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Il futuro della Turchia dopo la vittoria di Erdoğan e le preoccupazioni per i diritti umani e la democrazia

29 Maggio 2023 7 min lettura

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Il futuro della Turchia dopo la vittoria di Erdoğan e le preoccupazioni per i diritti umani e la democrazia

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Le elezioni in Turchia si sono concluse ancora una volta con la vittoria di Recep Tayyip Erogan, in carica ormai dal 2003 e già al suo terzo mandato come presidente della Repubblica turca, che compie quest’anno i suoi primi cento anni.

Erdogan ha festeggiato la sua vittoria prima a Istanbul, arringando la folla riunitasi nel quartiere conservatore di Uskudar dall’alto del suo pulmino, e poi dal palazzo presidenziale di Ankara. Una scelta quest’ultima certamente innovativa rispetto al passato. Erdogan infatti ha sempre celebrato la vittoria parlando dal balcone della sede del suo partito Giustizia e Sviluppo (Akp), mentre questa volta ha deciso di rivolgersi ai suoi sostenitori e alla generalità del paese dal palazzo simbolo delle istituzioni turche. Nei suoi due discorsi, Erdogan ha promesso di proteggere la sacralità della famiglia tradizionale, si è espresso ancora una volta contro la comunità LGBT e ha accusato la minoranza curda di terrorismo, promettendo di lasciare in carcere Selahattin Demirtaş, ex presidente del partito filo-curdo Hdp in galera dal 2016.

Erdogan inizialmente ha anche fatto appello all’unità della nazione, affermando che la Turchia nella sua interezza è uscita vincitrice da queste elezioni, ma quello che il presidente si appresta a governare per altri cinque anni è un paese profondamente diviso. Metà della popolazione si è chiaramente espressa contro di lui e ha sperato fino all’ultimo in un cambiamento politico che, rispetto al passato, non sembrava più così impossibile. L’opposizione infatti ha raggiunto un risultato storico, riuscendo per la prima volta a prevenire la vittoria di Erdogan al primo turno nonostante una campagna di boicottaggio mediatico e giudiziario. Kemal Kilicdaroglu, leader dell’opposizione, e i suoi alleati hanno avuto una copertura nettamente inferiore rispetto a Erdogan, mentre la formazione filo-curda della Sinistra verde ha subito quasi 300 arresti tra il primo e il secondo turno. Tutti elementi che hanno reso le elezioni non totalmente libere ed eque, secondo gli standard internazionali, e che fanno sorgere dei dubbi anche su quanto sia ancora possibile definire la Turchia una democrazia. Certamente Erdogan ha vinto in una competizione elettorale e l’affluenza continua ad essere più alta che in Europa, ma la repressione del dissenso, gli arresti arbitrari, il controllo dei media, della magistratura e delle forze dell’ordine hanno inciso profondamente sul contesto elettorale e sulle capacità di scelta dell’elettorato. Dall’altra parte però anche l’opposizione ha commesso i suoi errori, soprattutto nella seconda parte della campagna elettorale. La retorica nazionalista e xenofoba e l’alleanza con il partito di estrema destra Zafer non hanno ripagato e hanno anzi minato la base elettorale di Kilicdaroglu nelle province a maggioranza curda del sud-est. 

La sconfitta alle presidenziali rischia adesso di frammentare il blocco dell’opposizione, a tutto vantaggio di un presidente che già guarda alle amministrative del 2024. Erdogan infatti ha già lanciato la campagna elettorale per le elezioni del prossimo anno e punta a riprendere il controllo delle principali città turche attualmente in mano all’opposizione, uscita vincitrice nel 2019 grazie al sostegno dei curdi. La solidità del Tavolo dei sei sarà determinante anche per l’approvazione di una nuova riforma costituzionale utile a eliminare il limite di due mandati per la presidenza, ma alcuni partiti potrebbero decidere di cambiare alleanze e di offrire un sostegno più o meno diretto al presidente su alcune specifiche misure. 

La priorità per Erdogan però resta l’economia. Grazie al controllo che esercita sulla Banca centrale, il presidente ha mantenuto bassi i tassi d’interesse, facendo così salire il valore dell’export e ottenendo una crescita del 7% annua. Il costo da pagare però è stata la svalutazione della lira, la riduzione delle riserve estere della banca centrale e l'aumento dell'inflazione, nonché del costo della vita per i cittadini turchi. Per alleviare il peso della crisi, Erdogan ha alzato i salari minimi e approvato diverse misure di sostegno del welfare, utili anche in passato per garantirsi il sostegno delle fasce meno abbienti della popolazione e in particolare delle donne più conservatrici, uno dei pilastri elettorali del presidente. Nell’alleviare il peso della crisi, Erdogan ha potuto anche contare sui finanziamenti dei paesi del Golfo, in particolare del Qatar, e su una dilazione nei pagamenti del gas russo, ma per evitare il collasso dell’economia sarà necessario alzare i tassi di interesse. Quello economico dunque sarà il primo banco di prova per il presidente ed è su questo terreno che si giocherà la stabilità del suo prossimo mandato.

Intanto quella parte di paese che non ha votato per Erdogan già si interroga sulle prossime restrizioni che il governo imporrà sulle libertà e sui diritti dei cittadini. A preoccupare è soprattutto la presenza in Parlamento degli ultra-conservatori del Refah partisi e di Huda Par, partito islamista legato a Hezbollah curdo. Per entrambi è prioritario cancellare la legge 6284 che tutela le donne dalla violenza domestica e che protegge i minori dai matrimoni forzati, ultima garanzia rimasta nel paese dopo l’uscita della Turchia dalla Convenzione di Istanbul. Altro gruppo sociale che finirà presto nel mirino del governo sarà quello dei curdi, ripetutamente accusati di terrorismo dal presidente e dai suoi alleati e diventati negli anni una minaccia al mantenimento dello status quo visto il loro crescente peso elettorale. Ma il risultato raggiunto in generale dall’opposizione non fa ben sperare. Ciò che ci si attende è un’ulteriore riduzione delle libertà sociali e politiche per evitare che l’opposizione possa continuare a crescere e a mettere nuovamente in pericolo il potere di Erdogan e dei suoi alleati, soprattutto in vista delle elezioni locali del 2024. 

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Un rafforzamento interno corrisponderà anche a un maggior attivismo sul fronte estero, sulla scia di quanto già fatto negli ultimi anni. Erdogan mira da tempo a trasformare la Turchia in una potenza regionale e in un hub del gas, due obiettivi che il presidente sta cercando di raggiungere anche grazie alla guerra in Ucraina. Erdogan ha saputo sfruttare l’appartenenza della Turchia alla NATO e le sue relazioni con il presidente russo Vladimir Putin per porsi come mediatore tra le parti, diventando così un interlocutore indispensabile per l’Occidente, che ha invece chiuso tutti i canali di comunicazione con la Russia. Il controllo sugli stretti del Bosforo e dei Dardanelli ha poi permesso a Erdogan di giocare un ruolo decisivo per il raggiungimento di un accordo tra Mosca e Kyiv sull’export di grano, indispensabile per prevenire gravi condizioni di insicurezza alimentare in molti paesi dell’Africa e del Medio Oriente. La posizione di forza assunta dalla Turchia ha permesso a Erdogan di bloccare per diversi mesi l’entrata nella NATO della Finlandia e di continuare a porre il veto sull’adesione della Svezia. In cambio, il presidente turco ha preteso dai due paesi scandinavi leggi più restrittive verso la minoranza curda, percepita dalla Turchia come una minaccia alla sua sicurezza nazionale, ma il vero obiettivo di Erdogan è un altro. Il presidente turco vuole che gli Stati Uniti sblocchino la vendita dei caccia F-16, fin ad oggi bloccata per la presenza in Turchia del sistema missilistico russo S-400 ma anche per le minacce rivolte da Erdogan alla Grecia, altro paese NATO e alleato degli Usa. L’impasse dovrebbe sbloccarsi nei prossimi mesi, ma il rischio è che si riaccenda anche la contesa tra Atene e Ankara nel Mediterraneo. I dossier ancora aperti riguardano la sovranità di alcune isole greche, la divisione di Cipro e lo sfruttamento delle risorse energetiche del Mediterraneo tramite il progetto EastMed, da cui la Turchia è stata fino ad oggi esclusa. Tutte questioni destinate a regolare non solo i rapporti tra Ankara a Atene, ma anche con l’Unione Europea e con gli USA.

Altro tema che tornerà presto alla ribalta sarà quello dei migranti siriani. In Turchia sono presenti 4,5 milioni di siriani ed Erdogan ha intenzione di rinegoziare con l’UE questo particolare dossier dopo aver ricevuto circa 6 milioni di euro da Bruxelles per fermare le rotte dirette verso il Vecchio continente. La questione migratoria regolerà anche i rapporti tra Turchia e Siria. Erdogan vuole rimpatriare almeno un milione di rifugiati, ma per farlo deve prima arrivare ad un accordo con il governo di Damasco, che chiede in cambio il ritiro delle truppe turche presenti nel nord della Siria. Fondamentale in questo quadro sarà anche il ruolo di mediazione della Russia, per cui Erdogan ha tutto l’interesse nel mantenere buoni rapporti con Mosca.

Ma Ucraina e Siria non solo gli unici quadranti su cui si concentrerà l’attenzione del presidente turco. Erdogan punta a una maggiore presenza in Africa, anche grazie all’export di droni e di altro materiale bellico, e in Asia centrale, entrambe aree in cui deve però riuscire a portare avanti i propri interessi senza scontrarsi con la Russia, ugualmente presente. Il nuovo secolo turco dunque sarà caratterizzato da una virata ancora più nazionalista, conservatrice e repressiva in politica interna e da un maggiore attivismo in politica estera, ma molto dipenderà dallo stato dell’economia. Per ora Erdogan è riuscito a mantenersi saldo al potere nonostante una crisi già in corso da anni e le migliaia di morti del terremoto del 6 febbraio, ma senza una reale ripresa dell’economia il rischio di instabilità è alto. La metà della popolazione si è già espressa apertamente contro di lui. Perdere anche solo una parte dell’altra metà è un rischio che il presidente non può correre se vuole continuare a costruire la sua nuova Turchia.

Immagine in anteprima: frame video Al Jazeera via YouTube

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