Putin, la visita in Corea del Nord e la guerra infinita
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La visita di Vladimir Putin in Corea del Nord, svoltasi il 18 e il 19 giugno, ha seguito il summit per la pace in Svizzera promosso dalle autorità ucraine. Gli impegni del presidente russo, destinatario di un mandato di cattura della Corte penale internazionale, in Asia (dopo Pyongyang, si è diretto in Vietnam) confermano la volontà di dimostrare come le sanzioni e i provvedimenti diplomatici adottati dai paesi occidentali poco preoccupino il Cremlino, pronto a sottolineare la presenza di buone relazioni anche al di là degli stati facenti parte dei BRICS, e poco importa se a passare come trionfo diplomatico sia la sottoscrizione di una serie di accordi con la Corea dei Kim, tale da suscitare le reazioni dall’altro lato del 38° parallelo: Seul, fino ad oggi tenutasi da parte nell’invio di armi all’Ucraina, ora vorrebbe riconsiderare la scelta.
Le certezze di Putin si sono manifestate ancor prima del viaggio nelle capitali asiatiche, con le dichiarazioni sulle condizioni necessarie per discutere di una cessazione delle ostilità in Ucraina, enunciate durante una riunione al Ministero russo degli Esteri lo scorso 14 giugno, volte a far sentire la voce di Mosca alla vigilia del vertice di Lucerna.
Sviluppata in quattro punti, la posizione delle autorità russe non si discosta da quanto già noto negli ultimi due anni: il ritiro delle truppe ucraine dalle regioni occupate e annesse alla Federazione Russa; la rinuncia dell’Ucraina a entrare nella NATO; la dichiarazione della neutralità del paese assieme alla sua completa demilitarizzazione congiunta alla denazificazione; il ritiro delle sanzioni. In cambio, assicura Putin, si otterrà la fine del conflitto perché Mosca riconosce il proprio ruolo nel garantire la stabilità globale, e l’offerta di pace implica anche la responsabilità di Kyiv e dell’Occidente, in caso di rifiuto, per ulteriori spargimenti di sangue.
Condizioni impossibili da accettare per le autorità ucraine, perché al momento le truppe russe controllano completamente solo la regione di Luhansk, e ritirare l’esercito ucraino vorrebbe dire consegnare ai russi i territori a nord-ovest di Donetsk e le città di Zaporizhya e Kherson, e che dimostrano come in realtà ogni possibilità di poter raggiungere, se non la pace, una temporanea sospensione dei combattimenti appare lontana.
Allora perché il presidente russo avanza rivendicazioni che appaiono inaccettabili per l’Ucraina? Occorre fare un passo indietro per poter ragionare su quale sia la situazione in Russia e a che punto è il conflitto da quel lato del fronte.
Di cosa parliamo in questo articolo:
Dallo sgretolamento all’assestamento
Un anno fa il sistema di potere in Russia aveva subito una delle sfide più importanti nell’ultraventennale epoca putiniana con la cosiddetta marcia per la giustizia, ovvero l’ammutinamento di Evgeny Prigozhin e della sua compagnia militare privata Wagner: le truppe fedeli all’imprenditore diventato capitano di ventura si erano dirette su Mosca e avevano preso senza alcuna difficoltà la città di Rostov sul Don. Una minaccia che aveva mantenuto con il fiato sospeso la Russia e il mondo, il cui esito finale era stato determinato dall’intervento di mediazione del presidente bielorusso Aleksandr Lukashenko, il quale era riuscito a fermare gli uomini di Prigozhin ormai a poche ore dalla capitale russa. Esattamente due mesi dopo, nonostante gli accordi presi per spostare le basi della formazione in Bielorussia con la garanzia di impunità per i protagonisti del colpo di mano, l’aereo su cui viaggiavano a bordo i vertici della Wagner cade in circostanze fin troppo sospette: l’eliminazione dell’anomalia di una compagnia diventata un esercito personale e di un ristoratore trasformatosi in comandante militare segna un passaggio importante nella tenuta del regime.
Il monopolio della forza, messo in discussione dall’esistenza della milizia di Prigozhin, viene ripristinato e la repressione colpisce anche quegli esponenti dell’estrema destra critici dell’andamento della guerra e del ministero della Difesa, per ribadire come non vi sia spazio per posizioni diverse dal Cremlino, anche per quelle ultranazionaliste e oltranziste. Igor Girkin-Strelkov, già a capo delle forze separatiste in Donbass nel 2014, condannato da una Corte olandese per l’abbattimento del volo Malaysia Airlines 17 nello stesso anno, è finito in galera per aver a più riprese attaccato i comandi militari russi e per aver provato a costruire uno spazio politico a destra del putinismo; Vladimir Kvachkov, colonnello arrestato più volte negli anni Duemila e Dieci con le accuse di terrorismo e sedizione armata, è stato multato per vilipendio dell’esercito. La neutralizzazione di opzioni alternative nel campo del sostegno alla guerra, dopo aver represso nel corso di almeno un decennio le opposizioni a Putin e oggi incarcerando chi è contro la guerra, è stata necessaria come riaffermazione del primato del sistema nel dettare l’agenda politica in Russia assieme alla dimostrazione di quale sarà il destino per gli indisciplinati dell’area Z.
La mancata riuscita della controffensiva ucraina si è tradotta nel logoramento al fronte, in cui l’esercito russo è riuscito ad avere la meglio, e anche le operazioni condotte nella regione di Kharkiv sembrerebbero andare in direzione di voler impegnare le forze armate di Kiev in un continuo e sanguinoso impasse più che in una conquista della seconda città dell’Ucraina. Ufficialmente il Cremlino presenta le attività delle proprie truppe come volte a creare un cordone sanitario al confine con la regione di Belgorod, ormai da un anno e mezzo colpita dall’artiglieria e dai missili ucraini (e occidentali), ma l’obiettivo appare essere in linea con il logoramento, perché l’impiego di uomini nel nord e nell’est della regione di Kharkiv consente di attrarre forze ucraine e alleggerire altri fronti; al contrattacco ucraino per liberare il capoluogo regionale e la città di Volchansk dalla pressione russa corrisponde la difficoltà di rispondere al tentativo russo di accerchiare Chasiv Jar, luogo nevralgico per la conquista dei territori attorno Donetsk ancora fuori dal controllo di Mosca.
Il dato principale per Putin è politico: il fallimento della campagna estiva, che era stata ottimisticamente considerata già vinta da alcuni esponenti politici e dai media, sia in Occidente che in Ucraina, viene scientemente utilizzato per affermare la giustezza delle scelte di Mosca e per mostrarne l’impossibilità di essere sconfitta in campo militare, anche se sostenuti dalla NATO. Poco importa se più che di trionfi russi al fronte si tratta di una situazione di sostanziale impasse sulla lunga linea del fuoco, dove da più di un anno, con la conquista di Bahmut avvenuta grazie alla Wagner, non vi sono mutamenti significativi. L’assestamento appare la cifra generale di questa fase della guerra, sia all’interno della Russia che al fronte.
Andrey Belousov e la gestione del ministero della Difesa
A riprova della stabilità raggiunta negli ultimi mesi vi è il cambio radicale ai vertici della Difesa: dopo la sostituzione, dopo dodici anni da ministro, di Sergei Shoigu con Andrey Belousov, seguita all’arresto del viceministro Timur Ivanov per corruzione, il rinnovamento prosegue senza soste, con ulteriori casi di malversazioni individuati tra gli ufficiali e i funzionari. Tra i dodici viceministri nominati per coaudiuvare Belousov vi è anche Anna Tsivileva, presidente della fondazione sorta in sostegno ai veterani della guerra d’Ucraina “Zashchitniki Otechestva” (Difensori della Patria) e moglie del nuovo ministro dell’Energia Sergei Tsivilev, già governatore della regione di Kemerovo. Tra le ragioni dell’ascesa della Tsivileva, proprietaria della holding Kolmar, specializzata nell’estrazione del carbone, vi è anche il cognome da nubile, Putina: secondo le inchieste dei media indipendenti russi è figlia di un noto urologo, cugino del presidente. La necessità di riportare l’ordine all’interno del dicastero, al centro di numerose polemiche sin dall’inizio della guerra e più volte preso di mira da Prigozhin nelle sue denunce contro l’élite, affidata a Belousov si accompagna a scelte dettate da considerazioni all’insegna del nepotismo presente nel sistema di potere.
La nomina del nuovo ministro, avvenuta cogliendo di sprovvista l’establishment e gli analisti, risponde a un’altra, impellente, urgenza, l’ottimizzazione delle risorse investite nel settore della Difesa, dettaglio non di poco conto ricordato da Putin nell’incontro con i vertici dell’esercito lo scorso 15 maggio, all’indomani della ufficializzazione della designazione di Belousov. Non si tratta solo degli armamenti e dei mezzi militari, ma della costruzione e della gestione di migliaia di appartamenti riservati al personale in servizio e ai veterani, dell’organizzazione e dell’amministrazione di ospedali, scuole, trasporti, dipendenti direttamente dal ministero e che richiedono cospicue assegnazioni di fondi e investimenti.
Molti degli scandali che hanno travolto gli uomini di Shoigu erano legati ad appalti e lavori in questi settori, e le conseguenze disastrose in termini di consegne vengono affrontate direttamente da Belousov: durante una visita il 20 giugno alle basi della flotta del Pacifico, il ministro ha ispezionato di persona gli appartamenti in costruzione per i soldati della 155ª brigata della fanteria di marina, ricordando ai responsabili come in caso di ritardi rischiano di essere messi sotto processo. Lo stile manageriale, decisionista, dell’economista viene visto dal Cremlino in modo favorevole, e questo consente al neoministro di poter sollevare argomenti, come la rotazione dei mobilitati al fronte, ancora considerata tabù nel maggio scorso, e a cui ha accennato sempre nel corso del viaggio nell’Estremo Oriente, sostenendo la necessità di dover completare i lavori edilizi in vista del ritorno dei militari a casa.
Le parole di Belousov sembrerebbero in tal modo spiegare l’inserimento del movimento Put’ domoj (La strada verso casa) e della sua esponente Maria Andreeva nella lista degli agenti stranieri: l’organizzazione, composta da mogli, madri e parenti dei mobilitati, da mesi protesta per chiedere il ritorno dei propri cari dal fronte e, in un rapido processo di politicizzazione, di porre fine alla guerra. Nel caso della rotazione prospettata dal ministro, però, non è prevista alcuna cessazione delle ostilità, ma potrebbe essere necessaria una nuova ondata di mobilitazione per poter sostituire gli uomini rientrati a casa. Una prospettiva che potrebbe rimettere in discussione la stabilità instabile raggiunta dal regime oggi.
Verso la guerra infinita?
Il summit per la pace convocato dall’Ucraina in Svizzera non è riuscito a ottenere risultati significativi nemmeno per la Russia, e ha mostrato come non esistano blocchi consolidati attorno alle due parti in guerra (eccezion fatta, e anche qui con alcune necessarie precisazioni, per la NATO). Appaiono però inevitabili ulteriori tentativi di dover giungere a forme di negoziati, come riconosciuto anche dal portavoce del Cremlino Dmitry Peskov e dal ministro degli Esteri ucraino Dmytro Kuleba, nonostante le dichiarazioni di Putin a margine delle visite a Pyongyang e Hanoi siano alquanto nette in merito.
Dopo aver firmato un patto di mutuo soccorso in caso di aggressione militare tra Russia e Corea del Nord (che ha spinto la Corea del Sud a riconsiderare la possibilità di fornire armi all'Ucraina), in occasione della conferenza stampa tenuta a conclusione della prima giornata di visita ufficiale in Vietnam il presidente russo è tornato sul tema del ricorso alle armi nucleari, sostenendo come si stia pensando a una ridefinizione della dottrina atomica di Mosca, e aggiungendo che in caso di una sconfitta strategica, ritenuta una minaccia alla sopravvivenza dello Stato russo, non vi sarebbero esitazioni a ricorrere al nucleare. Un tema ripreso ogni volta che si vuol dare un segnale all’Alleanza Atlantica su quali siano i limiti entro cui il sostegno all’Ucraina viene considerato tollerabile e non in grado di impensierire la Russia, e ritornato, prima, nel corso della sessione tenuta da Putin al Forum internazionale economico di San Pietroburgo e, poi, nella capitale vietnamita.
Oltre al messaggio inviato ai governi occidentali, vi è un’altra implicazione nelle parole del leader russo, la convinzione di poter continuare a combattere ancora a lungo, almeno fino al 2025. Le elezioni presidenziali negli Stati Uniti rappresenteranno un passaggio importante per la tattica adottata dal Cremlino, dove si ritiene possibile la fine del sostegno americano all’Ucraina in caso di una affermazione di Donald Trump alle urne: poco importa se, nell’attesa del responso delle urne, moriranno ancora migliaia di militari e civili, nei sobborghi di Volchansk, a Chasiv Yar, a Kharkiv o a Belgorod; Putin ritiene che il tempo sia dalla sua parte.
Immagine in anteprima: frame video Guardian via YouTube