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“I rifugiati sono un sintomo del nostro fallimento collettivo”

12 Dicembre 2023 4 min lettura

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“I rifugiati sono un sintomo del nostro fallimento collettivo”

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Sono passati otto anni da quando l’immagine del piccolo Alan Kurdi, trovato morto sulla spiaggia di Bodrum, in Turchia, insieme ad altre 12 persone in fuga dalla guerra in Siria, fece il giro del mondo. 

Ci si interrogava sull’opportunità o meno di pubblicare la foto del corpo del bambino di 3 anni. Chi lo aveva fatto si era detto convinto che quella immagine avrebbe rappresentato il punto di non ritorno: “If these images don't change Europe, what will?”, avevano titolato diverse testate giornalistiche. Per inchiodare alle proprie responsabilità chi governa. Quella foto, si era scritto all’epoca, era la rappresentazione iconica, la “conseguenza”, di scelte politiche. 

Quest’anno è stato ricordato il decennale del naufragio di Lampedusa. Era il 3 ottobre 2013, quando di fronte all’isola di Lampedusa morirono almeno 368 persone, in gran parte eritrei, in fuga dalla Libia. Anche allora le immagini delle bare allineate, bianche e di piccole dimensioni, scossero l’opinione pubblica. Poi, otto giorni dopo, ci fu “il naufragio dei bambini”: un’imbarcazione si rovesciò tra la Libia e Lampedusa e causò la morte di 268 persone, per lo più siriane, 60 erano bambini.

Mai più, si disse. Fu avviata l’operazione “Mare nostrum”, per salvare le persone in fuga da guerre, conflitti e miserie, ed evitare le morti in mare. È durata solo un anno, poi sono iniziate le politiche securitarie di controllo dei confini, di “difesa da invasioni” mediaticamente artefatte, della criminalizzazione dei salvataggi in mare, della gestione delle persone migranti come sacchi di patate bollenti da spostare il prima possibile, dello smantellamento dei sistemi di accoglienza e della burocratica complicazione delle procedure di riconoscimento del diritto di asilo. 

Ci siamo scioccati, abbiamo pianto un po’, abbiamo parlato di punti di non ritorno e poi ci siamo assuefatti. E, intanto, ogni anno rinnoviamo gli atlanti delle guerre e dei muri nel mondo per aggiornare il numero di conflitti, di chi scatena e conduce guerre, chi reprime il dissenso, chi schiaccia, e chi deve garantire un porto sicuro, sistemi di accoglienza idonei e prassi di riconoscimento di status e diritti in conformità con le convenzioni internazionali sottoscritte, e non lo fa.

“Ogni rifugiato è un sintomo del nostro fallimento collettivo nel garantire pace e sicurezza”, ha scritto l’Alto Commissario per i Rifugiati delle Nazioni Unite, Filippo Grandi, in un editoriale sul Guardian alla vigilia del secondo forum globale sui rifugiati, che si svolgerà dal 13 al 15 dicembre a Ginevra.

Il fallimento è condiviso da chi, “in un periodo di conflitti multipli, di profonde divisioni geopolitiche e un numero crescente di persone costrette a fuggire dai propri paesi”, non garantisce il rispetto dei diritti, riducendo gli spazi della democrazia o alzando i muri nei confronti di chi arriva. 

Secondo le ultime stime dell’UNHCR, ci sono 36,4 milioni di rifugiati in tutto il mondo, su una popolazione totale di 114 milioni di sfollati (inclusi gli sfollati interni). Negli ultimi sette anni, il numero dei rifugiati è raddoppiato in seguito alle violenze e alle violazioni dei diritti umani in sempre più paesi. “Allo stesso tempo – scrive Grandi – molti Stati stanno tagliando gli aiuti umanitari e i fondi per la cooperazione e, invece, di discutere degli sforzi necessari per affrontare le cause profonde della migrazione, sentiamo discorsi duri, soprattutto da parte di stati ricchi e dotati di risorse, sull’allontanamento degli stranieri, sul rendere più difficile ottenere il diritto di asilo e scaricare la responsabilità sugli altri paesi”.

Il mondo tace – prosegue l’Alto Commissario ONU per i Rifugiati – sul conflitto in Sudan, come ha già fatto in Etiopia, Siria, Afghanistan, Repubblica Democratica del Congo e molte altre aree del mondo. Così come sta scomparendo dalle notizie la guerra in Ucraina, “che ha costretto milioni di persone ad abbandonare le proprie case, sta scomparendo nelle notizie”. E nel conflitto tra Israele-Hamas stiamo vedendo l’applicazione di una “strategia” consolidata in altri conflitti: picchi di violenza seguiti da pause temporanee. “Quanto è stato grave questo errore e quanto vorrei che non si ripetesse altrove”, spiega Grandi che aggiunge: “Il riaccendersi del conflitto israelo-palestinese ci ha dato una prova terrificante di ciò che accade quando vengono trascurati gli elementi essenziali per una pace giusta e duratura”.

E poi ci sono i migranti climatici – una categoria che fatica ancora a trovare riconoscimento giuridico – in fuga da siccità, carestie, inondazioni, incendi  e altri eventi meteorologici estremi “che affliggono le regioni che ospitano migliaia, forse milioni di rifugiati insieme alle popolazioni locali”. 

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Per affrontare queste miriadi di sfide è necessario un cambiamento di mentalità, in cui non sono i confini, il territorio e i beni di un singolo Stato l'unica cosa che conta, ma “i vantaggi reciproci e il bene pubblico dell'azione collettiva e della condivisione delle responsabilità. Cooperazione non significa capitolazione e compassione non significa debolezza”. 

Questo sostegno può assumere diverse forme: assistenza finanziaria, materiale o tecnica; posti per il reinsediamento e altri percorsi di ammissione in paesi terzi, che consentano agli Stati con maggiori risorse di condividere la responsabilità per i rifugiati; misure per prevenire i conflitti e costruire la pace; politiche e pratiche per promuovere l'inclusione e la protezione dei rifugiati, o un migliore monitoraggio e ricerca.

“Se lavoreremo insieme per affrontare e gestire le loro situazioni, i rifugiati non si trasformeranno in una crisi. Ognuno può fare la sua parte e invito tutti a farlo”, conclude Grandi.

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