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Ebrei e arabi uniscono le forze per aiutare le vittime della guerra e prevenire le rivolte

16 Ottobre 2023 5 min lettura

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Ebrei e arabi uniscono le forze per aiutare le vittime della guerra e prevenire le rivolte

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Con la nuova ondata di violenze innescatasi il 7 ottobre quando Hamas ha sfondato la barriera di sicurezza di Gaza, uccidendo 1.400 persone e Israele ha dichiarato una guerra contro Hamas che ha causato 2.200 morti, la diffidenza tra vicini ebrei e arabi nelle città in Israele si è amplificata. Il timore diffuso è che la nuova ondata di violenze possa distruggere il lavoro di ricucitura di tensioni, ferocia e vendetta avviato sul territorio in questi anni, soprattutto dopo gli undici giorni di guerra che nel maggio 2021 portarono all’uccisione di 232 palestinesi e 12 israeliani e a una tregua che era parsa agli analisti un tappo a una questione più viva che mai.

Questa volta ci troviamo di fronte a qualcosa di inedito che porta in terreni inesplorati e che potrebbe essere l’inizio di qualcosa di preoccupante che coinvolge sia la dimensione israeliana e palestinese sia gli equilibri regionali.

Un articolo del Guardian racconta come dopo gli eventi del 7 ottobre migliaia di volontari arabi ed ebrei abbiano iniziato ad adoperarsi per aiutare le vittime delle violenze, per ripulire i rifugi antiatomici abbandonati e tentare di frenare l'acuirsi delle tensioni nel paese.

“Quello che sta accadendo ora è fondamentalmente diverso da tutto ciò che abbiamo affrontato finora, e credo che [gli eventi della settimana] ci faranno probabilmente tornare indietro di molti anni”, ha dichiarato Sally Abed, leader di Standing Together, il più grande movimento di base arabo-ebraico in Israele, ad Haifa.

“La mia amica ha perso suo fratello. Anche noi siamo in lutto. È molto difficile essere un cittadino palestinese in Israele in questo momento, non c'è spazio per le nostre voci, ma stiamo facendo tutto il possibile per preservare un senso di solidarietà israelo-palestinese e identificare i fattori scatenanti dell'incitamento e della violenza prima che diventino una spirale”, aggiunge.

Nell’attacco del 7 ottobre i militanti di Hamas non hanno mostrato alcuna pietà nei confronti dei connazionali musulmani e arabi (circa il 20% dei 10 milioni di abitanti di Israele si identifica come arabo, comprese le comunità musulmane, cristiane e beduine che subiscono discriminazioni sistemiche, riporta il Guardian). Quattro persone sono state uccise da un razzo sparato dalla Striscia che ha colpito un villaggio nel deserto del Negev, non riconosciuto dal governo israeliano e quindi privo di un sistema antiaereo o di rifugi antiaerei. Anche i cittadini palestinesi di Israele che hanno risposto all'offensiva di terra, compresi i paramedici, sono stati uccisi nell'assalto.

Gli abitanti del Negev sono stati tra i primi a organizzare squadre di volontari, composte da 600 persone, per cercare gli israeliani dispersi. “Abbiamo visto che c'era un enorme caos e abbiamo capito che dovevamo fare qualcosa”, ha detto ad Haaretz Sleman Shlebe, del villaggio di Bir Hadaj. “Abbiamo sentito parlare di persone scomparse sia dalla comunità araba che da quella ebraica e sapevamo che grazie alla nostra conoscenza del territorio avremmo potuto aiutare... Ci siamo divisi nelle auto in modo che ci fossero persone responsabili di diverse cose: raccogliere informazioni, soccorrere e prestare il primo soccorso”.

Il fatto che un apparato di soccorso così vitale fosse stato creato letteralmente da un giorno all'altro ha attirato l'attenzione delle forze di sicurezza presenti nella zona. A un certo punto hanno inviato agenti per fornire una scorta armata alle squadre beduine. “Hanno capito che le nostre conoscenze erano importanti e le abbiamo usate per salvare arabi ed ebrei dal pericolo”, ha detto Shlebe, aggiungendo che insieme alle altre forze, i volontari beduini hanno cercato, difeso e dato una mano a salvare centinaia di persone in decine di luoghi nei giorni successivi. “Siamo rimasti fuori dalle basi dell'esercito per evacuare le persone in ospedale. Insieme a squadre armate, siamo entrati nelle comunità ebraiche dove c'erano terroristi. Abbiamo raccolto i sopravvissuti al rave che erano rimasti nascosti fuori per ore. Abbiamo cercato di aiutare tutti quelli che potevamo, ma purtroppo per un gran numero di persone era troppo tardi”.

A Tel Aviv, i richiedenti asilo eritrei hanno cucinato i pasti per le migliaia di sfollati. A Jaffa, una città mista a sud di Tel Aviv, su gruppi WhatsApp alcuni attivisti si sono mobilitati immediatamente per organizzare una guardia civile congiunta arabo-ebraica, non armata, in grado di proteggere la popolazione locale di ogni provenienza e allertare la polizia in caso di violenza. “Questa guardia civile è l'antidoto per tutto l'odio che vediamo intorno a noi. È importante”, ha detto un attivista su WhatsApp. Attualmente sono più di 1.000 gli attivisti che hanno deciso di impegnarsi in prima persona. 

“Nei sette anni in cui sono stato attivo in questa veste, abbiamo vissuto molte crisi e durante ogni conflitto noi arabi ed ebrei abbiamo unito le forze per dare una mano - e abbiamo prevalso”, dice ad Haaretz Ramzi Abi Taleb, presidente del consiglio di quartiere di Ajami e Jabaliya a Jaffa.

I membri del nuovo gruppo di pattuglia, che non è armato, hanno il compito di cercare di mantenere la calma nelle strade mentre la guerra si evolve. Le nuove guardie intendono intervenire in caso di situazioni potenzialmente esplosive, come ad esempio durante le preghiere in una moschea, una chiesa o una sinagoga.

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“Non possiamo prevenire la violenza da soli, ma solo insieme”, afferma sempre ad Haaretz Boaz Peled, fondatore dell'iniziativa Neighbors at Peace. Il loro gruppo WhatsApp, che conta 300 membri attivi, costituisce anche un'ottima piattaforma per aiutare e proteggere i residenti in tempi difficili e potenzialmente violenti come questi. “Nel 2021, abbiamo visto che nei luoghi in cui ebrei e arabi hanno cercato di fermare la violenza insieme, i danni sono stati meno gravi”, aggiunge Peled.

“Speriamo davvero che non ci sia un'escalation qui... Stiamo applicando tutto ciò che abbiamo imparato nel 2021. Ripulire centinaia di rifugi antiatomici è stato un bene per tutti finora, assicurandoci che la gente sappia dove si trovano e che siano adatti allo scopo. Questa è la vera comunità”, racconta al Guardian Alon-Lee Green, un altro fondatore di Standing Together, attivo nel gruppo sin dal 2017. “Spero che la solidarietà che abbiamo costruito tra le diverse comunità possa resistere in un momento così polarizzante”.

Immagine in anteprima: frame video ABC News via YouTube

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