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Da Milosevic a Vucic, il lungo tradimento della democrazia serba

26 Marzo 2024 7 min lettura

Da Milosevic a Vucic, il lungo tradimento della democrazia serba

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Riunito in sessione plenaria a Strasburgo all'inizio di febbraio, il Parlamento Europeo ha approvato una risoluzione sulla situazione in Serbia dopo le elezioni dello scorso dicembre. Il testo chiede un'indagine internazionale e indipendente sulle irregolarità denunciate dall'opposizione in Serbia riguardo alle ultime elezioni, vinte dal partito del presidente serbo Aleksandar Vučić. La risoluzione include anche la richiesta di una sospensione dei finanziamenti da parte dell'Unione Europea nel caso in cui le autorità di Belgrado non si mostrino pronte ad attuare le principali raccomandazioni elettorali o nel caso in cui i risultati dell'inchiesta dimostrino un coinvolgimento diretto delle autorità serbe nei presunti brogli.

Le elezioni locali a Belgrado hanno visto la vittoria della coalizione di opposizione “Serbia contro la violenza” che riunisce diversi partiti, movimenti civici ed ecologisti. Tuttavia, stando a quanto sostenuto dal presidente serbo Vučić, ciò non è accaduto. Il nome di questa coalizione nasce dopo le tragiche sparatorie in Serbia avvenute prima in una scuola e poi davanti un’altra, all’inizio di maggio dell'anno scorso, in cui sono state uccise 19 persone. Questa lista ha segnalato 450 irregolarità, e la più grande riguarda il voto delle persone provenienti dalla Repubblica Srpska [ndr, la Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina] a Belgrado, ma anche in altre città in Serbia. Secondo quanto dichiarato dai loro rappresentanti, il governo ha permesso il voto a più di 40.000 persone provenienti dalla Bosnia, solo a Belgrado.

Tuttavia, le accuse delle molte irregolarità non sono arrivate solo da parte dell’opposizione, ma anche dagli osservatori internazionali, tra cui i rappresentanti dell’OSCE, l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa. In un paese democratico, questo sarebbe motivo sufficiente per interrompere le elezioni, ma non in Serbia, il paese candidato all'adesione all'UE.

“Vergogna eterna per le marionette straniere”

Commentando gli eventi verificatisi a Strasburgo, il presidente Vučić, visibilmente scosso, ha dichiarato che questa risoluzione non è la prima, né tantomeno l'ultima e con il tempo sarà dimenticata, mentre la vergogna eterna dell'opposizione rimarrà per sempre.

Durante un suo discorso da New York, dove si era recato per incontrare il Segretario Generale delle Nazioni Unite, António Guterres, per discutere dei prossimi passi riguardo alla situazione in Kosovo, il presidente serbo, visibilmente scosso, ha accusato i membri dell'opposizione di cercare di assumere il potere in veste di burattini delle forze straniere. 

Non è la prima volta che Vučić esprime un'accusa del genere. L'ultima volta che l’ho ascoltato parlare dal vivo risale all'11 aprile 2002, dopo il suicidio dell'ex ministro della polizia serbo, Vlajko Stojiljković. L’ex ministro era accusato di crimini di guerra in Kosovo e avrebbe dovuto scontare la sua pena nel carcere di Scheveningen all’Aja, destinato ai detenuti ex jugoslavi condannati per crimini di guerra.

Ricordo nitidamente quel giorno. Aspirante giornalista, mi ero recata per realizzare un servizio di fronte al parlamento. Non dimenticherò mai l'espressione commossa del giovane Aleksandar Vučič, all'epoca segretario del Partito radicale serbo. Di fronte alla folla di persone giunte per rendere omaggio all'ex ministro, accusò l'opposizione del regime dittatoriale di Slobodan Milošević di essere dei traditori, dei mercenari stranieri e responsabili di quanto accaduto.

Quella sera, mentre cercavo di parlare con le persone riunite di fronte al Parlamento, mi sono trovata all’improvviso circondata da altre persone che mi hanno accusata di essere una traditrice e una bugiarda, e di essere pagata dai sostenitori stranieri. Una donna, poco più vecchia di mia nonna, mi disse che ero “una strega da bruciare”. In quel periodo, facevo il tirocinio presso la radio Index, uno dei media oppositori al regime di Milošević.

Quale futuro per il paese che sabota la democrazia

Prima della votazione sulla risoluzione, a Strasburgo si è svolto un panel dal titolo "Serbia: la democrazia al bivio", al quale hanno partecipato i rappresentanti della coalizione di opposizione serba.

Dopo la rivoluzione del 5 ottobre 2000, nota come la “rivoluzione dei bulldozer” che segnò la fine del regime di Slobodan Milošević, ho nutrito una forte fiducia nella libertà e nella democrazia che ci attendevano. Ricordo quei giorni prima e dopo l’evento epocale, quando circa mezzo milione di persone invase le strade della capitale Belgrado. Quel giorno abbiamo incendiato il parlamento e finalmente sconfitto un dittatore. Poco tempo dopo, la bandiera americana sventolava sull'edificio della mia Università, dove studiavo Scienze Politiche. In quel periodo, fu istituito un Dipartimento per gli Studi americani e io ero convinta che tutto ciò fosse la rappresentazione dell’arrivo della democrazia.

Srđa Popović, leader del movimento Otpor, e simbolo della lotta contro il regime, all'epoca consigliere del primo ministro Zoran Đinđić che fu successivamente ucciso, era il mio professore di Ecologia politica. Ci ha fatto lezioni sull'importanza dell'ecologia nei paesi democratici e ci ha spiegato la natura della transizione democratica. Secondo lui, nel caso della Serbia, sarebbero stati necessari anni per completare il processo verso il passaggio definitivo alla democrazia. Popović mostrava fiducia e convinzione in questo cammino, e anch'io – lo ammetto – condividevo la sua stessa prospettiva.

Mentre, il presidente del Centro per le elezioni libere e la democrazia (CESID) – e all’epoca mio professore di Sociologia politica – Zoran Stojiljković, ci aveva insegnato che le elezioni sono l’apice della democrazia. A quel tempo, quando in Serbia era stato appena introdotto il sistema parlamentare, lui ci disse che negli anni a venire avremmo avuto la possibilità di partecipare al processo elettorale democratico.

Dai momenti di speranza ai momenti più bui

Dalla cosiddetta "rivoluzione dei peluche" presso la fontana di Terazija nel 1991 a Belgrado, alle proteste contro la dittatura nel 2017 e alle marce di protesta "1 su 5 milioni" che sono durate quasi un anno, fino ai raduni più massicci "Serbia contro la violenza" nel 2023, sono trascorsi oltre 30 anni. 

Avevo soltanto 11 anni, troppo piccola per comprendere appieno quanto accaduto durante quella prima manifestazione di massa contro il regime di Slobodan Milošević, quando l’esercito jugoslavo si scontrò con il popolo sulle strade della capitale e quando il diciassettenne Branivoje Milinović venne ucciso dai colpi di pistola. Dal 9 al 14 marzo del 1991, oltre 200.000 studenti provenienti dalle altre città serbe manifestarono contro una politica sull'orlo della guerra. Il paradosso di quella protesta risiede nel fatto che, nonostante alla fine tutte le richieste dei manifestanti fossero state soddisfatte, pochi giorni dopo scoppiò il conflitto in Croazia.  

Anche io mi resi conto che la guerra era iniziata. Trascorrevo le serate sul divano con mia nonna a guardare i telegiornali. Non ero sicura di chi stesse combattendo contro chi, e ci voleva del tempo per capire perché anche a scuola avessimo cominciato a dividerci tra serbi, croati e bosniaci. Prima eravamo tutti jugoslavi.

Negli anni successivi, mentre la guerra si diffondeva in Bosnia, gli studenti serbi continuarono a protestare contro il regime. Si riversarono per le strade, affrontando le percosse della polizia, i gas lacrimogeni e i proiettili di gomma. Picchiare i manifestanti era il modo in cui il regime dell'epoca trattava chi si opponeva.

Delle ampie proteste dell'inverno del 1996 e 1997, quando oppositori e studenti scesero in strada per contestare i brogli elettorali, ricordo la bellissima immagine della festa di Capodanno che si svolse nella piazza principale di Belgrado in quell'occasione. Un ricordo memorabile che mi ha spinto a unirmi alle proteste con oltre mezzo milione di persone il 5 ottobre 2000, quando finalmente sconfiggemmo il nostro presidente. Tutti noi abbiamo creduto fermamente che i giorni migliori sarebbero arrivati. Abbiamo creduto nei valori e nelle istituzioni democratiche che stavano emergendo in un paese che pare sia in una transizione del processo democratico senza fine.

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Studenti contro il regime, per un futuro migliore 

Durante tutto questo periodo, gli studenti serbi, spesso definiti come traditori della patria hanno protestato contro le guerre nell'ex Jugoslavia, contro l'embargo e le sanzioni, contro il regime di Slobodan Milošević e nell’ultimo decennio contro il governo di Aleksandar Vučić, che per ironia di quella transizione democratica, ha istituito un governo autoritario. Il governo che, secondo lui, ha garantito lo svolgimento delle elezioni più democratiche mai tenutesi in Serbia. Tuttavia, nonostante abbia dichiarato che la risoluzione del Parlamento europeo equivale a un'occupazione di un paese sovrano, il presidente serbo ha annunciato alcune settimane fa nuove elezioni locali a Belgrado, le quali si terranno il 2 giugno. 

Emilija Milenković, una studentessa della Facoltà di Scienze Politiche di Belgrado, ha dichiarato durante una manifestazione di protesta contro il presunto furto elettorale che nel 2012, all'ascesa al potere del Partito Progressista Serbo guidato da Aleksandar Vučić, lei aveva appena 10 anni. Quando frequentavo la stessa facoltà, Emilija non era ancora nata, e nessuno poteva prevedere in quale paese sarebbe cresciuta. In quel periodo, credevo fortemente che ci sarebbe stato un futuro migliore per la nostra gioventù e il nostro paese, che nessuno avrebbe potuto rubarci il futuro. 

Ed è proprio questo che ha urlato Emilija, oggi 21enne e leader di un gruppo di protesta studentesca che ha chiesto l'annullamento delle elezioni in Serbia. Dicendo di non sapere cosa significhi vivere in una società normale, con una rabbia palpabile, ha gridato che i giovani non permetteranno ai politici di sottrarre loro la terra e la vita nel loro paese. La voce e la dignità sono le uniche risorse rimaste ai giovani che lotteranno contro chiunque voglia rubare il loro futuro.

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