Venezuela, la stretta di Maduro: arresti, omicidi e accuse all’opposizione
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È passato più di un mese da quando si sono tenute le elezioni in Venezuela lo scorso 28 luglio, con il Consiglio Elettorale Nazionale che ha assegnato la vittoria al presidente Nicolas Maduro. I risultati sono stati immediatamente contestati dall’opposizione ma, nonostante le pressioni internazionali nel chiedere al regime di rendere pubblici i verbali della votazione, Maduro si afferra saldamente al potere, mentre la repressione del dissenso non sembra attenuarsi. L’apice è stato raggiunto il 3 settembre, quando la procura venezuelana ha emesso un ordine di cattura contro il candidato rivale Edmundo González Urrutia per “istigazione alla violenza”, “cospirazione” e altri reati. Finora, secondo quanto documentato da Human Rights Watch, la brutale strategia del governo ha portato a omicidi e arresti di massa, e starebbe progettando una ulteriore stretta nei confronti delle organizzazioni non governative.
Di cosa parliamo in questo articolo:
L'ordine di cattura per il candidato dell’opposizione Edmundo González Urrutia
Il 3 settembre la Procura venezuelana ha emesso un mandato di cattura nei confronti di González, ex diplomatico di 75 anni proposto come candidato unitario dall’opposizione della Piattaforma Democratica Unitaria (PUD). A partire dalla notte delle elezioni, González ha contestato la vittoria elettorale di Maduro, dichiarando di essere in possesso delle copie dei verbali di voto e di poter dimostrare il suo trionfo. Successivamente, l’opposizione ha deciso di pubblicare online i risultati del suo contro-scrutinio, dando González vincitore con il 67% dei voti.
E proprio la diffusione online è all’origine della denuncia nei suoi confronti. Al momento, è infatti accusato di usurpazione di funzioni pubbliche, manipolazione di documenti e “sabotaggio al danno del sistema”.
L’ordine della Procura è arrivato dopo che il candidato aveva ignorato altre tre precedenti convocazioni per rendere la sua versione dei fatti. Da circa un mese, González si trova infatti in clandestinità per evitare detenzioni arbitrarie. La sua ultima apparizione pubblica risale allo scorso 30 luglio, quando rivendicò di essere in possesso di un numero di ricevute elettorali tali da dimostrare la sua vittoria.
Sabato 7 settembre González ha infine abbandonato il paese per rifugiarsi in Spagna, paese che, secondo fonti diplomatiche consultate da El País, gli ha concesso asilo. Decisione ribadita anche dal chavismo, con la vicepresidente esecutiva Delcy Rodríguez che ha confermato che il governo il governo di Maduro ha concesso un salvacondotto all’oppositore in nome “della tranquillità e della pace politica”.
Rimane invece ancora segreto il domicilio di Maria Corina Machado, la vera leader dell’opposizione della destra venezuelana e la forza motrice della campagna di González. Ma questo non le ha comunque impedito di convocare e partecipare a quattro delle affollatissime proteste pubbliche convocate nell’ultimo mese, secondo il quotidiano El País.
L'ordine di cattura nei confronti di González è però solo l’ultimo di una serie di detenzioni e attacchi denunciati dall’opposizione e attivisti per i diritti umani.
HRW: “Repressione brutale” con omicidi
Human Rights Watch ha infatti documentato come le autorità venezuelane e i gruppi informali che appoggiano Maduro si siano finora resi colpevoli di “abusi generalizzati, includendo omicidi, arresti e processi penali arbitrari e persecuzione contro i critici del governo”. Nel report pubblicato il 4 settembre, l’organizzazione sottolinea di aver ricevuto segnalazioni credibili di almeno 24 morti avvenute nel corso delle proteste contro Maduro. Solo una delle vittime apparterrebbe alla Guardia Nazionale Bolivariana. Tutte le altre sarebbero manifestanti o semplici passanti.
Dall’inizio delle manifestazioni che hanno fatto seguito alle elezioni, le autorità venezuelane hanno dichiarato di aver arrestato oltre 2.400 persone. Il gruppo pro bono Foro Penal ha documentato circa 1.580 “prigionieri politici”, includendo 114 minori d’età. 86 di questi sono stati liberati nei giorni fra il 29 agosto e il primo di settembre.
HRW ha anche descritto con precisione la modalità con cui sono state represse le manifestazioni. All’inizio le forze di sicurezza si sono fatte carico di disperdere i raduni, usando i gas lacrimogeni e arrestando i partecipanti. Qualora questo non fosse stato sufficiente, intervenivano i “colectivos”, ovvero i gruppi informali che appoggiano il regime, spesso impiegando armi da fuoco per impaurire o attaccare i manifestanti.
Uno dei casi in cui è possibile osservare chiaramente questa dinamica è quello che ha portato alla morte di Isaías Fuenmayor González, un giovane di 15 anni che ha incrociato una delle proteste lo scorso 29 luglio. Il corteo venne attaccato dai “colectivos” poco dopo, e Fuenmayor González è morto a causa di un proiettile che l’ha colpito al collo.
Il giro di vite contro partiti, media e ONG
Secondo il sindacato dei giornalisti venezuelani, fra i prigionieri ci sarebbero anche nove operatori dell’informazione. Il ventiseienne fotografo sportivo Paúl León è stato ad esempio fermato mentre filmava una protesta pacifica, e successivamente accusato di terrorismo. Oggi rischia fino a 30 anni di carcere.
Per l’organizzazione giornalistica latino-americana Connectas, il clima è così pesante che ha portato alcuni media venezuelani ad affidarsi a presentatori di notizie generati con l’intelligenza artificiale, in modo da non mettere a rischio i propri cronisti. “La persecuzione e la repressione crescente che i nostri colleghi stanno soffrendo in Venezuela e le incertezza sulla sicurezza nel fare il proprio lavoro crescono ogni minuto,” ha raccontato il direttore di Connectas al Guardian.
Inoltre, i partiti del PUD hanno denunciato continui sequestri dei propri quadri da parte degli apparati di sicurezza. Con la detenzione e la sparizione di Biagio Pilleri, coordinatore nazionale del partito democratico cristiano Convergencia Venezuela, sarebbero 22 i dirigenti scomparsi nelle ultime settimane. Secondo Convergencia, Pilleri è stato sequestrato dal servizio segreto nazionale SEBIN.
Fino ad oggi, il governo ha sostenuto che le forze di sicurezza stanno rispondendo a un vero e proprio tentativo di colpo di Stato. Pochi giorni fa Maduro ha sottolineato che gli arresti sono di “criminali” vincolati al PUD, che stavano elaborando un piano “fascista” e “diabolico”, secondo quando riporta l’agenzia di notizie Efe. Avrebbe poi aggiunto che Machado non sarebbe altro che “una persona criminale, non solo per quello che ha fatto ma anche per quello che sta pianificando di fare”. Ha detto però di non poter rivelare ulteriori dettagli per non mettere a rischio le operazioni di intelligence.
Oltre alle operazioni per strada, i critici del governo temono che si stia elaborando una vera e propria riforma legale che permetta all’esecutivo di attuare in maniera indiscriminata contro qualunque voce critica.
Lo scorso 15 agosto, l’Assemblea Nazionale ha infatti promulgato una legge per la Regolamentazione, Attuazione e Finanziamento delle ONG e delle Organizzazioni Sociali senza fine di lucro. Grazie a questo testo, il governo ha ora il potere di dissolvere o sanzionare qualsiasi ONG che i funzionari considerino possa generare instabilità o promuovere l’odio nel paese.
Secondo Diosdado Cabello, ministro dell’Interno fedelissimo a Maduro e promotore dell’iniziativa, la legge è necessaria perché diverse organizzazioni promuovono azioni violente nascondendosi dietro una facciata democratica. Ma Alí Daniels, direttore di Accesso alla giustizia, sostiene che “la legge ha chiaramente una motivazione punitiva”. Il rischio è che il regime voglia adottare una impostazione simile a quella del presidente nicaraguense Daniel Ortega, che ha portato alla chiusura, secondo la testata venezuelana El Nacional, di circa 1.500 organizzazioni della società civile.
La reazione della comunità internazionale
L’ordine di arresto di González è stato seguito dalla consueta ondata di riprovazione internazionale: Josep Borrell, Alto Rappresentante dell’Unione Europea per gli affari esteri, è stato fra i primi a rifiutare “categoricamente” il mandato di arresto, seguito a ruota dai ministri spagnoli, italiani, tedeschi e dal dipartimento di Stato statunitense.
Anche Brasile e Colombia, i due paesi latinoamericani che dovrebbero avere un dialogo aperto con Maduro e stanno portando avanti un tentativo di mediazione, hanno diramato una breve nota ufficiale “esprimendo la loro preoccupazione.”
Gli Stati Uniti si sono dimostrati però pronti ad andare ben oltre i moniti verbali. Lo scorso 2 settembre, la CNN ha rivelato che l’areo presidenziale di Maduro è stato sequestrato per ordine di Washington mentre si trovava in Repubblica Domenicana per manutenzione. La sua acquisizione avrebbe infatti violato le sanzioni economiche a cui diversi esponenti del governo venezuelano sono sottoposti dal 2015.
Sanzioni a cui la Casa Bianca starebbe pensando di dare seguito: secondo quanto riportato dall’agenzia di stampa Bloomberg, sarebbero già pronti nuovi provvedimenti contro 15 figure cardine dell’amministrazione di Maduro. Fra questi, il ministro degli Esteri, Yván Gil, la presidente della Corte Suprema, Caryslia Beatriz Rodríguez, e un membro cardine del Consiglio supremo elettorale, Rosalba Gil Pacheco.
Finora le pressioni internazionali sembrano aver però ottenuto poco. Lo stesso giorno che l’ordine di arresto per González è stato reso pubblico, Maduro è apparso in televisione annunciando che quest’anno anticiperà i festeggiamenti del Natale al primo di ottobre. “Arriva il Natale con pace, sicurezza e felicità,” ha dichiarato nel suo programma televisivo settimanale “Ancora con Maduro”.
Ancora nessuna traccia dei verbali di voto
Le proteste e la successiva repressione hanno scosso il paese come non succedeva dal 2019, quando il presidente dell’Assemblea Nazionale Juan Guaidó giurò come presidente incaricato nel tentativo di rimuovere Maduro dal potere.
Per la prima volta dopo anni segnati da una crisi economica senza precedenti che ha portato oltre 7 milioni di venezuelani a emigrare all’estero, sembrava che l’opposizione avesse una opportunità di strappare il potere alla sinistra bolivariana, al governo dal 1998. Ma la notte del 29 luglio il CNE ha dichiarato la vittoria di Maduro con il 51,2% dei voti.
Da allora, l’opposizione ha iniziato a chiedere insistentemente la diffusione dei verbali di voto, in modo da comprovare il risultato annunciato.
Con il passare dei giorni, infatti, anche gli unici due enti che hanno avuto la possibilità di effettuare un limitato monitoraggio sulle elezioni hanno confutato la loro validità. Sia la Squadra Tecnica delle Nazioni Unite che il Centro Carter hanno infatti rilevato come il processo mancasse di trasparenza e hanno messo in discussione i risultati finali. Al contrario, hanno sottolineato come le percentuali diffuse dall’opposizione fossero affidabili. Il Centro Carter, in particolare, ha rilevato che, secondo le ricevute di voto, González avrebbe vinto le elezioni con un margine significativo.
Finora, l’unica risposta di Maduro è stata quella di chiedere al Tribunale Supremo di Giustizia di revisionare i risultati elettorali. Ma, come fa notare il quotidiano spagnolo El País, è risaputo che buona parte dei suoi membri è legata a doppio filo con il regime. Basti pensare che la presidente Rodríguez e altri due giudici - Fanny Márquez e Inocencio Figueroa – sono fra le autorità sanzionate dal Canada perché ritenute responsabili del peggioramento della democrazia in Venezuela.
E così il 22 agosto il tribunale ha confermato la vittoria di Maduro in maniera “inequivocabile e senza restrizioni”. Decisione immediatamente rifiutata da 10 paesi latinoamericani, dagli Stati Uniti e dall’Unione Europea.
Dopo oltre un mese, il Venezuela sembra dunque essere ancora al punto di partenza.
Immagine in anteprima: frame video AFP via YouTube