L’autonomia differenziata? È inutile per affrontare le trasformazioni climatiche, geopolitiche, demografiche e tecnologiche del XXI secolo
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Aggiornamento 24 gennaio 2024: Con 110 voti a favore, 64 contrari e 3 astenuti il Senato ha approvato il ddl per l'attuazione dell'autonomia differenziata. Il testo passa alla Camera per la seconda lettura.
Dai rapporti internazionali alla protezione civile, dall’energia alla tutela della salute, dalla ricerca scientifica all’ambiente, sono 20 le materie attualmente di legislazione concorrente (cioè, di comune competenza di Stato centrale e Regioni) che in base al progetto di legge sull’autonomia differenziata potranno passare integralmente a carico gli enti regionali. Inoltre, altre tre materie oggi di competenza dello Stato – l’organizzazione della giustizia di pace, le norme generali sull'istruzione, la tutela dell’ambiente, dell'ecosistema e dei beni culturali - potrebbero essere decentrate se la riforma arriverà alla meta.
Il processo non è automatico: le Regioni potranno chiedere e concordare con il governo la “devoluzione” di competenze e risorse. L’autonomia differenziata prevede la possibilità di trattenere parte del gettito fiscale generato sul territorio per il finanziamento dei servizi e delle funzioni di cui si chiede il trasferimento. Una sorta di regionalismo spinto e asimmetrico, a geometria variabile. E che divide il mondo politico e amministrativo a diversi livelli: c’è il Sud che teme un allargamento del divario con il Nord, molti sindaci intimoriti da un nuovo centralismo su scala ridotta.
Infine, grande discussione c'è stata sui Livelli essenziali delle prestazioni previsti dalla Costituzione (Lep) e riguardanti tutte le Regioni del paese. Dovrà quindi essere stabilito il livello minimo di servizi da rendere al cittadino in maniera uniforme in tutto il territorio, dalla Val d'Aosta alla Sicilia. Inoltre, per evitare squilibri economici fra le Regioni che aderiscono all'autonomia e quelle che non lo fanno, il disegno prevede misure perequative, cioè risorse aggiuntive anche per chi non chiede maggiore autonomia. La garanzia assicurata da Lep uguali per tutti sulla carta dovrebbe garantire l’uniformità dei servizi offerti ai cittadini da Nord a Sud. Ma nella pratica molto dipenderà dai finanziamenti che lo Stato centrale potrà mettere a disposizione per far convergere le prestazioni, oggi molto differenziate, verso lo stesso livello.
Le opposizioni hanno annunciato il ricorso al referendum abrogativo.
Il dibattito sull’autonomia differenziata è la dimostrazione che i politici italiani non hanno capito in quale secolo, e in quale mondo, viviamo. E questo vale in particolare per quelli che dichiarano di rappresentare gli interessi “di chi produce”. Preoccupati solo di conquistare una manciata di voti in più (e di consolidare feudi politici di lunga data), affamati di presentismo e di dirette Facebook, spesso del tutto ignari di ciò che accade nel Mar Cinese Orientale, a New Delhi, nell’Artico o a Lagos, i nostri politici non si accorgono che i prossimi decenni saranno tra i più duri, e decisivi, della storia umana.
La crisi climatica e ambientale. L’ascesa e il rafforzamento di nuove potenze geopolitiche. Il declino demografico. La rivoluzione dell’Intelligenza Artificiale. Si tratta di trasformazioni epocali che investiranno l’Italia con asprezza, e che il regionalismo aiuterà ad affrontare più o meno quanto una pistola ad acqua può tenere a bada una tigre affamata.
Mentre nei palazzi del potere a Roma, e negli studi TV di Milano, parlamentari e giornalisti, vecchi arnesi della politica e insigni costituzionalisti (quasi sempre maschi ultracinquantenni) discutono di Livelli Essenziali delle Prestazioni (LEP), costi standard e residuo fiscale (tacendo su un tema ancora più cruciale: le materie che certe Regioni chiedono), si avvicina un’ordalia che colpirà il nord come il sud, Brescia come Catania, la Toscana come la Calabria. Non è difficile capire perché.
- Il Mediterraneo si sta riscaldando di più della media globale, con effetti catastrofici su tutti i paesi rivieraschi. Sarà sempre peggio, specie per un paese fragile come il nostro, alle prese con il dissesto idrogeologico, la cementificazione selvaggia ecc. Ciò avrà un impatto significativo sulla nostra sicurezza alimentare, sul nostro patrimonio artistico e architettonico, sulle nostre infrastrutture, sui nostri beni e sulle nostre vite. Faccio un esempio concreto: nel 2018 una tempesta, Vaia, colpì il nordest italiano, devastando le foreste delle Dolomiti (almeno 14 milioni di alberi abbattuti), danneggiando la basilica di San Marco e allagando Venezia, generando blackout, distruggendo case, uccidendo persone. Ecco, nei prossimi decenni eventi meteorologici estremi come Vaia saranno sempre più frequenti. E questi eventi non colpiranno una sola regione, ma più regioni, proprio come Vaia è stata una catastrofe per il Trentino-Alto Adige, il Veneto, il Friuli-Venezia Giulia, la Lombardia.
- Nel Mediterraneo allargato, regione strategica per la sicurezza e gli interessi nazionali, Stati autoritari come la Turchia, l’Egitto e l’Arabia Saudita hanno un crescente peso geopolitico, e già oggi intervengono in Libia, Siria, Yemen, Somalia ecc. Non si fanno alcuno scrupolo a umiliare le democrazie europee (si pensi all’atteggiamento di Ankara nei confronti di Stoccolma, o del Cairo in merito al caso Regeni), e sono impegnate in un massiccio riarmo. E domani, come si comporteranno? La storia ci insegna che le nuove potenze sono quasi sempre molto assertive: lo fu anche l’Italia della prima metà del ‘900, una nazione bellicosa pronta ad aggredire l’Impero ottomano, l’Etiopia, la Spagna, l’Albania, la Francia, la Grecia ecc. È molto probabile che la Turchia del 2035 (92 milioni di abitanti) o l’Egitto del 2040 (almeno 130 milioni di abitanti) daranno prova di una forte aggressività. L’Italia, per motivi in primis geografici, dovrà affrontare (subire?) le conseguenze della loro ascesa. Solo un eurocentrismo antiquato e supponente (o profondamente ingenuo) può illudersi che le nuove potenze da me citate si comporteranno diversamente da come ci siamo comportati noi europei (liberali o meno) nel ‘900.
- Al principio del Novecento l’Italia era uno dei paesi più popolosi e giovani al mondo. Come ho cercato di ricordare l’anno scorso su Gli Stati Generali, aveva 34 milioni di abitanti, contro gli 11 dell’Egitto e i 9 dell’Etiopia. Oggi è uno dei paesi più vecchi. Ventenni e trentenni emigrano, i bambini non nascono e le donne subiscono ostacoli e discriminazioni che le dissuadono dal fare figli. Può un’economia reggere nel medio-lungo periodo con una piramide demografica sempre più sottile alla base? Può esistere un welfare degno di questo nome se a lavorare sono sempre meno cittadini, magari precari con bassi stipendi?
- La rivoluzione dell’IA cambierà in profondità settori cruciali per l’economia italiana come il manifatturiero e l’agricoltura. Pensiamo alla Visione Artificiale, utilizzabile per misurare lo stato di salute di una vigna, come per controllare che non si verifichino intoppi sulla linea di produzione; pensiamo alla Manutenzione Predittiva, essenziale nelle fabbriche di domani. In Italia abbiamo PMI e startup molto promettenti, però nel complesso il paese non è tra quelli alla guida della rivoluzione dell’IA, e rischia di perdere questo treno come ha già perso quello delle ICT negli anni ‘90, con effetti drammatici in termini di produttività, efficienza, competitività, benessere.
Le quattro trasformazioni citate non soltanto incideranno profondamente sul nostro stile di vita (e questo non è in sé un male), ma metteranno in discussione le fondamenta stesse della società italiana. Può sembrare fantascienza, eppure non lo è. La crisi climatica è una realtà, così come il declino demografico ed economico italiano (ed europeo), rispetto all’impetuosa crescita di paesi che, sino a pochi decenni fa, venivano etichettati come Terzo Mondo. Ai politici italiani (e a molti soloni giornalistici e accademici) basterebbe sfogliare qualche report del FMI o delle Nazioni Unite (o anche solo “Il mondo in cifre 2022” dell’Economist) per essere allarmati e riuscire a capire che l’autonomia differenziata non è una priorità per l’Italia, anzi.
La crisi climatica e ambientale, l’ascesa di nuove potenze mediterranee o quasi-mediterranee, il declino demografico e la rivoluzione dell’IA sono trasformazioni enormi, che potranno essere affrontate con successo dall’Italia solo attraverso un grandissimo sforzo collettivo, e all’insegna della coesione sociale e del miglior uso possibile delle (limitate) risorse esistenti. Nel XXI secolo, nel secolo della grande trasformazione climatica, geopolitica, demografica e tecnologica, all’Italia serve, più che mai, uno Stato centrale in buona salute, che sappia, allo stesso tempo, lavorare con Bruxelles e con i partner europei, americani, africani e asiatici, e svolgere a livello nazionale un essenziale ruolo di guida, coordinamento e supervisione da un lato, di esecuzione dall’altro.
Invece la politica italiana, al di là delle petizioni di principio e di qualche gesto simbolico, cosa fa? Ipotizza di conferire alle regioni competenze strategiche come l’istruzione; i porti e gli aeroporti, le grandi reti di trasporto e navigazione; la produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia; la ricerca scientifica e tecnologica e sostegno all’innovazione per i settori produttivi; i rapporti internazionali e con l’Unione Europea della regione; il commercio con l’estero.
Ora, nulla da eccepire se una regione chiede di occuparsi di materie come l’ordinamento sportivo, la previdenza complementare e integrativa, gli enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale. Ma immaginare che una regione da cinque o sei milioni di abitanti possa occuparsi di commercio con l’estero, porti e aeroporti, e grandi reti di trasporto e navigazione è anacronistico (e irrealistico: è come chiedere a un’utilitaria di vincere il Gran Premio). Del resto la pandemia da Covid-19 ha dimostrato che ci sono dei limiti alla capacità gestionale delle regioni: servono lo Stato e la UE (che non pochi regionalisti incalliti, sino a qualche anno fa, demonizzavano).
Per certi aspetti il terzo comma dell’art. 116 della Costituzione (frutto dell’incauta riforma costituzionale del 2001), se attuato in toto per tutte le regioni italiane, prefigurerebbe un’Italia con un potere centrale molto più timido che nella gran parte dei paesi europei. Persino in Svizzera, patria del federalismo sin dall’alleanza dei cantoni di Uri, Schwitz e Unterwalden del 1291, è la Confederazione, cioè Berna, che “costruisce e gestisce le strade nazionali e provvede alla loro manutenzione”; che legifera “sui trasporti ferroviari, sulle filovie, sulla navigazione nonché sull’aviazione e l’astronautica”; che si occupa, in prima battuta, di politica energetica.
Il punto è che la riforma costituzionale del 2001 è figlia di un mondo che oggi non esiste più. Il mondo segnato dall’utopia della “fine della storia” di Francis Fukuyama, e dal sogno (a dir poco irrealistico, come già sapeva chi di noi, allora giovanissimo, si proclamava no-global) di una democrazia globale e cosmopolita dove gli Stati si sarebbero gradualmente dissolti, cedendo il passo al mercato, alla società civile, agli organismi sovranazionali e internazionali. Non a caso è stata varata sotto un governo di centrosinistra sedotto dalle sirene del blairismo e della Terza Via (e non sembra, per inciso, che la devolution voluta da Tony Blair abbia risolto la questione scozzese, o stabilizzato più di tanto il Regno Unito).
Il federalismo, inoltre, funziona in quei paesi dove esistono corpi intermedi forti, e grandi o grandissime aziende che, grazie ai loro formidabili apparati produttivi e alle loro ingentissime risorse finanziarie (e mediatiche), “cuciono” la federazione. È il caso della Germania e della Svizzera: basta dare uno sguardo, per esempio, alla lista delle più grandi aziende del mondo elaborata dal Financial Times (la FT500) per cogliere alcune differenze tra l’Italia (5 aziende, di cui 2 a partecipazione statale) e la Germania (18), o con la Svizzera (10).
Quando si avvia una profonda riforma della Repubblica bisognerebbe avere lo sguardo lungo, ed essere consapevoli che il futuro è una terra straniera, e insidiosa. La prudenza dovrebbe guidare il legislatore, proprio come guidò i padri (e le madri) costituenti dopo la guerra. Chi poteva immaginare, nel 2001, che un giorno Mosca avrebbe interferito con i processi elettorali occidentali, invaso l’Ucraina, sostenuto l’estrema destra occidentale? Chi poteva pensare che la Turchia sarebbe stata decisiva in una Libia e in una Siria devastate dalla guerra civile? Che in Sicilia si sarebbe coltivato l’avocado, che il Mar Glaciale Artico avrebbe assunto una nuova centralità strategica, e che le balene nell’estuario del San Lorenzo (Canada) sarebbero morte di cancro a causa dell’inquinamento? Che milioni di persone avrebbero iniziato a dialogare con l’IA?
Il federalismo che si vuole dare all’Italia è un lascito degli anni ’90, una riforma fuori tempo massimo. Non a caso gli stessi industriali hanno espresso perplessità e cautele. Ma davvero si può pensare che una regione di cinque, sei o dieci milioni di abitanti possa affrontare le sfide della crisi climatica, dell’IA, del crollo della natalità? Neanche la California, che pure ha quasi 40 milioni di abitanti e potrebbe diventare la quarta economia del pianeta (con buona pace di chi ne preannunciava l’inevitabile declino, anche in Italia), può fare tutto da sola, figuriamoci la Lombardia, il Lazio o la Puglia.
In una fase storica delicatissima segnata dalla consapevolezza che la geopolitica conta (tant’è vero che pochi giorni fa, l’ex ministro degli esteri Giulio Terzi di Sant’Agata ha giustamente proposto la creazione di un Consiglio per la sicurezza nazionale), e dall’ascesa di nuove potenze (prima ho citato quelle del Mediterraneo allargato, ma ovviamente ci sono pure i colossi Cina e India, e il Brasile, la Nigeria, l’Indonesia, il Messico, la Corea del sud, il Vietnam), davvero si vuole spingere lo Stato a fare un passo indietro? E ha senso rafforzare il peso internazionale delle regioni, alla luce di ciò che è successo ad esempio in Catalogna? E ancora: un tessuto produttivo nazionale alle prese con venti legislatori regionali diversi diventa più forte? Il moltiplicarsi delle burocrazie in che modo aiuterebbe le aziende a essere più competitive? Il costituzionalista Massimo Villone ha paventato il rischio di “un’Italia di repubblichette”… ha torto?
Nel primo volume dei “Sei libri dello Stato” Jean Bodin indicava, tra le massime prerogative sovrane, quella di dichiarare guerra e concludere la pace. Già nel XVI secolo era chiaro che la sovranità si estrinseca, in primis, nella capacità di agire geopoliticamente. Tuttavia agire geopoliticamente, nel XXI secolo, significa anche promuovere il commercio (e industrie strategiche come la microelettronica), rafforzare il soft power nazionale, sostenere la ricerca apicale, proteggere e irrobustire le infrastrutture fisiche e digitali strategiche (sempre più esposte ad attacchi cibernetici da parte di criminali e potenze straniere).
A fine 2021, parlando con un politico oggi molto in vista, menzionai il rischio di un’Europa accerchiata dalla Russia, e lui accolse le mie parole con un certo scetticismo. Ebbene, la guerra imperialista lanciata da Mosca contro la democrazia ucraina è solo l’inizio. Purtroppo i nostri politici, con poche luminose eccezioni, sono intrappolati in una mentalità tardo-novecentesca. Per quanto io sia convinto che gli Stati Uniti rimarranno probabilmente egemoni sino al 2070 circa, questo secolo non sarà un placido prosieguo dell’ultimo scorcio del XX secolo, quando gli Stati Uniti erano un’iperpotenza indiscussa, e l’Italia (come il resto dell’Europa centro-occidentale, il Giappone, il Canada e pochi altri fortunati paesi) viveva nel bozzolo protettivo di una spietata pax americana.
Nel XXI secolo l’egemonia statunitense sarà sempre più contestata. E l’Italia non se la potrà cavare trincerandosi dietro il suo provincialismo e i suoi barocchismi. È un vecchio vizio dei decisori politici italiani: guardare ai propri interessi di bottega e non a ciò che succede nel mondo. Forse è una struttura della mentalità italiana.
Il XV secolo (e il XVI secolo) possono fornirci una grande lezione, a riguardo. Nel 1454 Costantinopoli era caduta da quasi un anno, l’Impero ottomano era sempre più forte, nella penisola iberica e in Francia si consolidavano nuove e aggressive monarchie, ma a Lodi ci si illudeva di aver garantito alla penisola un radioso futuro di pace e prosperità. Pochi decenni dopo la pace di Lodi gli Stati italiani dovettero fare i conti con l’amarissima realtà: nel 1480 Otranto veniva barbaramente presa dagli ottomani, e nel 1494 Carlo VIII valicava le Alpi, dando inizio alle guerre horrende de Italia che avrebbero portato alla sottomissione quasi totale della penisola allo straniero. Il mondo non si era fermato dopo la pace di Lodi, e non si fermerà nemmeno dopo l’ennesima riforma italiana. L’ordalia, intanto, si avvicina.