Satnam Singh e il grado zero dell’umanità
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Il 19 giugno 2024, al San Camillo di Roma, in seguito ai gravissimi danni riportati sul suo luogo di lavoro, un’azienda agricola a Borgo Santa Maria, in provincia di Latina, è deceduto Satnam Singh, un giovane uomo di 31 anni di origine indiana. I testimoni raccontano che qualche giorno prima della morte, in seguito a un incidente nel campo in cui lavorava, Satnam ha perso un braccio, tranciato da un macchinario per l’imbustamento del raccolto.
Secondo le ricostruzioni circolanti, ai compagni di lavoro della vittima vengono sequestrati i cellulari per evitare che chiamino i soccorsi, la moglie di Satnam, Sony inizia a disperarsi e chiedere aiuto, mentre il marito viene caricato e scaricato da un furgone, insieme a lei, di fronte a quella che è la loro abitazione, un rustico nel giardino di una villetta della famiglia che ospita la coppia. Il braccio di Satnam, tranciato dal macchinario, è stato recapitato in una cassetta di raccolta degli ortaggi. E solo da quel momento è stato possibile per i familiari chiamare i soccorsi. Secondo i primi accertamenti dopo l’autopsia, con un intervento più tempestivo l’uomo avrebbe potuto essere salvato. La procura di Latina ha ipotizzato per il momento i reati di omissione di soccorso e omicidio colposo, mentre risulta indagato il titolare dell’azienda.
Satnam non era assunto con un regolare contratto di lavoro, in un contesto dove il ricorso al caporalato è sistematico e dove le condizioni in cui si trovano a lavorare i braccianti sono terribili, all'insegna del "tutti sapevano da anni": lavoro pagato a cottimo, con un pagamento nettamente inferiore al minimo imposto dalla legge, per molte ore al giorno, sotto al sole e in condizioni igieniche inadeguate. Come riportato dal TgLa7, il titolare dell’azienda dove lavorava Singh sarebbe indagato per caporalato dal 2019:
Secondo gli inquirenti diversi imprenditori del pontino e non solo avrebbero assunto i braccianti per il numero di giorni necessari a maturare il sussidio di disoccupazione , poi li avrebbero licenziati per finta , per farli comunque lavoarare alle stesse condizioni di prima, in regime di semischiavitù, però in nero e percependo metà paga , mentre l'altra parte era riconosciuta dall'Inps. In caso di accertamenti giudiziari poi l'accusa di truffa sarebbe ricaduta sui lavoratori , con responabilita' meno gravi per i proprietari della ditta. Un metodo molto diffuso emerso nella quindicina di inchieste condotte dal 2018 al 2023 dalla procura di Latina. Per questo agli oltre 40 indagati di queste inchieste, insieme a Lovato, si contesta non solo la truffa ma il reato più grave di caporalato. Renzo Lovato sarebbe indagato da più di cinque anni, gli inquirenti gli contestano la reiterata corresponsione di pagamenti a cottimo, la reiterata violazione delle norme sull'orario di lavoro, sulle sicurezza e le condizioni lavorative degradanti nella quali faceva lavorare i suoi dipendenti.
Possiamo quindi capire come suoni eufemistico o inadatto parlare in un caso simili in termini di "lavoro": dovremmo usare altre parole, altri concetti, come “sfruttamento” o "schiavitù".
La ministra del Lavoro, Marina Elvira Calderone, ha condannato l’atto disumano di cui Satnam è stato vittima, sottolineando la necessità di riflettere sulle modalità per contrastare efficacemente questo tipo di situazioni: “Il caporalato mortifica il lavoro mette a repentaglio vite umane e non fa crescere la qualità del lavoro".
Sarà auspicabilmente l’autorità giudiziaria ad accertare le responsabilità di quanto tragicamente avvenuto; chi scrive non è esperta di Diritto, né tantomeno di Diritto del lavoro, quanto piuttosto del funzionamento psichico e relazionale delle persone. Ed è da questo osservatorio che intende guardare e leggere quanto avvenuto.
La mancanza di empatia e le origini della crudeltà
C’è un uomo orribilmente mutilato: per una forma di sadismo assurdo che la vita talvolta sembra agire, a un uomo che fa il bracciante, improvvisamente, viene tranciato proprio l’arto su cui si fonda il suo operato. Riusciamo a immaginare come possa tradursi, in termini di dolore, un evento traumatico di questo tipo? Può essere sufficiente l’aggettivo “lancinante” per descrivere un’agonia del genere?
La mente non può, nella forma astratta dei propri pensieri, definire e dire lo strazio della carne. È impossibilitata anche a immaginarsi il supplizio di un corpo, che viene privato di una delle sue membra. La mente umana è tuttavia chiamata ad esercitare un’altra competenza complessa che è quella dell’empatia. La teoria dello psicologo Martin Hoffman, nella sua versione più recente, del 2001 (Toward a comprehensive empathy-based theory of prosocial moral development), che mette in relazione empatia e sviluppo morale, mostra di essere la più esaustiva rispetto al costrutto complesso dell’empatia, considerata non solo come un’esatta corrispondenza tra i sentimenti propri e altrui, quanto come un insieme di processi che suscitano una risposta affettiva più appropriata alla condizione in cui si trova l’altro, piuttosto che alla propria. Nel modello proposto dallo studioso, l’empatia, che si manifesta già dai primi anni di vita dell’individuo, è il risultato dell’azione di tre componenti: affettiva, cognitiva e motivazionale.
La componente affettiva è molto rilevante, soprattutto nelle prime manifestazioni empatiche, come nel pianto reattivo neonatale quando i bambini rispondono in modo automatico, piangendo, al pianto di altri bambini. In seguito si sviluppa invece la componente cognitiva e attraverso processi cognitivi più evoluti, come il role taking (la capacità di assumere il ruolo e la prospettiva di un altro), la responsività empatica diviene un processo consapevole. Di grande importanza è infine la componente motivazionale, il terzo fattore che contribuisce allo sviluppo della capacità empatica. L’effetto motivante si evidenzia con la messa in atto di comportamenti prosociali, quali l’aiuto a chi è in una situazione di difficoltà, perché ciò fa provare, a chi offre aiuto, uno stato di aumentato benessere.
Applicando dunque quanto sostiene lo studioso al caso che stiamo analizzando, la mente di chi assiste allo strazio della carne di un altro essere umano dovrebbe aver integrato le tre componenti che costituiscono il nostro sentire empatico ed essere in grado di aiutare una persona in difficoltà, proprio perché percepita, già filogeneticamente come un proprio simile.
Cosa succede allora quando un uomo sta morendo agonizzante e chi dovrebbe aiutarlo lo abbandona in pasto a un destino cieco ed atroce?
Per spiegare questo comportamento, ci viene in aiuto un altro studioso, Simon Baron Cohen che, nel suo testo La scienza del male. L’empatia e le origini della crudeltà (2012), pone in un deficit di empatia proprio l’origine della crudeltà. Secondo l’autore esistono persone incapaci, per ragioni diverse, di attivare in modo sufficientemente adeguato il circuito cerebrale dell’empatia. Chi non sa mettere in atto un comportamento empatico dunque non sa riconoscere i pensieri e le emozioni altrui e dunque rispondervi in modo solidale. “L’erosione dell’empatia” può avvenire secondo gradi differenti fino ad arrivare al grado zero, con la totale mancanza d’empatia. Questo può portare, in un connubio complesso di fattori personali, ambientali e sociali, a dare origine ad azioni che esprimono un grado zero di umanità.
Il braccio di Satnam e la “cosa Sómogyi”
Un braccio. L’arto con cui al mattino facciamo colazione, ci laviamo i denti, mettiamo in moto la macchina. Lo stesso arto con cui sto scrivendo questo articolo. L’arto buttato in una cassetta come fosse un pomodoro, una melanzana o una zucchina e, dunque, in definitiva, una cosa. Ecco che quell’arto, strappato non solo al corpo di appartenenza, ma alle sue funzioni vitali quotidiane può forse indicarci, oltre l’indignazione del momento, il processo inverso che riporta la nostra coscienza dalle cose all’essere umano. Ed è di un terzo autore che abbiamo bisogno questa volta: Primo Levi.
In Storia dei dieci giorni, primo nucleo narrativo di Se questo è un uomo, infatti, Levi inizia a raccontare la storia della propria deportazione, proprio dagli ultimi giorni di prigionia, trascorsi insieme ai compagni che, a causa delle proprie gravi condizioni di salute, vennero lasciati nel lager abbandonato dai tedeschi.
Ma prima che arrivi, davvero, la liberazione e che inizi l’avventuroso viaggio di ritorno che permetterà agli Häftlinge, i prigionieri, di riappropriarsi della propria identità e tornare uomini, ma anche che riporterà i sopravvissuti nelle proprie case, il testimone Primo ci descrive lo scenario di morte che deve attraversare, fino all’ultimo giorno di prigionia.
In questo contesto, in cui pena e sollievo si alternano, continuamente, in modo repentino, sfiancando chi li prova, avviene l’ultima morte nel campo, di cui Levi ci racconta. È la “volta” (termine usato da Levi, che richiama una frequenza drammatica e ineluttabile di decessi) di Sómogyi, un chimico ungherese di circa cinquant’anni. L’uomo, preso da una febbre improvvisa che aggrava le sue già precarie condizioni di salute, prima di chiudersi in un “silenzio aspro”, lascia in eredità ai tre compagni di sventura l’ultima razione di pane e, dopo due giorni, muore. Lasciamo spazio alle parole dirette del testimone Primo, perché lì possiamo ritrovare il seme di umanità che ci serve recuperare anche nella tragica scomparsa di Satnam:
27 gennaio. L’alba. Sul pavimento, l’infame tumulto di membra stecchite, la cosa Sómogyi. Ci sono lavori più urgenti: non ci si può lavare, non possiamo toccarlo che dopo di aver cucinato e mangiato. […] I vivi sono più esigenti; i morti possono attendere. Ci mettemmo al lavoro come ogni giorno. I russi arrivarono mentre Charles ed io portavamo Sómogyi poco lontano. Era molto leggero. Rovesciammo la barella sulla neve grigia. Charles si tolse il berretto. A me dispiacque di non avere il berretto.
È nel gesto, carico di pietà, di Charles, di togliersi il cappello, e nel rammarico di Primo di non averne uno per compiere il medesimo gesto, che Levi riassume, magistralmente, il rituale di saluto dovuto al compagno morto. In questa scena, la breve sosta dei due prigionieri davanti alla “cosa Sómogyi”, inverte il processo di svalutazione in atto e permette al defunto di essere quello che è: una persona morta. Sómogyi non è più “la cosa” a cui la barbarie dei suoi oppressori sembra averlo ridotto, ma è una persona deceduta a cui si deve dare il commiato più dignitoso possibile, persino nelle condizioni estreme di un campo di concentramento.
E dunque, tornando al braccio di Satman, allo svilimento di quel corpo straziato interroghiamoci anche noi, come Charles e Primo, su quale possa essere il gesto che possa ridare umanità a questa morte atroce ed ingiusta. Ce ne sono certo diversi personali e privati, ma anche altri collettivi e rituali. Come scendere in piazza, insieme, ripetutamente, come lo sguardo di Satnam che non smette di guardarci, rendendolo il simbolo della lotta di esseri umani per altri esseri umani. Di fratelli per un fratello.