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Se il Presidente degli Stati Uniti d’America è al di sopra delle leggi

18 Luglio 2024 13 min lettura

Se il Presidente degli Stati Uniti d’America è al di sopra delle leggi

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13 min lettura

Il primo luglio scorso, la Corte Suprema degli Stati Uniti ha pronunciato una storica sentenza con cui ha stabilito che l’ex Presidente Donald Trump è immune da responsabilità penale per gli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni durante le vicende legate ai tentativi di sovvertire il risultato delle elezioni presidenziali del 2020 che avevano designato come suo successore l’attuale Presidente Joe Biden.

Nonostante l’enorme gravità dei fatti contestati a Trump e le importanti implicazioni per una sua possibile vittoria nelle elezioni del novembre prossimo, l’importanza della decisione eccede lungamente la vicenda contingente in sé considerata. Infatti, essendo la prima volta in cui un ex Presidente degli Stati Uniti è stato chiamato a rispondere penalmente, si è posta l’inedita questione della sua immunità. 

Né il testo della Costituzione del 1787, né i successivi 27 emendamenti, affrontano il tema della responsabilità penale del Presidente, eppure, per tutta la storia americana, specialmente quella più recente, era opinione comune che il capo del potere esecutivo dovesse rispettare la legge penale come qualunque altro cittadino. Si discuteva, al più, dell’ammissibilità di un’indagine penale avviata contro un Presidente in carica, eventualità espressamente esclusa dalle linee guida del Dipartimento di Giustizia, ma pochi dubbi sussistevano sull’ammissibilità di un processo dopo la cessazione dell’incarico. 

Sorprendentemente, la decisione della Corte Suprema nel caso Trump v. United States, con una maggioranza di 6 a 3, ha ritenuto che anche dopo il termine del mandato presidenziale nessuna responsabilità penale possa essere attribuita al Presidente per gli atti ‘ufficiali’ realizzati durante il mandato. Secondo le feroci critiche della minoranza della Corte, viene così aperta la strada a un Presidente “above the law” e sempre più simile a un Monarca elettivo, con preoccupanti implicazioni per la tenuta dello Stato di diritto delle future amministrazioni presidenziali, a partire da una, possibile, dello stesso Trump.

Sotto altro profilo, la questione esaminata si inserisce in un ampio dibattito interno alla Corte e al paese sulla figura del Presidente e, prima ancora, sul corretto metodo interpretativo della Costituzione. 

Quali sono i fatti di cui era accusato il Presidente Trump?

La vicenda in esame traeva origine dall’indagine avviata dal Dipartimento di Giustizia con la nomina di uno “Special Counsel”, dunque di un pubblico ministero specificatamente nominato dal Procuratore Generale (Attorney General) per condurre un’indagine federale considerata particolarmente delicata. A tale figura sono attribuite alcune garanzie di indipendenza al fine di evitare conflitti di interesse. Si ricorda che, a differenza di altri ordinamenti giuridici come quello italiano, negli Stati Uniti l’azione penale è nelle mani del potere esecutivo e dunque, in ultima analisi, del Presidente. Quest’ultimo esercita tale potere tramite il Procuratore Generale, responsabile della direzione del Dipartimento di Giustizia. Sebbene l’Attorney General sia soggetto all’autorità e alla possibilità di rimozione da parte del Presidente, si è sviluppata una prassi che limita l’ingerenza presidenziale nelle decisioni operative del Dipartimento di Giustizia. Da tali circostanze, nel tempo, è emersa la prassi di affidare indagini politicamente delicate a un soggetto esterno al Dipartimento che assicuri maggiori garanzie di terzietà ed imparzialità. In questo caso, il Procuratore Generale Merrick Garland aveva nominato l’avvocato Jack Smith, già funzionario del Dipartimento di Giustizia e Procuratore capo della Corte Speciale per il Kosovo.

Il primo agosto 2023, Trump è stato rinviato a giudizio (indictment) per vari reati legati alla commissione di almeno tre differenti tipologie di condotte, realizzate tra il novembre 2020 e il gennaio 2021, tutte finalizzate ad alterare l’esito delle elezioni presidenziali in modo da consentire all’imputato di rimanere in carica, nonostante la vittoria del suo contendente. Al di là della specifica qualificazione ai sensi del diritto penale americano, i fatti contestati attengono, in primo luogo, ai ripetuti tentativi del Presidente Trump di forzare il Procuratore Generale dell’epoca ad attivare i poteri del Dipartimento di Giustizia per ordinare agli Stati della Federazione di nominare dei grandi elettori diversi da quelli risultanti dalla competizione elettorale. A fronte delle resistenze del Dipartimento ad avviare delle indagini pretestuose di frode elettorale, il Presidente aveva ripetutamente minacciato di licenziare e sostituire il Procuratore generale e i funzionari che non si fossero attenuti alle sue richieste. 

In secondo luogo, Trump avrebbe tentato di influenzare il vicepresidente Mike Pence che, nel suo ruolo onorifico di Presidente del Senato, era chiamato a supervisionare il procedimento di ratifica dei voti dei grandi elettori svolto dal Senato nella giornata del 6 gennaio 2021, al fine di indurlo a dichiarare nulli i voti favorevoli all’elezione di Biden. Il testo dell’indictment dettaglia lungamente i ripetuti tentativi di convincere il vicepresidente che, al contrario, ha costantemente rifiutato di invalidare i voti in assenza di prove che giustificassero le accuse di brogli nelle procedure elettorali e in assenza di una base legale per esercitare un simile potere. 

In terzo luogo, nella spirale di tensione che ha accompagnato gli ultimi giorni della presidenza Trump, il Presidente è accusato di aver avviato interlocuzioni con esponenti del Partito Repubblicano, governatori degli Stati a lui vicini, altri funzionari pubblici e soggetti privati al fine di convincerli a ostacolare, in qualunque modo possibile, il procedimento elettorale. In particolar modo, a fronte della resistenza del vicepresidente e all’avvicinarsi della data prevista per la ratifica dei risultati davanti al Senato, Trump è stato accusato di aver incitato i suoi sostenitori ad attivarsi per ostacolare il procedimento di ratifica, mediante dichiarazioni rese alla stampa e pubblicate sui social networks, in cui il vicepresidente era accusato di tradimento e venivano ripetutamente denunciati i presunti brogli elettorali. Al radunarsi di una folla aggressiva di fronte alla sede del Congresso (Capitol Hill) nel giorno previsto per le operazioni di voto, le sempre più aggressive dichiarazioni di Trump avrebbero innescato la violenta reazione della folla e l’assalto al palazzo del Campidoglio del 6 gennaio 2021. 

A fronte del rinvio a giudizio per cinque titoli di reato (tra cui associazione per delinquere per sopprimere il diritto al voto, tentativo di impedire l’esercizio di una funzione pubblica etc.), la difesa di Trump ha eccepito l’immunità per i fatti contestati in quanto realizzati nell’esercizio delle funzioni presidenziali e dunque, secondo tale ricostruzione, punibili solo se preceduti da una condanna in sede di impeachment che, al contrario, non era stata raggiunta. Infatti, come si ricorderà, in relazione ai fatti sopra descritti, poco prima dell’insediamento del Presidente Biden, il Congresso americano aveva deliberato l’avvio di un (secondo) impeachment contro Trump per il reato di istigazione all’insurrezione (Incitement of insurrection). Il processo si era concluso con l’assoluzione da parte del Senato il 13 febbraio 2021, in ragione del mancato raggiungimento dell’elevata soglia dei 2/3 dei componenti richiesta per la condanna e del compatto voto contrario dei senatori repubblicani (con solo sette voti dissidenti rispetto al gruppo parlamentare).

In ragione della natura pregiudiziale della questione sull’immunità di Trump rispetto alla prosecuzione del processo, essa è stata oggetto di immediato esame da parte delle corti che, sia in primo che in secondo grado, hanno unanimemente ritenuto che nessuna immunità potesse essere riconosciuta al Presidente Trump per i fatti commessi.

Contrariamente a quanto ritenuto dalle corti inferiori, la Corte Suprema ha invece riconosciuto una completa immunità per quasi tutte le condotte contestate, sebbene non accogliendo la tesi di Trump ma adottando una ricostruzione inedita.

Quale è stato il ragionamento della Corte per affermare che il Presidente è immune da responsabilità penale?

La maggioranza della Corte ha ritenuto che il principio di separazione dei poteri comporti l’impossibilità da parte del potere giudiziario e del potere legislativo di sindacare l’operato del Presidente rispetto allo svolgimento di almeno alcune delle sue funzioni costituzionali. 

Sul punto alcune premesse sono necessarie. L’ordinamento americano è un sistema presidenziale caratterizzato da una rigida separazione dei poteri in base alla quale, in breve, è prevista una corrispondenza netta ed esclusiva tra potere dello Stato (legislativo, esecutivo, giudiziario) e organo (Congresso, Presidente, corti), con la presenza di pesi e contrappesi stabiliti dalla Costituzione (check and balance), come l’impeachment o il potere di veto, al fine di evitare l’indebita concertazione di potere.

Con riferimento al potere presidenziale, in particolare, un noto precedente del 1952 aveva classificato i poteri del Presidente in tre distinte categorie: (a) i poteri delegati dal Congresso con un atto normativo, in cui il potere esecutivo “personifica la sovranità federale”; (b) i poteri concorrenti tra Presidente e Congresso in una situazione in cui il primo può agire fino a quando il secondo non decide diversamente; (c) i poteri esclusivi del Presidente, in cui egli può eccezionalmente disattendere le indicazioni contrarie del Congresso per adottare atti e compiere decisioni che sono sotto la sua esclusiva responsabilità costituzionale. 

Riprendendo tale distinzione, secondo l’inedita impostazione della Corte, una volta che è stato accertato che il Presidente abbia agito nell’ambito dei poteri esclusivi assegnategli dalla Costituzione, la sua decisione non potrebbe essere soggetta a nessun controllo giurisdizionale. In altri termini, i giudici dovrebbero limitarsi a verificare se il Presidente ha realizzato degli atti riconducibili alle sue esclusive funzioni costituzionali, senza poterne poi valutare la legittimità o liceità, sotto nessun aspetto. Secondo la stessa logica, il Congresso non potrebbe adottare degli atti normativi, come ad esempio delle leggi penali, che vietino o criminalizzino l’esercizio di poteri che la Costituzione assegna all’esclusiva discrezionalità del Presidente. In breve, gli atti strettamente presidenziali sono totalmente insindacabili. 

In secondo luogo, la Corte ha richiamato dei precedenti che avevano riconosciuto l’immunità totale del capo dell’esecutivo dalla (sola) responsabilità civile per qualunque atto adottato nell’esercizio delle sue funzioni e non solamente per quelli che costituiscono l’esercizio di un esclusivo potere presidenziale. All’epoca si era ritenuto che una simile forma di responsabilità avrebbe potuto avere un effetto deterrente rispetto al sereno svolgimento dell’incarico, reso difficile dal costante timore di poter essere citati per danni da un qualunque cittadino. Secondo la maggioranza, il rischio di essere sottoposto ad un giudizio penale comporta delle conseguenze più gravi di quelle discendenti da una causa civile e, pertanto, anche in tale ultimo caso, deve riconoscersi l’immunità. È centrale, secondo tale ricostruzione, che il potere esecutivo possa svolgere in modo “energico” e “vigoroso” le sue funzioni senza doversi preoccupare per il rischio di incorrere in responsabilità.

In terzo luogo, la Corte ha richiamato dei precedenti che avevano riconosciuto che le comunicazioni tra il Presidente e i suoi più stretti collaboratori dovevano ritenersi presuntivamente confidenziali e la loro divulgazione in un procedimento penale dovesse essere adeguatamente giustificata per poter essere imposta. 

Da quanto sopra, la Corte traccia le seguenti considerazioni, in primo luogo, il Presidente gode di immunità penale (e civile) solo per gli atti ‘ufficiali’ compiuti nell’esercizio delle funzioni, mentre rimane responsabile per gli atti ‘privati’, come qualunque altro cittadino. In secondo luogo, solo agli atti relativi all’esercizio dei poteri esclusivi del Presidente è riconosciuta una immunità totale, al contrario, per gli atti riconducibili a poteri condivisi con il Congresso, l’immunità è solo presunta. La pubblica accusa può vincere tale presunzione solo se dimostra in giudizio che l’esercizio dell’azione penale non pone alcun rischio per il buon funzionamento del potere esecutivo. 

In aggiunta, la Corte introduce delle regole ‘processuali’ particolarmente importanti. In primo luogo, viene stabilito che l’accertamento circa la natura ufficiale o privata della condotta realizzata non possa essere mai accertata ‘soggettivamente’, andando cioè ad indagare i motivi soggettivi che hanno indotto il Presidente ad agire. Al contrario, l'accertamento deve basarsi esclusivamente sul dato oggettivo dell'esercizio o meno di un potere presidenziale, senza che l'eventuale malafede del Presidente possa influenzare le conclusioni raggiunte. In secondo luogo, nel caso in cui una determinata condotta sia coperta da immunità, essa non può essere utilizzata per provare un diverso reato anche se per quest’ultimo il Presidente sarebbe pienamente responsabile. 

In conclusione, la Corte rinvia la questione al giudice di prima istanza affinché possa iniziare il processo a carico di Trump ma, nel farlo, evidenzia già alcune condotte che devono ritenersi coperte da totale immunità, con riferimento specifico a tutte le accuse relative alle discussioni intercorse tra Trump e i funzionari del Dipartimento di Giustizia e il vicepresidente. Al contrario, non viene presa una posizione definitiva sulle restanti condotte, tra cui le accuse relative all’assalto a Capitol Hill, in quanto si ritengono necessari ulteriori accertamenti istruttori, tuttavia, la Corte evidenzia come tra le funzioni presidenziali certamente rientri quella di comunicare con il pubblico o con altri soggetti istituzionali (c.d. potere di esternazione). Ne consegue che, in sede di rinvio, il giudice di primo grado dovrà tracciare una distinzione tra le dichiarazioni rese da Trump come Presidente, dunque soggette ad una presunzione di immunità, e le dichiarazioni rese in qualità di candidato alle elezioni, non meritevoli di alcuna protezione particolare. Si tratta evidentemente di un accertamento complesso che deve tenere conto del contesto in cui la dichiarazione viene effettuata. 

Quali sono state le critiche della minoranza della Corte?

La minoranza dei giudici della Corte ha adottato una posizione di forte e dura critica nei confronti della maggioranza che, secondo tale impostazione, avrebbe tradito il principio fondante del costituzionalismo americano per cui tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge, in esplicita contrapposizione con la monarchia britannica che, al contrario, ammetteva (e ammette tuttora) la completa immunità del monarca.

Del resto, la spaccatura tra i membri della Corte tra componenti conservatori e liberal è sempre più marcata e aspra, specialmente su questioni di particolare rilievo politico e sociale, dove a separarli è, principalmente, la differenza metodologica sul corretto metodo di interpretazione costituzionale. I primi sono fautori dell’originalismo e testualismo, per cui ritengono, in breve, che la Costituzione debba essere interpretata con esclusivo riferimento al suo significato letterale e all’intenzione condivisa dalla comunità americana al momento dell’adozione del testo costituzionale (nel 1787), i secondi invece si rifanno alla corrente del living constitutionalism che rivendica la necessità di un approccio interpretativo più ampio che riconosca l’importanza di considerare i cambiamenti sociali per attualizzare il senso della Costituzione. 

In tale contesto, la critica della minoranza, e in particolare del giudice Sotomayor, è principalmente dedicata a evidenziare le criticità metodologiche di una decisione che, sorprendentemente, non adotta il metodo originalista in una circostanza in cui il dato testuale e storico sembrerebbero univoci nell’escludere qualunque immunità presidenziale. Infatti, al di là dell’assenza nella Costituzione di un qualsivoglia riferimento alla immunità del Presidente (nonostante altre immunità siano previste), la disciplina costituzionale in materia di impeachment espressamente prevede che l’eventuale rimozione del Presidente non impedisca la celebrazione di un processo per gli stessi fatti oggetto della procedura, così implicitamente ammettendo una piena responsabilità penale. Nello stesso senso, la minoranza raccoglie diversi precedenti storici in cui emerge come la questione fosse condivisa tra padri fondatori e futuri Presidenti. Da ultimo, viene citato il caso dello stesso Trump che, nel corso della seconda procedura di impeachment per i fatti di Capitol Hill, aveva assicurato i senatori che in caso di assoluzione egli avrebbe potuto essere giudicato davanti alla giustizia penale. 

Secondo la minoranza si tratterebbe dunque di una decisione priva di una vera argomentazione che “inventa l’immunità attraverso la forza bruta” e che sarebbe “completamente indifendibile”. Ci sono altri punti che non saranno esaminati delle argomentazioni della minoranza, tra cui la differenza tra responsabilità civile e penale nonché la difficile riconducibilità dei gravi fatti contestati a Trump alle funzioni presidenziali esclusive. Tuttavia, è proprio sulla questione metodologica che emerge il passaggio più incisivo con il riferimento alla recente sentenza Dobbs in materia di aborto in cui la stessa maggioranza aveva superato decenni di giurisprudenza favorevole al riconoscimento del diritto della donna all’interruzione della gravidanza in quanto, secondo la ricostruzione originalista, tale diritto non avrebbe avuto alcun fondamento nella storia americana, nel testo e nei precedenti giudiziari. La minoranza ripropone lo stesso passaggio accusando, neanche troppo velatamente, la maggioranza di una ‘ipocrisia interpretativa’, segnando così uno dei momenti forse più duri dello scontro interno alla Corte Suprema.

Quali sono le implicazioni per il futuro? 

La decisione in esame avrà certamente delle implicazioni significative nel breve termine per la vicenda personale di Trump che, difficilmente, incorrerà in responsabilità penale per gli (asseriti) tentativi di sovvertire le elezioni del 2020. Infatti, dopo la sentenza in esame, le principali accuse sono state coperte dall’immunità e le condotte residue difficilmente potranno essere accertate sotto il profilo del dolo se non potranno essere utilizzate come prove le testimonianze già raccolte nell’ambito delle accuse ora cadute, secondo la regola ‘procedurale’ di inutilizzabilità stabilita dalla Corte.

Si ricorda poi che la decisione in esame è la seconda resa nel giro di pochi mesi sulla responsabilità di Trump per l’assalto al Campidoglio. Con la sentenza del 4 marzo 2024 (Trump v. Anderson), la Corte Suprema (all’unanimità) aveva ritenuto precluso a un giudice statale (e non federale come la vicenda sopra descritta) di rendere ineleggibile un ex Presidente per il reato di insurrezione in relazione ai fatti di Capitol Hill. Si era ritenuto infatti che la Sezione 3 del XIV Emendamento della Costituzione, che appunto punisce con tale pena i fatti di insurrezione, possa essere applicata solamente a livello federale e, in particolare, solamente con l’approvazione di una legge ad hoc da parte del Congresso.

Sotto altro profilo, il 15 luglio 2024, la Corte distrettuale per la Florida del sud ha archiviato le accuse a carico di Trump in relazione all’altro filone dell’inchiesta penale federale a suo carico, per la violazione delle leggi in materia di documenti riservati. Secondo l’accusa, il Presidente avrebbe arbitrariamente sottratto decine di documenti segreti o riservati dopo la cessazione dalla carica. La Corte ha archiviato le accuse – ma il Dipartimento di Giustizia ha già annunciato ricorso in appello - citando la sentenza in commento con riferimento al passaggio nell’opinione concorrente di uno dei giudici della maggioranza che aveva ritenuto illegittima la nomina di uno “Special Counsel” per indagare un ex Presidente. 

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In breve, ad oggi, le numerose indagini avviate contro Trump sembrano destinate a concludersi senza alcun accertamento di responsabilità, così aprendo la strada a una sua possibile rielezione.

In una prospettiva più ampia, tuttavia, non può che vedersi con preoccupazione l’inedita creazione di una sfera di insindacabilità (law-free zone) intorno al Presidente che rischia di compromettere il già delicato equilibrio tra poteri che caratterizza l’ordinamento americano, specialmente in un contesto in cui la tensione politica è altissima, come dimostrato anche dagli ultimi fatti di cronaca, e in cui il candidato favorito si è già dimostrato poco rispettoso dello Stato di diritto. A seguito della pronuncia della Corte, anche in caso di condotte gravissime del Presidente (la minoranza cita l’esempio di un ordine impartito alle forze armate di assassinare un oppositore politico), il principale rimedio sarebbe l’avvio di una procedura di impeachment. Tuttavia, nella storia americana, nessun Presidente è mai stato effettivamente condannato a causa dell’elevata maggioranza richiesta e un esito diverso non sembra plausibile in un contesto di elevata polarizzazione politica come quello che stiamo vivendo.

Immagine in anteprima via L'Indipendente

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