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Referendum CGIL: il Jobs Act è il passato, ma la sinistra non ha un piano per il lavoro

13 Maggio 2024 10 min lettura

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Referendum CGIL: il Jobs Act è il passato, ma la sinistra non ha un piano per il lavoro

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La CGIL ha lanciato la sua raccolta firme per i referendum popolari sul lavoro. Il sindacato guidato da Maurizio Landini ha proposto in tutto quattro quesiti. Il primo riguarda le norme sui licenziamenti illegittimi: il sindacato vuole cancellare le norme che consentono alle imprese di non reintegrare più un lavoratore licenziato in modo illegittimo. Con uno dei provvedimenti che fa parte del pacchetto del Jobs Act, il reintegro del lavoratore o della lavoratrice era stato sostituito da un indennizzo monetario basato sull’anzianità in azienda. Di fatto, il primo quesito si configura come la reintroduzione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. 

Il secondo quesito riguarda invece i diritti di lavoratori e lavoratrici nelle imprese con meno di 15 dipendenti. Qualora un licenziamento in una piccola azienda si riveli essere illegittimo, è previsto o il reintegro o l'indennizzo. Il quesito della CGIL permetterebbe al giudice di definire in maniera più libera il valore dell’indennizzo, mentre oggi vi è un tetto massimo di sei mensilità, maggiorabile dal giudice fino a dieci per chi ha lavorato più di dieci anni in azienda e quattordici per chi ha lavorato più di vent’anni. Questo funzionerebbe da deterrente, come spiega Lorenzo Fassina, responsabile giuridico della CGIL, contro i licenziamenti illegittimi. 

Il terzo quesito riguarda una forte limitazione dei contratti a tempo determinato senza causale giustificativa, cioè quelli senza motivo. Vi sono infatti dei motivi per cui è giustificabile il ricorso a un contratto a tempo determinato, come aumenti di attività economica o stagionalità. Ma oggi il contratto a tempo determinato, nonostante un calo negli ultimi anni, è ancora utilizzato senza motivo nel nostro paese. Se dovesse essere approvato, questo quesito del referendum restringerebbe in maniera drastica l’utilizzo del contratto a tempo determinato a sole causali specifiche o temporali. 

Il quarto quesito riguarda invece le norme sulla responsabilità delle aziende appaltanti. Attualmente, la normativa stabilisce che i committenti non sono responsabili per tali incidenti, quando le attività vengono delegate a imprese che a loro volta subappaltano il lavoro.

Come avevamo spiegato in questo articolo su Valigia Blu, la pratica diffusa di affidare contratti ad aziende esterne senza valutarne adeguatamente la solidità finanziaria o l'aderenza alle normative sulla sicurezza ha contribuito all'aumento degli incidenti sul lavoro. L’abolizione delle norme specifiche, come propone la CGIL, avrebbe come conseguenza diretta una maggiore responsabilizzazione dei committenti, che verrebbero chiamati a rispondere in caso di incapacità dell'appaltatore o del subappaltatore di fornire il dovuto risarcimento. Come spiega sempre Lorenzo Fassina, “l’effetto della cancellazione sarebbe quello di rafforzare e ampliare la sicurezza sul lavoro e di spingere i committenti a selezionare appaltatori adeguati”. 

Questi referendum sono però diventati terreno di scontro politico. Tra i primi a firmare ci sono stati il leader del Movimento 5 Stelle Giuseppe Conte, quello di Sinistra Italiana Nicola Fratoianni e quello dei verdi Angelo Bonelli. Dopo un tentennamento iniziale anche la segretaria del Partito Democratico Elly Schlein ha firmato per i referendum. Questo ha però agitato gli animi sia all’interno del suo partito, dove la componente più riformista ha espresso perplessità, sia al di fuori, con attacchi da parte dei fuoriusciti del PD e confluiti in Italia Viva che hanno accusato duramente attaccato la nuova linea del PD di aver sposato una linea radicale ed estremista seguendo il leader del Movimento 5 Stelle. 

Il Jobs Act: tra narrazione e realtà

Tra i referendum proposti dalla CGIL, il primo quesito ha destato maggiore scalpore, in quanto andrebbe di fatto ad archiviare definitivamente la stagione del Jobs Act voluto dal Governo Renzi. Il provvedimento, che avrebbe dovuto porre fine al dualismo del mercato del lavoro per renderlo più dinamico, rappresenta ancora oggi uno dei cavalli di battaglia dei supporter di Renzi. Nel corso del tempo tanto Renzi quanto altri membri del partito di Italia Viva hanno vantato i meriti del Jobs Act: il leader di Italia Viva ha più volte ripetuto che grazie al Jobs Act sono stati creati oltre un milione di posti di lavoro. Un’analisi meno di parte, come vedremo più avanti, mostra però che il provvedimento ha avuto effetti più complessi. 

Per avere un quadro della situazione, è opportuno chiarire che il Jobs Act si basava su due pilastri. Il primo era di tipo legislativo, attraverso l’introduzione del Contratto a Tutele Crescenti. Questo intervento era mirato a modificare il regime sanzionatorio per il licenziamento illegittimo: se in precedenza, proprio grazie all’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, il lavoratore licenziato illegittimamente era tenuto al reintegro, con il contratto a tutele crescenti gli viene invece garantito un indennizzo economico. 

Il secondo pilastro, strettamente collegato al primo, era un imponente decontribuzione per chi assumeva con il contratto a tutele crescenti. Questo si traduce in uno sgravio fiscale fino a 8 mila euro per i contributi a carico del datore di lavoro nel 2015, con una riduzione a 3 mila per l’anno successivo. 

Oltre a questi, si trovano interventi come l’introduzione dei voucher per lavori saltuari che altrimenti sarebbero stati pagati in nero, l’introduzione di una indennità mensile di disoccupazione, per i lavoratori dipendenti che hanno perso il lavoro (NASPI), l’aumento da 12 a 36 mesi dei contratti a tempo determinato previsti dalla Legge Fornero.

Partiamo quindi con i dati: come afferma Renzi, il Jobs Act avrebbe prodotto oltre un milione di posti di lavoro. In effetti, i dati ISTAT mostrano che durante l’esperienza del governo Renzi - che però non coincide necessariamente con il periodo del Jobs Act - il numero di occupati è passato da 22 milioni a 22.9 milioni, un dato quindi, seppure di poco inferiore, in linea con le affermazioni di Renzi.

Ma questa stima risulta poco affidabile per due motivi. In primo luogo, per la definizione adottata da Istat di “Occupati”. L’istituto considera come “occupato” chi ha tra i 15 e gli 89 anni e nella settimana in cui sono stati raccolti i dati ha dichiarato di aver svolto almeno un’ora di lavoro retribuita. Inoltre sono considerati tra gli occupati anche i lavoratori in ferie, in maternità o paternità, e i lavoratori assenti per un periodo inferiore a tre mesi. Per questo motivo, il dato Istat fornisce un quadro meno edificante rispetto a quanto non appaia a primo impatto.

C’è poi una seconda ragione, più tecnica, ma di vitale importanza per comprendere il dibattito italiano ancora oggi, come dimostrano i vanti del Governo Meloni sull’occupazione. Sopra abbiamo detto, durante il periodo del governo Renzi, gli occupati sono aumentati di 900 mila unità. Il problema è che questo non significa affatto che questi 900mila occupati in più siano effetto diretto del Jobs Act, tutt’altro. L’andamento dell’occupazione è infatti influenzato da una molteplice varietà di fattori, alcuni determinati dai governi in carica ma per la maggior parte no. Per poter comprendere l’effetto di un singolo provvedimento, i ricercatori e le ricercatrici ricorrono al “controfattuale”: si cerca, utilizzando vari metodi, di stimare come sarebbe stato l’andamento dell’occupazione in Italia se non ci fosse stato il Jobs Act, tenendo tutti gli altri fattori fissi. 

Uno studio in tal senso è stato fatto dai due economisti Tito Boeri e Pietro Garibaldi in un loro lavoro del 2019 che utilizza un dataset estremamente ricco e una metodologia ormai assodata per la stima di effetti causali. I due studiosi, infatti, hanno confrontato gli effetti del Jobs Act sulla dinamica occupazionale tra le imprese con più di 15 dipendenti e quelle con meno di 15 dipendenti, per cui non si applicava l’articolo 18. Il risultato dello studio mostra che il Jobs Act ha sì aumentato il numero di contratti a tempo indeterminato del 60%, ma sono anche aumentati i licenziamenti rispetto alle aziende più piccole, che segnano un più 50%. Come ha spiegato l’economista Fabio Sabatini su Twitter, a livello causale si può dire che Jobs Act ha portato a un aumento delle assunzioni, ma anche a un aumento dei licenziamenti. 

Non solo le assunzioni sono state, come detto, inferiori rispetto a quanto sostenuto dal leader di Italia Viva, ma la questione si fa ancora più complessa. In primo luogo perché, come rileva un lavoro di Banca d’Italia svolto sulla regione Veneto, c’è stato un aumento occupazionale, ma a fronte di una minor selezione dei lavoratori. C’è poi un’eterogeneità per settori: i nuovi contratti di lavoro permanenti sono più concentrati in aziende a bassa specializzazione e nel settore dei servizi, mentre il contrario avviene nel settore manifatturiero. 

Ma l’aspetto più rilevante riguarda gli effetti, distinti, dei due incentivi: quello legislativo e quello economico. Infatti si nota che la crescita dei lavoratori a tempo indeterminato è più concentrata nel 2015 che nel 2016, dove invece crescono di più i contratti a tempo determinato. Come ha osservato il Think Tank Tortuga, ciò dipende dal fatto che l’incentivo monetario si è rivelato efficace, mentre quello legislativo meno: quando infatti la decontribuzione è stata tagliata, si è assistito nuovamente a una crescita dei contratti a tempo determinato. 

La stessa conclusione a cui è giunto un lavoro dell’Istituto Nazionale per l’Analisi di Politiche Pubbliche (INAPP), che sottolinea come, senza l’incentivo monetario, il contratto a tutele crescenti non è riuscito a garantire un’occupazione stabile. 

Il motivo risiede proprio in uno dei provvedimenti che costituiscono il Jobs Act: con il Decreto Poletti, infatti, il governo Renzi aveva facilitato il ricorso ai contratti a tempo determinato, di fatto minando la convenienza del contratto a tutele crescenti. E a pagarne le conseguenze sono soprattutto i giovani. Secondo un’analisi pubblicata sul sito LaVoce.info, grazie alla decontribuzione il Jobs Act avrebbe portato a un aumento di giovani nel mercato del lavoro. Quando è stata ridotta, si è assistito a un calo dei contratti a tempo indeterminato, sostituiti da contratti di apprendistato e a tempo determinato.

Non mancano poi gli interventi da parte della Corte Costituzionale che ha più volte alterato i provvedimenti del Jobs Act, pur mantenendo il nocciolo duro della riforma. 

Il referendum porterà da qualche parte?

La discussione sui referendum della CGIL merita un approfondimento sul metodo, quello referendario. Lo strumento referendario infatti permette solo di intervenire in maniera chirurgica su provvedimenti specifici, come abbiamo visto nell’introduzione. Si tratta di una strada intrapresa più volte nel nostro paese - pensiamo ai referendum su eutanasia e legalizzazione della marijuana - che però si è scontrata, spesso, con le difficoltà intrinseche dello strumento, che permette di intervenire, a livello abrogativo, solo su singoli provvedimenti. Al contrario il mondo del lavoro, più che interventi chirurgici, richiede una visione sistemica che prenda atto del fallimento, dal punto di vista elettorale ed economico, della stagione della flexicurity, in cui c’era parecchia flessibilità e poca sicurezza. Quella stagione, iniziata formalmente con il pacchetto Treu nel 1997 – ma si potrebbe andare indietro – non ha dato i frutti sperati. La speranza era di ridurre il dualismo nel mercato del lavoro italiano o, come disse all’epoca Massimo d’Alema proprio al congresso della CGIL: “La mobilità, la flessibilità, sono innanzitutto un dato della realtà. È il grande problema che si pone a noi di sinistra [...] Dobbiamo costruire nuove e più flessibili reti di rappresentanza e di tutela.”

Il lascito di quella stagione è invece pesantemente negativo. Secondo l’analisi dei due economisti Daniele Cecchi e Tullio Jappelli, la dinamica delle disuguaglianze è in buona parte spiegata proprio da questa stagione di riforme del mercato del lavoro, che hanno provato a rilanciare la competitività del paese agendo su salari e tutele. In un altro studio, tre economisti hanno analizzato le tendenze del mercato del lavoro tra il 1985 e il 2016. La loro analisi ha fatto emergere due tratti salienti: da una parte, un aumento della volatilità nelle retribuzioni e, dall’altra, un aumento della disuguaglianza. 

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Inoltre, gli studiosi hanno notato che il contratto a tempo determinato difficilmente si traduce in un contratto a tempo indeterminato e questo disincentiva sia il lavoratore sia l’impresa dall’investire in capitale umano. A essere più colpiti, ancora una volta, sono i giovani, che hanno visto sia un calo nelle retribuzioni sia un calo nel rendimento dell’esperienza lavorativa rispetto alle coorti precedenti a partire dagli anni Duemila. Oltre all’aumento delle disuguaglianze, quindi, questa strategia avrebbe anche un impatto negativo sulla produttività del lavoro che nel nostro paese è ferma da trent’anni, disincentivano l’accumulazione di capitale umano. 

In parte, questa stagione era nata per risolvere un problema che affliggeva non solo l’Italia, ma l’intera Europa: quello che va sotto il nome di eurosclerosi. Dopo lo shock petrolifero degli anni ‘70, il mercato del lavoro americano era tornato ai livelli precedenti, mentre l’Europa sembrava soffrire proprio di un’eccessiva regolamentazione che rendeva più difficile trovare un lavoro per chi l’aveva perso. Oggi il problema è invece il contrario, cioè la mancanza di buoni lavori che siano ben pagati e stabili. Nel mondo vi sono esempi da cui prendere spunto: uno su tutti è quello della Spagna, dove la ministra del lavoro Yolanda Diaz ha proposto e fatto approvare - in maniera rocambolesca -una riforma del lavoro che contrasta proprio la precarietà, concordata con sindacati, rappresentati del mondo dell’impresa e commissione europea. 

Anche all’interno del PD vi sono delle voci che sottolineano come la battaglia non debba essere combattuta con i referendum, quanto con una proposta più organica, che però finora il Partito Democratico non ha avuto. Certamente la battaglia per il salario minimo rappresenta un buon punto di partenza, ma da parte di un partito che ha perso la sua presa sul ceto operaio serve una proposta che vada a toccare i nervi scoperti della precarietà e del lavoro povero che, come testimoniano i dati, è ancora largamente diffuso nel nostro paese. Ciò non significa abbandonare in toto il paradigma della flexsecurity, ma essere consci dei limiti dell’approccio. Su come possano coniugarsi da una parte la tutela del lavoratore e dall’altra il mutato contesto socio economico è forse davvero il tema che il centro sinistra dovrà affrontare se vuole governare il paese. 

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