Perché l’Italia ha così pochi laureati?
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L’Italia produce pochi laureati. Si tratta di un problema strutturale che persiste da decenni. I dati OECD dicono che il nostro paese presenta una bassa incidenza di persone con educazione terziaria, sia essa università, accademia o percorsi di formazione professionalizzanti: soltanto il 29,2% dei giovani tra i 25 e i 34 anni ha completato il percorso di formazione.
Questa percentuale è in crescita rispetto al 2000, quando si fermava al 10,43%. Siamo però ben al di sotto della media OECD, lontanissimi rispetto ai nostri partner europei di riferimento: la Germania registra un 37,8 per cento, mentre la Francia ci stacca con il 50.39 per cento. Anche la Spagna, a testimonianza che non si tratta del solito trend di arretratezza dell’area mediterranea, tocca quota 50 per cento.
Un segnale preoccupante, anche se di più difficile interpretazione in virtù della differente natura dei sistemi di formazione nei paesi OECD, è costituito dall’Enrolment rate in secondary and tertiary education (la frazione di giovani che partecipano alla formazione secondaria o terziaria per età). Si assiste infatti a un netto calo tra i 18 e i 19 anni, che sono proprio l’anno di soglia tra scuole superiori e università.
Il problema, tuttavia, è strutturale. Dopo il Portogallo, nella fascia di età 25-64 l’Italia è il paese con il livello più elevato di incidenza sulla popolazione di persone dotate soltanto di diploma di scuola secondaria inferiore. Rispetto ai paesi OECD siamo invece all’ultimo posto per popolazione adulta che ha completato la formazione terziaria.
Questo fenomeno è di particolare interesse al giorno d’oggi , dove il mercato del lavoro richiede lavoratori e lavoratrici sempre più qualificati. Perché, nonostante ciò, il nostro paese ha così pochi laureati?
Di cosa parliamo in questo articolo:
I costi dell’università: lo studio della CGIL
Un recente studio della FLC-CGIL fornisce una panoramica su quali sono i costi che uno studente o una studentessa (o le loro famiglie) devono sobbarcarsi per il conseguimento di un titolo universitario.
Per prima cosa, lo studio riporta l’estrema volatilità del passaggio da scuole superiori e università. Dal 2012 al 2016 infatti si è assistito a un calo degli iscritti, mentre gli immatricolati hanno subito una flessione ben più lunga, partita già all’inizio degli anni Zero. Solo dal 2016 il nostro paese ha visto tornare a crescere iscritti e immatricolati, ma da allora la tendenza è rimasta stazionaria. Il tasso di passaggio all’università una volta diplomati è quindi fermo da quasi dieci anni, segno che per molti giovani l’università non è un’opzione.
D’altronde il costo diretto dell’Università incide non poco, rispetto ad altri paesi europei. Fino alla fine degli anni ‘80, le contribuzioni universitarie servivano solamente come sostegno finanziario per alcuni servizi offerti agli studenti, come succede tutt’oggi in altri paesi. Questo cambia nel 1989 con la Legge Ruberti che, portando al pieno sviluppo la gestione delle finanze da parte degli atenei, permette la determinazione dell’importo che ogni ateneo richiede. Dagli anni ‘90 quindi le tasse universitarie hanno visto una crescita sostenuta. Dal 2008 al 2016, in base alle stime, si è assistito a un aumento tra il 39% e il 42%.
Dal 2017 però vi è stato un aumento della no tax area per gli studenti universitari, su cui sono intervenuti poi vari governi fino a quello di Mario Draghi. Se quindi si è assistito a un aumento degli studenti in no tax area dal 10% del 2014/2015 al 34,4% del 2020/2021, allo stesso tempo la platea ridotta di studenti ha visto un aumento delle tasse universitarie, passato da 1134 euro a testa nell’anno 2015 a 1421 euro nel 2021.
Sotto questo aspetto è importante notare come, in altri paesi europei, il costo diretto dell’università è nettamente inferiore, in alcuni casi addirittura gratuito.
Particolare attenzione anche al tema casa, che ha portato anche a manifestazioni di piazza di malcontento. Secondo le statistiche fornite da uno studio di Cassa Depositi e Prestiti (CDP), il numero di fuorisede è cresciuto in modo sostenuto nel corso degli ultimi anni: da 784 mila a 830 mila tra il 2015 e il 2019. Questo fa capire quanto sia importante tener conto, all’interno del mercato immobiliare, della presenza di fuorisede, soprattutto al Nord dove negli anni si è assistito a un vero e proprio esodo dal sud per questioni universitarie e poi di lavoro.
Proprio per questo motivo, si è sviluppato il mercato degli studentati privati. Il nostro paese, rivela CDP, è indietro rispetto a questo fenomeno: in Francia oltre il 20% è privato, mentre in Germania il tasso è del 15%. Da noi questo settore, come ad esempio rileva UDU Lombardia, è dominato da dei giganti del settore che sono di fatto in una situazione di oligopolio. Ciò si riflette sui costi che si aggirano tra i 600 e gli 800 euro al mese per una doppia a Milano e tra i 450 e i 550 per la stessa a Roma.
Su questo fronte, è necessario specificarlo, interviene anche il PNRR. Il piano infatti prevede di aumentare i posti per studenti fuori sede negli studentati privati, passando da 40 mila a 100 mila entro il 2026. Secondo Scenari Immobiliari però si tratta di intenzioni poco ambiziose: di posti ne servirebbero almeno 130 mila.
Di particolare importanza è poi il Fondo di Finanziamento Ordinario (FFO), cioè i fondi che il Ministero elargisce alle università per il loro funzionamento ordinario. Se dal punto di vista nominale, cioè soltanto il suo valore assoluto senza tener conto dell'inflazione, il fondo è cresciuto dal 2000 in poi, tenendo conto dell’inflazione si assiste a una contrazione che va dal 2009 al 2013 salvo poi risalire fino al 2022, dove si assiste invece a un assestamento. Questo ha portato l’Italia a diminuire la spesa per l’istruzione terziaria sulla spesa pubblica, passando dallo 0,75% del 2000 allo 0,61% del 2022.
Non solo: a cambiare è stata anche la composizione del fondo, con un aumento particolare della quota premiale, legata ai risultati della didattica e della ricerca. Se un maggior incentivo a istituzioni di eccellenza può in linea di massima essere vista come un bene (ma è un tema che richiederebbe una discussione a parte) il maggior peso di questi parametri sull’assegnazione dei fondi ha portato a un calo del personale docente e ricercatore. Se si assiste a un aumento nel 2022 nei confronti del 2017, con un incremento stimato al 12,9%, si è ancora al di sotto dei livelli pre crisi del 2008, con un calo di circa il 4%. Spesso, però, questi aumenti di personale avvengono con figure precarie, anche nel caso dell’aumento dei docenti a contratto nella didattica, mentre i servizi del personale tecnico sono stati appaltati.
I benefici dell’università, che però non sono abbastanza
La situazione fotografata restituisce una realtà drammatica per il diritto allo studio nel nostro paese. Ma quanto elencato non basta a spiegare perché il nostro paese soffra strutturalmente di una carenza di laureati e di persone con un’istruzione terziaria.
In generale, siamo disposti a sacrificare tempo e fatica o pagare ingenti costi in cambio però di una ricompensa cospicua. Il motivo quindi per cui in Italia ci sono pochi laureati non è da individuare nei costi in sé che si incontrano durante la vita universitaria, quanto nella scarsa remunerazione delle competenze: ovvero, in salari troppo bassi.
A testimoniarlo, servendosi dei dati dello studio Education at a Glance dell’OECD, è una relazione della Corte dei Conti sulla situazione dell’università italiana:
I 25-64enni laureati con un reddito da lavoro a tempo pieno, per un anno completo, guadagnavano il 37 per cento in più, rispetto ai lavoratori a tempo pieno, per un anno completo, con un’istruzione secondaria superiore, rispetto a una media del 54 per cento nei Paesi dell’OCSE.
Ancora nel 2022 gli stessi dati dell’OECD rilevano come il rendimento dell’istruzione universitaria restano bassi se confrontati con altri paesi europei. Per capire quindi perché in Italia i laureati siano così pochi è necessario chiedersi perché la differenza di salario tra un laureato e un diplomato sia così bassa.
Un primo aspetto da considerare è la composizione: nel nostro paese c’è un’elevata incidenza di studenti nelle facoltà umanistiche rispetto all’estero. Poiché le retribuzioni legate a questo tipo di facoltà sono inferiori rispetto ad altre, questo impatta sul totale riducendo quindi il differenziale di salario.
Ma l’aspetto più importante non può che essere il sistema economico del paese. Storicamente, l’Italia ha sempre presentato un certo dualismo, tra grandi colossi di stato capaci di Stato e piccole/medie imprese, soprattutto nel settore dei servizi come turismo o ristorazione. Quando negli anni ‘90 si è deciso di cambiare il sistema economico del paese, abbandonando quel capitalismo di Stato troppo permeabile alle infiltrazioni politiche, non si è però fatto nulla per lo sviluppo di un capitalismo privato. Si è quindi rimasti con poche grandi aziende competitive con l’estero- spesso eredi dei colossi pubblici- in grado di fare innovazione. Ma il tessuto è formato perlopiù da piccole medie imprese- spesso invece poco innovative che si tengono in piedi, sopratutto in certi settori, su irregolarità e scarsa tutela dei lavoratori: la dimensione d’impresa è infatti correlata con la produttività. Le manovre poi volte alla precarietà dei vari governi che si sono succeduti non hanno di certo aiutato.
Il fatto che vi siano poche grandi imprese pronte ad assorbire i laureati e in grado di retribuirli adeguatamente fa sì che i giovani non vedano il fine di un’istruzione universitaria. Così si preferisce un posto di lavoro meno specializzato e con meno prospettive di carriera.
Questo ha poi delle conseguenze che vanno oltre il singolo individuo. In primo luogo per il sistema paese in sé: siamo infatti consapevoli del fatto che la formazione gioca un ruolo cruciale nel processo di crescita. In secondo luogo anche sulle differenze interne al paese. Se le grandi aziende sono concentrate in una singola zona- quella del nord est- questo porterà a un impoverimento delle zone del meridione e del centro italia prive di università e di opportunità di lavoro.
Senza laureati non c’è crescita
Il numero esiguo di laureati, se confrontato con gli altri paesi europei e non solo, non dipende dai giovani svogliati che di solito imperversano nelle dichiarazioni dei politici o nei media. Dietro questo problema strutturale si celano in realtà gli ingenti costi economici, diretti e non, che l’università comporta. Costi che però non trovano poi una ricompensa sul mercato del lavoro. Tanto che, nei primi anni dopo la laurea, il differenziale di salario tra diplomati e laureati si assottiglia. Tra i vari motivi dietro a questo fenomeno, di particolare rilievo è il sistema economico. Se le aziende non hanno alcun incentivo a innovare, non lo faranno. Questo significa che non cercheranno nel mercato del lavoro figure specializzate in grado di migliorare il processo produttivo e quindi aumentare la produttività.
Se la scarsità di competenze era già un problema prima, tanto che la produttività in Italia è ferma da anni e i giovani scappano all’estero perché meglio retribuiti o con più prospettive di carriera, con il passare del tempo lo diventerà ancora di più. Il mondo del lavoro va infatti verso una maggior specializzazione, mentre le mansioni ripetitive sono già in via di sostituzione da parte di macchine e algoritmi. Le dinamiche insite nel mondo del lavoro quindi indicano una maggior richiesta di laureati con competenze tecniche, spesso di tipo STEM. Ma oggi, come abbiamo visto, questo tipo di competenze manca nel nostro paese e i deboli tentativi di incentivarle non hanno sortito gli effetti sperati.
Per questo servirebbe una serie e approfondita analisi, con dati estremamente granulari, per comprendere come indirizzare i giovani verso la carriera universitaria. Non sembra però che all’orizzonte vi sia spazio per una discussione di questo tipo nel paese.
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