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Giornalisti fermati e perquisiti: una tendenza pericolosa

29 Maggio 2024 8 min lettura

Giornalisti fermati e perquisiti: una tendenza pericolosa

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La scorsa settimana, durante una protesta degli attivisti di Ultima Generazione davanti al ministero del Lavoro, alcuni giornalisti sono stati fermati, identificati e perquisiti dalla polizia. Angela Nittoli (Fatto Quotidiano), il videoreporter freelance Roberto di Matteo e il fotografo Massimo Barsoum (Corriere della Sera), come raccontato da loro stessi, sono stati prelevati da una volante circa mezz’ora dopo aver esibito i documenti di identificazione e il tesserino dell’Ordine dei Giornalisti

Una volta prelevati, racconta Barsoum a Repubblica, è stato impedito loro di usare il cellulare e di avvertire del fermo le redazioni per cui lavorano: “Per tutto il tempo nessuno ci ha detto niente. Non ci hanno detto il motivo per il quale dovevamo andare in commissariato”. I tre sono stati trattenuti per un paio d’ore in una “celletta” (secondo le parole degli stessi poliziotti), ovvero una stanza di circa due metri per tre, con la porta blindata aperta, ma sorvegliata. Racconta invece Nittoli:

Ho chiesto di andare in bagno e sono stata accompagnata da una poliziotta e mi è stato detto di non chiudere la porta, ma di lasciarla socchiusa. Alle nostre richieste di essere spostati in sala d’attesa, ci è stato risposto che non ci trovavamo lì per sporgere una denuncia e che quindi saremmo dovuti rimanere in quel posto.

Ancora Nittoli a Open puntualizza che lei e i colleghi si sono rifiutati di firmare il verbale, poiché non menzionava la perquisizione: “così, di fatto siamo usciti senza una carta in mano”.

In serata è arrivata la nota della Questura di Roma, che contesta la versione dei tre giornalisti. Secondo la Questura, infatti, “i soggetti sul posto non hanno dichiarato o dimostrato di essere giornalisti”, menzionando che “nella zona di via Veneto dove era in corso un imbrattamento, altri appartenenti all'ordine dei giornalisti, dopo aver esibito il tesserino professionale, hanno continuato a fare regolarmente il proprio lavoro, senza esser sottoposti ad alcun ulteriore controllo". 

Il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, intervenendo al Festival dell’Economia di Trento, ha parlato di “un equivoco fondato sul fatto che legittimamente le persone non hanno dichiarato subito le proprie generalità e condizione di giornalista”. Dai banchi dell’opposizione è arrivata la richiesta di riferire in aula sull’episodio.  

Secondo Di Matteo, ci sarebbe stata alla base dell’accaduto una “lacuna di formazione” Il videoreporter racconta infatti di aver avuto “percezione di una situazione in cui gli agenti non sapessero di non poterci fermare”. Sulla replica della Questura, invece, Di Matteo è lapidario: “Abbiamo ‘solo’ la parola nostra contro la loro. I colleghi che hanno riportato quella nota integralmente come se fosse un errata corrige credo che abbiano fatto un gesto un po’ vigliacco”.

La Federazione Nazionale della Stampa Italiana ha commentato l’episodio parlando di “censura preventiva”. Elisa Marincola, portavoce nazionale di Articolo 21 ha così commentato l’episodio: “Non solo siamo di fronte a una violazione del diritto di cronaca ma è anche azione di contrasto al dissenso, perché questi colleghi, anche se non si fossero qualificati, sarebbero stati dei semplici cittadini che stavano semplicemente in un luogo, nei pressi di quella che è stata una manifestazione di dissenso di Ultima Generazione”.

Altri precedenti

A margine dell’accaduto, varie testate hanno rievocato precedenti analoghi, dove giornalisti sono stati fermati e perquisiti mentre coprivano proteste o azioni dimostrative. Anche perché lo scorso 10 maggio, in un incontro con la stampa proprio a seguito di alcuni di questi episodi, il ministro Piantedosi aveva offerto rassicurazioni “sulla tutela dei giornalisti nello svolgimento del loro lavoro nel pieno rispetto del diritto di cronaca”, come riporta una nota congiunta della Federazione Nazionale della Stampa Italiana e dell’Ordine dei Giornalisti.

Lo scorso aprile Edoardo Fioretto, collaboratore del Mattino di Padova, è stato fermato e trattenuto mentre seguiva per lavoro gli attivisti di Ultima Generazione, impegnati in un’azione di protesta. Anche lui racconta di non aver potuto usare il cellulare, mentre il fermo è avvenuto insieme agli attivisti di Ultima Generazione, anche se non è stato né interrogato né fotosegnalato. Fioretto prima di essere portato via è però riuscito a comunicare con la redazione, tuttavia l’avvocata del Mattino Orietta Baldovin ha raccontato di non aver potuto parlare con lui durante le 4 ore del fermo: “Sono andata in Questura e ho chiesto più volte di poter parlare con il mio assistito, ma mi è stato detto che non potevo farlo. Ho atteso per tutto il tempo fuori” .

A novembre, invece, è stato fermato, perquisito e trattenuto in Questura a Messina il giornalista di Repubblica Fabrizio Berté, mentre stava seguendo per lavoro una manifestazione ambientalista promossa da Ultima Generazione. Sempre a novembre, ma nel 2022 il giornalista di Fanpage Valerio Renzi, mentre era all’aeroporto di Ciampino per coprire una protesta di Ultima Generazione, è stato fermato assieme ad altri colleghi: 

Nonostante mi fossi identificato, nonostante avessi mostrato il tesserino e nonostante fosse chiaro il mio ruolo non mi è stato possibile allontanarmi, scortato dalla polizia per andare in bagno. Destino condiviso con altri colleghi che sono stati anche denunciati.

Tra questi, Mattia Fonzi, che lavora per OpenPolis. Su X/Twitter Fonzi ha raccontato di essere per l’appunto stato denunciato con tre capi di imputazione: “A tutti, manifestanti e stampa, è stato rilasciato un verbale di denuncia, dove ci accusano di 3 capi di imputazione. È stata caricata anche la stampa, oltre ai manifestanti, immotivatamente”. 

A questi casi, tutti inerenti il lavoro di giornalisti che seguono gli ecoattivisti, bisogna poi affiancare le manganellate ricevute dalla giornalista di Repubblica Alessia Candito nel settembre 2022. Nell’occasione stava coprendo a Palermo le contestazioni all’indirizzo della premier Giorgia Meloni, e le relative cariche della polizia contro i manifestanti. Nel 2019, invece, un altro giornalista di Repubblica, Stefano Origone, venne preso a manganellate a Genova durante le proteste per un comizio concesso a CasaPound in pieno centro. All’epoca il Questore di Genova andò a trovare Origone in ospedale, scusandosi con lui e con la famiglia. 

Nel gennaio di quest’anno la Corte di Cassazione ha annullato la sentenza del processo agli agenti di polizia. La procura generale aveva fatto ricorso contro la sentenza della Corte di Appello, ritenendo dolosa la natura delle lesioni inferte al giornalista, e non frutto di un eccesso colposo nell’uso legittimo delle armi. 

La repressione della copertura giornalistica del dissenso è il sintomo di un problema strutturale

Gli episodi mettono sotto i riflettori le condotte delle forze dell’ordine verso i giornalisti, nel quadro di una più generale repressione del dissenso. A delle persone è stato impedito di svolgere il proprio lavoro: o ricorrendo allo stato di fermo, o all’uso della forza. In alcuni casi ciò si è accompagnato a denunce dei fermati. In particolare per quanto riguarda la copertura degli ecoattivisti, le autorità chiamate in causa hanno in pratica o minimizzato o negato l’accaduto, a partire dallo stesso ministro dell’Interno. Perciò l'hanno avvalorato, senza contare che, come ricordato per l’appunto da Marincola di Articolo 21, delle persone senza tesserino hanno comunque il diritto di partecipare a una manifestazione. O il fatto che in Italia gli atti di giornalismo sono così subordinati all'avere un tesserino, rendendo il documentare quanto accade durante una manifestazione un privilegio per pochi.

Un piano che, tuttavia, nel dibattito e nella ricezione di questi episodi è pressoché assente, in nome di una depoliticizzazione totale che non considera il protestare una forma di libertà di espressione. Prevale una sorta di senso comune che, volente o nolente, diventa collaterale a eventuali abusi da parte delle autorità. Del resto gli ecoattivisti vengono bollati come “eco-terroristi” a partire da politica e stampa; se qualcuno contesta una ministra si parla di “fascismo degli antifascisti” o di “squadrismo”, così come le manifestazioni pro-Palestina sono trattate come un problema di ordine pubblico, quando va bene. 

Certo, nessun diritto è assoluto e da qualche parte va tirata una linea, onde evitare che l’esercizio di quel diritto diventi alibi per compiere a sua volta abusi. Ma questa linea non può essere tracciata con i manganelli e le cariche, creando la falsa percezione che siano l'ultimo baluardo contro l'anarchia. O mettendo a repentaglio il lavoro dei giornalisti.

Perciò non vedremo mai un dibattito per chiedere se una ministra come Roccella, che si atteggia a vittima di censura di “squadrismo” di fronte a qualche slogan e qualche cartello (il minimo sindacale di contestazione) sia o meno all’altezza del ruolo che ricopre. Al di fuori delle classiche mosche bianche, non si focalizza l’attenzione sul perché ci siano standard di gestione diversi per i blocchi stradali, a seconda di chi organizza la protesta. Sul perché ci siano veri e propri impianti legislativi che vengono messi in moto per colpire specifiche categorie di cittadini; ad esempio proprio gli ecoattivisti, come spiegato all’ultima edizione del Festival Internazionale del Giornalismo dalla ricercatrice Xenia Chiaromonte.

Ancora prima di qualunque discorso sulle posizioni espresse in questa o quella manifestazione (dibattito sacrosanto), si assiste a una sorta di moviolone collettivo in cui bisogna decidere se la repressione sia “meritata” oppure no. Ci si focalizza su chi subisce l’azione delle autorità, non su queste ultime. Come se vigesse un contratto sociale il cui patto, in sintesi, dice così: “Se sei un bravo cittadino non ti succede nulla”. Come se le forze dell'ordine fossero i primi custodi di quel patto. Ma è un patto osceno a monte, poiché la definizione di “bravo cittadino” è arbitraria e non negoziata, e quindi in mano a chi ha più potere. A meno che non si voglia ridurre il diritto a esprimere il dissenso a una parata innocua, che non causa alcun disturbo. E, di conseguenza, la copertura mediatica di chi esercita questo diritto come qualcosa che è meglio evitare per non amplificare il disturbo. 

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Il fatto che l’asticella della repressione si sposti senza troppi problemi a inglobare anche i giornalisti che svolgono il proprio lavoro è un segnale dei tempi in cui viviamo, non una eccezionalità italiana, o di questo governo. Nel 2022 nel Regno Unito alcuni funzionari di polizia ordinarono l’arresto di quattro giornalisti durante le proteste di Just Stop Oil. Nell’ottobre 2023 Reporter Senza Frontiere chiese al ministro dell’Interno francese “di  fermare la violenza della polizia contro i giornalisti che coprono le proteste per la riforma delle pensioni”. Senza contare la casistica ad ampio spettro di minacce, intimidazioni e ostacolo all’esercizio della professione, con una vera e propria limitazione dell’accesso alle informazioni. È la politica, intesa come classe, a dare il primo esempio dall’alto alle forze dell’ordine che si trovano sul campo.

Occorre perciò avere una visione del fenomeno che sia al tempo stesso globale, per uscire dal provincialismo, e che sappia leggere i contesti specifici, per evitare generalizzazioni astratte. E occorre uscire dal particolarismo che fa pensare “questa cosa non mi riguarda”, o “questa cosa a me non può succedere”, proprio perché parliamo di persone che svolgono il loro lavoro (nel caso dei giornalisti), o di persone che esercitano diritti universali. Per cui, a meno che non si abbia già rinunciato in partenza a questi diritti, o non si sia scelto di guadagnarsi il pane attraverso il servilismo, i casi di cui abbiamo parlato non possono che riguardarci.

Immagine in anteprima: frame video Tele Ambiente via YouTube

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