla casa alla disponibilità di risorse naturali alla libertà di movimento fino alle più basilari garanzie di sicurezza personale. Secondo la ONG Peace Now, attiva dal 1978, quest’estate nella Valle del Giordano si è verificata la più grande espropriazione di terra negli ultimi 30 anni, un’area di circa 13 chilometri quadrati, mentre soltanto nei primi mesi del 2024 ne erano già stati occupati altri 11.
Anche il ritmo delle demolizioni è aumentato, con 11.356 edifici palestinesi demoliti solo dall’inizio del 2024, secondo i più recenti dati OCHA. Dal 7 ottobre, Israele ha approvato la costruzione di 1.800 nuove abitazioni tra colonie e avamposti illegali secondo il diritto internazionale, oltre al piano per un nuovo insediamento appena fuori Betlemme, che si sovrapporrebbe a un sito UNESCO. Parte delle violenze sono anche i continui raid in quartieri e villaggi palestinesi da parte di coloni ed esercito, anche nel sud, lontano dalle operazioni militari su larga scala. La notte tra il 26 e il 27 agosto nel villaggio di Wadi Rahal, appena fuori Betlemme, i coloni hanno sparato a un uomo, Khalil Zayadah, uccidendolo, e ne hanno feriti gravemente altri tre.
Questo aumento della violenza avviene in uno scenario già complesso, caratterizzato da un longevo sistema di apartheid teso a rendere la popolazione civile palestinese sempre più isolata e controllata. Le risposte a questo tipo di occupazione sistematica sono e sono state di diversa natura.
Sumud e resistenza nonviolenta: una strategia efficace
Per combattere l’oppressione dell’occupazione in Masafer Yatta, nelle colline a sud di Al Khalil (in ebraico Hebron), a partire dagli anni ’90 si è sviluppato un movimento di resistenza nonviolenta basato sul concetto di Sumud, solo parzialmente traducibile in italiano come “resilienza”, ma molto più vicino al concetto di “resistenza”. La resistenza nonviolenta da queste parti è prima di tutto una strategia che funziona, chiarisce aValigia Blu Mohammad Hurraini, figlio di Hafez, leader del movimento di resistenza nonviolenta Youth Of Sumud, anche lui attivista da anni: “La resistenza nonviolenta è una parte della resistenza palestinese, poiché siamo un popolo che vive sotto occupazione, secondo il diritto internazionale abbiamo il diritto di difenderci con qualunque mezzo”.
L’italiana Mediterranea Saving Humans è presente con un progetto in Masafer Yatta da giugno, dove partecipa ad azioni di interposizione nonviolenta al fianco di Operazione Colomba – attiva nell’area da vent’anni – e di Youth Of Sumud. Nel concreto, si tratta di azioni semplici e quotidiane, come continuare a coltivare le terre o pascolare le greggi nelle zone più esposte agli attacchi dei coloni, con l’obiettivo di non retrocedere e continuare a conquistarsi giorno per giorno la possibilità di vivere sulla propria terra. Come ripete Hafez, “qui esistere è già resistere”. Così, quando i coloni hanno attaccato il grande giardino degli Hurraini, sradicando 200 alberi e distruggendo il sistema di irrigazione, la famiglia ha risposto piantando esattamente 200 nuove piante sullo stesso pezzo di terra e andando sul campo per innaffiare ogni giorno, nonostante le continue incursioni dall’avamposto confinante.
In zona C qualsiasi forma organizzata di espressione del dissenso viene sistematicamente repressa, ma, commenta Michele, “qui, continuare a vivere sulle proprie terre è di per sé un atto di protesta e opposizione all’occupazione”. Associazioni e movimenti internazionali e israeliani mettono in campo la propria condizione di privilegio, dissuadendo ove possibile gli attacchi di coloni ed esercito e documentando le violenze subite dai palestinesi. Oltre alle azioni di inerposizione nonviolenta, Mediterranea si pone come obiettivo quello di svolgere l’attività osservatore internazionale: “Testimoniare cosa accade in Palestina” continua Michele, “è fondamentale per raccontare la resistenza palestinese alla nostra opinione pubblica e richiamare l’attenzione delle istituzioni italiane ed europee, il cui atteggiamento è accomodante e anzi complice nei confronti della pulizia etnica che Israele sta compiendo in queste terre”.
Sumud: la resistenza a partire dall’amore per la propria terra
“Per me Sumud è il significato collettivo del potere del popolo, dell’amore e del legame con la terra,” spiega Hafez. Mentre parla sta seduto nel suo giardino, dove è potuto tornare soltanto qualche mese fa a causa delle sistematiche violenze dei coloni dall’inizio della guerra, come conferma anche la moglie Aisha: “Per mesi non siamo usciti di casa, ogni giorno dal 7 ottobre fino almeno a gennaio abbiamo pensato che fosse finita, che ce ne saremmo dovuti andare abbandonando le nostre case e le nostre terre”. La connessione con la terra è forse il principale elemento di definizione attraverso cui si articola il Sumud. Hafez parla di “amore per gli alberi di ulivo, e dell’amore con cui si difendono i diritti, qualsiasi sia il sacrificio necessario”.
In Masafer Yatta, però, la comunità è compatta sulla scelta della nonviolenza che, spiega Hafez, “negli anni ci ha permesso di ottenere ottimi risultati. Certo, non abbiamo sconfitto l’occupazione, non ancora, ma siamo riusciti a rimanere sulle nostre terre, che da queste parti è già moltissimo”. Risolversi a usare la violenza, spiega Hafez, è una tentazione facile quanto inefficace: “Quando vedi tutti i tuoi diritti più basilari violati ogni giorno, questo ti spinge a ricercare la violenza come risposta per difenderti, esercitando la violenza in realtà fai il gioco dell’occupazione: la loro strategia è quella di provocare fino a spingerci alla violenza per poter alimentare la loro narrazione che dipinge i palestinesi come terroristi”.
Tutto è cominciato da un violento attacco subito dalla madre, Fatima, nello stesso giardino in cui lui siede ora, tra le rughe scavate e lo sguardo calmo: “Le hanno rotto la mandibola ed è finita in ospedale, io ero giovane e ho iniziato a studiare un modo per vendicarmi, lei lo sapeva, è venuta da me, mi ha abbracciato e mi ha detto che quello che pensavo di fare avrebbe avuto conseguenze terribili. Magari avrei potuto uccidere 10 coloni per vendetta, ma poi loro non solo avrebbero ucciso me, avrebbero distrutto le nostre case e si sarebbero vendicati sul villaggio”.
Nasce così l’idea di “fare le cose in modo diverso, proteggere i nostri diritti in un modo nuovo”. Così la comunità di At-Tuwani ha iniziato la sua resistenza, che si è poi estesa a tutta la regione diventando un vero e proprio sistema culturale: “le nuove generazioni sono cresciute nell’esperienza della nonviolenza e della sua mentalità, questo dà loro la forza di continuare la nostra resistenza e di continuare a difendere i nostri diritti”.
Il ruolo della comunità internazionale
Una parte essenziale della resistenza nonviolenta della Masafer Yatta è rappresentata dalla comunità di attivisti israeliani e internazionali che la sostiene. “Gli attivisti internazionali sono sempre stati al nostro fianco, nel caso di Operazione Colomba dal 2004,” spiega Mohammed Hurraini, che è cresciuto, nel suo piccolo villaggio, sempre circondato da persone arrivate dall’Italia, dagli Stati Uniti e da tutto il mondo per condividere la lotta iniziata da sua nonna e suo padre. “Il loro ruolo è essenziale, non solo per la presenza sul campo, perché quando ci sono loro l’esercito cambia completamente atteggiamento, ma anche perché quando tornano a casa mostrino alle loro comunità quanto hanno documentato qui, facendo vedere alle persone cosa succede in Palestina,”finendo auspicabilmente per creare quella pressione internazionale su Israele che spesso è del tutto assente.
Proprio per attrarre una maggiore presenza internazionale “non solo in Masafer Yatta ma in tutta la Cisgiordania occupata” si è tenuta in luglio una conferenza a Ramallah, in cui si sono potuti confrontare tutti i maggiori esponenti della resistenza nonviolenta. In occasione della conferenza è stata anche lanciata la campagna Faz3a, il cui nome deriva dal termine arabo per l’azione di prestare soccorso a qualcuno nel momento del bisogno, pensato dalle comunità palestinesi per riuscire ad organizzare al meglio il supporto internazionale sul campo.
Gli attivisti israeliani contro l’occupazione
Mohammad Hurraini conosce bene anche il movimento dei Tayyoush, composto da attivisti israeliani che decidono di mettersi al servizio della resistenza nonviolenta palestinese. Sono pochi, ma la loro presenza è apprezzata dalla comunità: “Queste persone si rendono conto” spiega Mohammed, “di che cosa significa l’occupazione, vedono cosa c’è al di là del muro che hanno avuto davanti per tutta la vita, capiscono che al di là di quel muro ci sono i palestinesi e che la maggior parte di loro soffre, che lo Stato d’Israele ha creato e alimenta un sistema di occupazione che sta cercando di cancellare un altro popolo”.
Lo vedono e non ci stanno. Così, decidono di venire in Masafer Yatta, di stare sul campo accanto ai palestinesi, “nonostante subiscano gravi conseguenze, soprattutto perché le forze di occupazione non vogliono che si sappia che esistano, che si parli di loro, perché rappresentano l’altra faccia dell’occupazione e perché, se sui media occidentali si racconta che esitono israeliani ed ebrei che combattono contro il regime di apartheid nel loro paese, le persone li ascoltano e cambiano più facilmente idea”.
Dopo il 7 ottobre è cambiato tutto, ma la resistenza continua
Se è vero che questo tipo di resistenza esiste da decenni, è vero anche che non c’è mai stato un periodo caratterizzato da un costante aumento della violenza quanto quello attuale, per la la frequenza e per la natura degli attacchi (sia contro la popolazione palestinese che contro gli internazionali). Ma questa storia non è iniziata il 7 ottobre, dopo quella data, lo si racconta ad At-Tuwani come a Betlemme, a Ramallah e a Gerusalemme, è cambiato tutto.
Nella vita quotidiana in Palestina questo significa più violenze, minore libertà di movimento – “Quando mi sposto anche verso un villaggio vicinissimo, non so mai se riuscirò ad arrivare senza essere fermato a un controllo,” racconta Mohammad – e meno disponibilità di risorse, come per esempio d’acqua. Il 3 luglio, a pochi chilometri da At-Tuwani, a Umm al Khair sono arrivati alcuni coloni e hanno distrutto le tubature dell’acqua, lasciando il villaggio completamente a secco, mentre l’esercito stava a guardare poco distante; ad Al-Auja i coloni attaccano quotidianamente i palestinesi che cercano di andare a prendere acqua da una fonte sulle loro terre. In generale le infrastrutture idriche sono costantemente boicottate e la popolazione vive grazie all’acqua delle cisterne, che in ogni caso vengono frequentemente colpite con armi da fuoco.
La situazione che si è creata post 7 ottobre significa anche un aumento delle demolizioni, come quelle avvenute nel villaggio di Umm Al Khair, dove 11 case sono state distrutte il 26 giugno. L’esercito è poi tornato sulle stesse terre il 14 agosto, per abbattere anche le tende e le strutture di fortuna in cui le famiglie rimaste senza casa si erano riparate. “Su quasi il 95% delle nostre case pende un ordine di demolizione,” mi spiega Tariq, attivista residente di Umm Al Khair, mentre mi accompagna a vedere quello che resta delle case abbattute. “Il pretesto per queste demolizioni è la presunta mancanza di permessi di costruzione, che sono però impossibili da ottenere sotto questo regime di occupazione criminale e discriminatoria. Questa scusa viene utilizzata per giustificare il continuo sfollamento della nostra comunità, lasciandoci in uno stato di perenne incertezza”.
Anche gli episodi di violenza fisica contro civili e attivisti disarmati sono ormai tutt’altro che rari, come nel caso dell’attacco a Zakariyah, il 13 ottobre scorso, a cui un colono ha sparato all’addome nel villaggio di At-Tuwani, oppure quello di Michele, attivista italiano, e Abbas, palestinese, aggrediti la notte tra il 3 e il 4 luglio da decine di coloni armati, presi a calci, pugni e bastonate fino a riportare gravi contusioni nel caso di Michele, e fratture di gambe e braccia nel caso di Abbas, poi trattenuto sotto interrogatorio per 48 ore senza avere accesso ad alcun tipo di cure mediche. “I coloni – racconta Michele, incontrato da Valigia Blu ad At-Tuwani il giorno dopo l’aggressione – hanno agito con la complicità di esercito e polizia, avevano intenzione di bruciare il villaggio di Um Fagarah e nessuno avrebbe fatto niente per fermarli. L'unico motivo per cui non sono riusciti nel loro intento è stata la presenza degli attivisti palestinesi e internazionali”.
Il 19 luglio è toccato a Wahad essere colpito alla testa con un bastone, mentre stava nel giardino di casa sua. Le ambulanze non arrivano quasi mai, devono aspettare permessi israeliani per passare, che raramente vengono accordati, meno che mai negli ultimi mesi. Per i coloni responsabili degli attacchi nessuna conseguenza, ma anche questa in Cisgiordania è normalità: “I coloni – a parlare è ancora Mohammad – commettono quotidianamente crimini di guerra, dal 7 ottobre, ma anche prima, e non subiscono alcuna conseguenza, lo stesso vale per Israele come Stato, non c’è alcuna vera reazione internazionale e mentre parliamo le persone a Gaza continuano a morire”.
Il 6 settembre è stata uccisa Aysenur Ezgi Eygi, 26 anni, attivista statunitense che si trovava nella zona con International Solidarity Movement (ISM), morta in ospedale dopo essere stata colpita alla testa da un proiettile sparato da un cecchino dell’esercito israeliano. Ezgi Eygi stava partecipando a una dimostrazione pacifica che si tiene tutti i venerdì nel villaggio di Beita, a sud di Nablus. è la diciottesima persona a essere uccisa durante le manifestazioni a Beita dal 2020, ci tiene a sottolineare ISM, dopo 17 vittime palestinesi.
A commentare la notizia è ancora Michele: “La notizia della morte di Aysenur ci riempie il cuore di dolore e di rabbia. Abbiamo perso una compagna, un'attivista come noi, che voleva diffondere la voce e le rivendicazioni dei palestinesi nel suo paese. Siamo consapevolǝ che il clamore per la morte di Aysenur sarà maggiore di quello per le centinaia di palestinesi uccisi nelle ultime settimane in Cisgiordania e per gli oltre 40 mila morti di Gaza, dei quali troppo spesso non conosciamo nemmeno il nome. Questo doppio standard è manifestazione dell’oppressione esercitata nei confronti della popolazione palestinese e per questo vogliamo ricordare l’importanza della scelta fatta da Aysenur: lottare contro il sistema che genera queste ingiustizie”.
L’IDF ha affermato di aver sparato per colpire un “istigatore” durante un “raduno violento” ma un’inchiesta del Washington Post ha scoperto che i soldati israeliani hanno aperto il fuoco “da una distanza per cui i manifestanti non rappresentavano una minaccia apparente”. Sulla base di conversazioni con 13 testimoni oculari e dell’esame di oltre 50 video e immagini, il Washington Post ha potuto ricostruire che l’IDF hanno sparato in direzione di Aysenur Ezgi Eygi da circa 182 metri e circa 20 minuti dopo che i manifestanti si erano spostati lungo la strada principale.
Il presidente USA Biden, il Segretario di Stato Blinken e la vicepresidente Harris si sono detti “indignati” per l’accaduto e hanno affermato che continueranno a “fare pressione sul governo di Israele per ottenere risposte”. “Le forze di sicurezza israeliane devono cambiare il loro modo di operare in Cisgiordania. Nessuno dovrebbe essere ucciso per aver partecipato a una protesta”, ha dichiarato Blinken. Tuttavia, l'amministrazione statunitense non dà ancora segnali di voler mettere in discussione gli accordi con Israele o l'invio di armi a Netanyahu, come fatto dal Regno Unito.
“Ci puniscono per niente, ci attaccano perché siamo nati qui,” dice Mohammad. Eppure la comunità locale e quella internazionale si rifiutano di farsi sopraffare. Una resistenza paziente determinata, come quella di Jawad, che il 23 luglio sta in piedi a una decina di metri da quella che fino a pochi minuti fa era casa sua, le braccia incrociate, la schiena dritta, mentre un bulldozer fa manovra e si allontana lasciandosi alle spalle solo un cumulo di macerie.
“Ricostruiremo, faremo anche senza,” come ripete Tariq dopo l’ultima demolizione. Anche ora, con l’esercito israeliano che impone il coprifuoco nelle città del nord, perquisisce le abitazioni palestinesi e distrugge le strade in una vera e propria invasione, l’unico imperativo per chi opera in Masafer Yatta resta quello di esserci: “Andiamo avanti,” come riferisce Butavia, la voce stanca ma ferma, “ci sono sempre più richieste di aiuto, sempre più blocchi e sempre più violenza, molte zone hanno bisogno di una copertura costante, noi andiamo avanti nonostante tutte le difficoltà, ma c’è sempre più bisogno di persone”.
Immagine in anteprima: Il villaggio di Um Faqara, colline a sud di Hebron, in Cisgiordania. Foto di Matilde Moro