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Iran, forza e fragilità del sogno di una rivoluzione

6 Gennaio 2023 12 min lettura

Iran, forza e fragilità del sogno di una rivoluzione

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La morte della giovane curda Mahsa Amini il 16 settembre scorso, dopo il suo arresto da parte della cosiddetta polizia morale (Ghast-e-Ershad) iraniana, ha certamente segnato un punto di non ritorno nella storia dei movimenti di protesta contro i vertici e la legittimità stessa della Repubblica Islamica. Quella che sembrava partita solo come una nuova e potente ondata di proteste contro l’obbligo del velo ha visto subito giovani donne e uomini fianco a fianco, in una lunga serie di manifestazioni diffuse in tutto il paese, ormai entrate nel loro quarto mese quasi senza soluzione di continuità. 

Da tempo risuona in tutto il mondo il loro potentissimo slogan “Donna Vita Libertà”: un grido che evoca la forza e il coraggio di tante donne iraniane, che in questi decenni si sono riconquistate con le unghie e con i denti parte dei diritti persi con la rivoluzione islamica e ora li rivendicano tutti e senza condizioni, ma che è anche mosso dal sogno di un cambiamento politico radicale, dalla convinzione degli attivisti di essere vicini a una vera “rivoluzione”. Si tratta del sogno di una giovane generazione che l’anziana leadership clericale non sa e non vuole comprendere, mentre gli apparati repressivi del sistema hanno ben presto avviato una dura repressione che ha fatto finora contare, secondo stime di organizzazioni basate all’estero, almeno 500 morti tra i manifestanti e 18 mila arresti, fra i quali una sessantina di giornalisti. Decine anche le condanne a morte, mentre già due giovani sono stati impiccati a poche settimane dalla sentenza, in dispregio delle stesse leggi penali iraniane che prevedono passi almeno un anno prima dell’esecuzione. E sono numerosi i casi di torture e abusi anche sessuali ai danni degli arrestati segnalati dagli attivisti,  insieme ad una serie di sconcertanti e inaccettabili violenze. 

Nel frattempo, tramite le informazioni diffuse sui social media da milioni di simpatizzanti ma anche dai potenti mezzi di chi domina lo spazio della rete e del’intelligenza artificiale, l’hashtag #IranRevolution ha ormai soppiantato il più prudente #IranProtests2022, scolpendo indelebilmente anche la nostra percezione del presente, e forse anche la sua rappresentazione nelle pagine di storia del futuro. Ma la giusta distanza che da giornalisti dovremmo sempre cercare di  mantenere, al di là delle sollecitazioni cui veniamo sempre soggetti, ci impone di guardare non solo alla potenza di un sogno di rivoluzione, ma anche agli ostacoli oggettivi che lo fronteggiano e ai rischi che può correre per volontà di altri agenti, presenti e attivi all’interno del paese o nelle dinamiche geopolitiche esterne. 

La Repubblica Islamica non è solo degli Ayatollah, ma anche dei Pasdaran 

L’Iran non è il paese degli Ayatollah. O meglio, è molto più di questo. Continuare a usare questa diffusa ma riduttiva categoria giornalistica significa allontanarsi dalla comprensione della storia iraniana degli ultimi 40 anni e anche dall’attualità della proteste che percorrono l’Iran in questi mesi. Se è vero infatti che i manifestanti urlano nelle strade “Morte al dittatore” riferendosi all’Ayatollah Ali Khamenei -  la Guida (Rahbar) che rappresenta la massima autorità politica e religiosa della Repubblica Islamica fondata nel 1979 da Ruhollah Khomeini  – la rivolta di questi mesi è ormai apertamente diretta contro l’intero apparato politico-istituzionale che ha retto finora il paese. E nel quale a decidere non è soltanto un gruppo selezionato di esperti sciiti di diritti islamico, che per comodità chiamiamo “clero”, ma  anche - e con un ruolo sempre più dominante sul piano militare, politico, economico e dell’ordine pubblico – dal Corpo dei Guardiani della Rivoluzione (Sepah-e Pasdaran-e Enghelab-e Eslami),  i veri benché laici depositari del potere della Repubblica Islamica. Quelli che appunto ne tengono ormai quasi tutte le redini, pur nel rispetto dell’assetto costituzionale che Khomeini fondava nel 1979, istituendo contestualmente anche  quell’organizzazione militare - parallela all’esercito regolare -  incaricata di proteggere la rivoluzione. La quale era nata anche sotto la spinta di gruppi nazionalisti, liberali e comunisti, ma che è infine divenuta solo islamica. Si tratta di una potenza militare dispiegata in tutti i campi della Difesa, dalla Marina all’Aeronautica, dotata di un proprio servizio di intelligence e anche di una forza speciale per le operazioni all’estero (Qods), ma che svolge anche un ruolo cruciale nell’economia del paese, controllandone tutti i settori chiave, dalle costruzioni ai grandi apparati industriali, fino a quelle attività di contrabbando divenute ancor più vitali per aggirare le sanzioni internazionali. Proprio per questo il futuro del Sepah, come lo chiamano gli iraniani, è inestricabilmente legato alla sopravvivenza stessa della Repubblica Islamica, di cui ha preso ormai il pieno controllo anche sul piano politico con il venir meno della già debole componente moderato-riformista. 

La repressione delle proteste e l’inarrestabile erosione del consenso interno

Ma proprio le proteste di questi mesi stanno mettendo a rischio il residuo consenso popolare rimasto alla Repubblica Islamica tra i ceti più religiosi e nelle aree rurali e urbane meno secolarizzate, causa l’incapacità dei suoi vertici di rispondere alle istanze dei manifestanti se non con una dura repressione. Un fenomeno, quest’ultimo,  di cui apprendiamo da documenti e video trasmessi online dagli attivisti e dai manifestanti nonostante le restrizioni governative a internet - e  dunque non sempre verificabili in modo indipendente – , convogliati all’estero da organizzazioni molto attive sui social e poi spesso ripresi anche dai media tradizionali.  

Prescindendo tuttavia da quest’ultima annotazione  - che apre a una riflessione sulle fonti a cui attinge la nostra percezione della #IranRevolution – restano i dolorosi e inaccettabili fatti che le cronache ci consegnano: migliaia di arresti tra i manifestanti e i giornalisti, appunto, e tra figure di rilievo del mondo artistico e cinematografico, che spesso anche in passato si sono fatte portavoce del disagio sociale e della protesta: ultima in ordine di tempo la nota attrice Taraneh Alidoosti, appena liberata su cauzione dopo una ventina di giorni nel carcere di Evin, da dove è uscita significativamente senza velo); violenze e torture e abusi sessuali perpetrati nelle carceri; condanne a morte per reati incomprensibili alla cultura giuridica occidentale come la “corruzione sulla terra”; impiccagioni di manifestanti già eseguite o annunciate o temute.

Se tutto questo può essere ascritto all’incapacità dei gruppi dirigenti di comprendere le ormai insopprimibili istanze di cambiamento della generazione più giovane della società civile, resta il fatto che ogni minorenne o ventenne ucciso è un colpo alla credibilità residua dei vertici della Repubblica Islamica. I quali appunto, arroccati nella conservazione del sistema, non trovano altra strada per restare al potere se non addebitare ai nemici esterni (che pure esistono e sono tanti e potenti, dagli Usa a Israele all’Arabia Saudita) le uniche cause delle proteste, e incarcerare e uccidere i propri stessi nipoti. 

Il coraggio della nuova generazione e i rischi di derive senza controllo 

A continuare infatti a scendere in strada è in particolare quell’ultima generazione che non ha vissuto i sanguinosi traumi della rivoluzione del 1979 né la lunga guerra tra Iran e Iraq degli anni Ottanta, e che dunque continua con coraggio a manifestare senza essere frenata dal ricordo delle altre tragedie impresse nella memoria dei genitori. Molti di questi ultimi infatti non solo hanno vissuto le fasi più drammatiche e sanguinose del post-rivoluzione, ma sono preoccupati dalle conseguenze devastanti degli interventi militari statunitensi in Afghanistan e in Iraq, e dai dieci anni di guerra civile alimentata da potenze esterne in Siria, dove comunque resta saldo al governo il presidente Bashar al Assad. È a questi scenari che guarda quella maggioranza silenziosa che ancora assiste dal di fuori alle manifestazioni.

Nel contempo gli scioperi dei lavoratori -  la cui capacità di mobilitazione è ridotta da una diffusa precarizzazione dei contratti, come racconta un recente saggio di Stella Morgana - o le chiusure nei bazar in solidarietà con le proteste – fronteggiate con la segnalazione alle autorità di tutte le saracinesche chiuse - non hanno raggiunto la capacità di minare davvero le fondamenta del sistema. Il quale del resto ha di recente assistito ai suoi minimi storici di consenso anche in termini di affluenza al voto nelle ultime elezioni parlamentari e presidenziali (rispettivamente  il 42,6% e il 48,8%), che con le schede bianche o nulle hanno decretato sì la vittoria dell’ala conservatrice più oltranzista, ma anche il suo posto ormai minoritario nelle preferenze degli elettori. Anche il sostenitore della Repubblica Islamica più devoto o il cittadino più prudente non possono però accettare che il figlio di un parente o di un vicino di casa perdano la vita o la libertà sotto la scure di una spietata repressione.

Nel contempo esistono il timore e la possibilità di una deriva secessionistica del movimento rivoluzionario, in particolare nelle regioni a maggioranza curda o nel Sistan e Baluchistan, dove non a caso si registrano i numeri più alti in termini di vittime tra i manifestanti: circa la metà su un totale di quasi 500 a fine novembre - oggi le morti sarebbero oltre 560 tra gli oppositori e una settantina tra gli agenti della forze dell’ordine. Un rischio, quello della tentazioni separatistiche, di cui mostrano di essere consapevoli proprio gli attivisti della #IranRevolution, quando affermano che anche in queste zone la protesta rimane pacifica e che la battaglia è comune, sia tra gli iraniani della componente persiana che tra quelli di altre origini etniche, nel chiedere la fine di un sistema politico ormai privo di ogni legittimità. Ugualmente realistico, inoltre, temere che gruppi di opposizione più estremi possano ricorrere all’uso delle armi e materializzare quel pericolo di una guerra civile che giustificherebbe un ulteriore inasprimento della risposta repressiva – in questo contesto, anche potenzialmente funzionale agli interessi stessi del sistema, si può leggere la recente notizia diffusa dall’agenzia ufficiale Irna, secondo cui i servizi di intelligence avrebbero arrestato e identificato in varie zone del paese alcuni membri dell’Mko (i Mojahedin del Popolo),  i cui eredi sono ora un influente gruppo dell’opposizione all’estero ma che sono ancora considerati un’organizzazione terroristica dall’Iran. D’altronde, esponenti dell’opposizione iraniana ritengono che nel sanguinoso attentato terroristico di fine ottobre in un mausoleo di Shiraz, rivendicato dall’Isis,  un ruolo sia stato svolto proprio da  soggetti interni al sistema. 

In capo ai Pasdaran, e alle loro milizie di volontari, il diritto all’uso della forza  

Come si diceva, non è dunque soltanto la vecchia guardia clericale della Rivoluzione islamica  a puntare i piedi contro l’inarrestabile spinta verso il cambiamento che viene da una generazione di giovani connessi con l’Occidente molto di più di quanto l’Occidente conosca il loro paese. A vedere la propria prosperità legata alla sopravvivenza della Repubblica Islamica sono anche i ranghi militari ed economici dei Pasdaran, insieme alle loro milizie volontarie (in particolare i Basiji) che intervengono nei disordini. Se dunque la rivoluzione sognata e agita dagli iraniani in patria e all’estero non sarà impresa facile, è appunto perché sulle ideali barricate opposte non si trovano soltanto barbuti e incanutiti esperti di diritto islamico, insieme ai loro eredi magari un po’ più giovani ma privi di comprovato carisma: a difendere lo status quo sono appunto anche quei Pasdaran che non hanno alcuna intenzione di mollare la presa. Al punto che alcuni analisti non escludono che – magari in concomitanza con la scomparsa dell’anziano Khamenei – questi decidano di prendere un controllo più diretto del potere politico, rafforzandone l’impianto repressivo e autoritario nei confronti del dissenso ma magari allentando i controlli sull’obbligo del velo e la vita sociale, pur senza scardinare le fondamenta giuridiche della Repubblica Islamica. 

Ma queste restano per ora ipotesi futuribili, rispetto alla concretezza del presente. Dove dal sistema giungono segnali contrastanti: da una parte, una recente ripresa della sorveglianza della polizia morale sull’obbligo del velo, sul quale sembrava essere diminuita l’attenzione dopo la morte di Mahsa Amini; dall’altra, il proseguire di un qualche dibattito interno, sia tra i conservatori che tra i moderato-riformisti, sull’urgenza di varare alcune riforme.  Dibattito di cui poco Khamenei pare abbia raccolto nel suo ultimo discorso: ieri infatti  si è limitato ad auspicare che la grande competenza delle iraniane sia maggiormente impiegata nei ruoli decisionali del paese e ha ribadito, come già aveva fatto in questi ultimi mesi,  che se il velo è un obbligo derivante dalla legge islamica, anche le donne il cui abbigliamento è meno rigoroso possono essere ugualmente molto religiose.  

Tre anni fa l’uccisione di Soleimani, arriva fino a oggi l’onda lunga di quell’evento

Proprio alcuni giorni fa, il 3 gennaio, ricorreva il terzo anniversario dell’uccisione di Qasem Soleimani, il carismatico leader della forza Qods dei Pasdaran che l’allora presidente Usa Donald Trump deliberò di uccidere, con un attacco di droni, nei pressi dell’aeroporto di Baghdad. L’uccisione di Soleimani, ufficiale carismatico tanto amato quanto odiato in Iran, e per il quale governo e Pasdaran sono tornati ad annunciare vendetta, fu giudicata una violazione delle norme internazionali da Agnés Callamard, all'epoca relatrice speciale dell’ONU sugli omicidi extragiudiziali. Ma la morte del generale, di cui si ricordano tre oceanici funerali prima della sepoltura nella città natale, ha anche rappresentato una svolta senza ritorno per le sue conseguenze sul piano delle relazioni internazionali. Da una parte, infatti, l’ala ultraconservatrice e oltranzista ha serrato i ranghi, decretando la sconfitta senza appello della dirigenza moderata del presidente, Hassan Rouhani, e del suo ministro degli Esteri, Javad Zarif – la quale, con il consenso d’altronde di Khamenei, aveva puntato le sue carte sull’accordo sul nucleare del 2015 e sulla fiducia in una nuova stagione di dialogo con l’Occidente. Dall’altra, quell’uccisione ha messo fine ai prudenti temporeggiamenti con cui l’Iran aveva risposto all’uscita unilaterale di Trump dall’accordo sul nucleare, avvenuta nel 2018, e ha fatto partire una corsa all’arricchimento dell’uranio verso l’attuale soglia del 60%: soglia pericolosamente vicina a quel 90% che potrebbe permettere a Teheran di sviluppare il suo primo ordigno atomico. Il presidente USA, Joe Biden, è stato sempre consapevole della necessità di richiudere la questione del nucleare iraniano nella “scatola” in cui l’aveva messa Barack Obama  nel 2015, ma gli ultimi due anni di negoziati a Vienna con il gruppo dei 5+1 (Usa, Cina, Russia, Francia, Regno Unito e Germania)  - con l'Unione Europea nel ruolo di facilitatore, mentre i falchi negli USA e in Iran restano sempre impegnati a remare contro - non hanno permesso di approdare al risultato che nell’agosto scorso era parso molto vicino: il rientro degli Stati Uniti nell’accordo, lo stop alla corsa iraniana all’arricchimento dell’uranio e la sospensione delle sanzioni correlate al suo programma nucleare. 

L’anniversario del volo civile abbattuto, la protesta si unisce sempre al dolore 

Giusto chiedersi cosa c’entri tutto questo con le proteste che sembrano proseguire indomite in Iran e con il sogno rivoluzionario dei manifestanti. I quali non chiedono certo, va rilevato, il ripristino dell’accordo sul nucleare e la fine delle sanzioni, che pur sono corresponsabili dell’impoverimento di quelle stesse classi medie dalle quali provengono molti di loro. Eppure proprio la politica di massima pressione avviata da Trump contro l’Iran ha fatto precipitare quella serie di eventi, alcuni dei quali auspicati dallo stesso ex presidente, che ha condotto fino alla crisi interna e internazionale attuale. Perché le sanzioni, insieme alla corruzione interna del sistema, hanno da una parte messo in crisi l’economia di un paese altrimenti ricco di gas, petrolio e qualificate risorse umane, dall’altro hanno rafforzato l’ala dura, militarista e repressiva delle sue classi dirigenti. In questo concorrendo sì al moltiplicarsi dei movimenti di protesta fino alle aspirazioni rivoluzionarie attuali, ma non all’indebolimento della Repubblica Islamica. La quale ha anzi saputo compensare i danni delle sanzioni rafforzando le sue alleanze economiche e militari con grandi potenze anti-occidentali come la Russia e la Cina. Ne vediamo gli effetti proprio sul fronte della guerra di Putin contro l’Ucraina, dove vengono impiegati su larga scala proprio droni di fabbricazione iraniana. Quello ucraino è un nuovo e pericoloso focolaio di crisi nelle relazioni internazionali dell’Iran, che nel frattempo non recede dal potenziamento del suo programma nucleare pur dichiarando di voler proseguire nei negoziati di Vienna. A questo si aggiunge l’acuirsi delle frizioni con Israele, dove è tornato in carica l’acerrimo premier anti-iraniano Benjamin Netanyahu, e che continua ad attaccare le forze di Teheran stanziate in Siria a difesa dell’alleato Assad. Israele d’altronde non fa mistero di essere pronto ad attacchi aerei mirati anche contro le strutture nucleari nel territorio iraniano (molto recenti alcune esercitazioni aeree congiunte con gli USA), e di essere tra i tanti  che avrebbero tutto l’interesse a vedere indebolita la Repubblica Islamica rispetto al suo ruolo attuale di media potenza regionale.

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Ma vi è anche un’altra tragica conseguenza, seppur indiretta, dell’omicidio di Soleimani e di un alto ufficiale delle milizie filo-iraniane in Iraq. In risposta a quell’attacco Teheran, nella notte tra il 7 e l’8 gennaio, aveva colpito la più grande base Usa in Iraq, senza gravi conseguenze per le forze americane, ma il clima di tensione di quella notte aveva condotto all’abbattimento per errore, da parte della contraerea dei Pasdaran, di un aereo civile ucraino appena decollato da Teheran: la maggioranza dei 167 passeggeri morti era di nazionalità iraniana. Proprio in questi giorni Canada, Regno Unito, Svezia e Ucraina hanno avviato una procedura arbitrale contro l’Iran che potrebbe fra alcuni mesi far approdare il caso alla Corte internazionale di giustizia dell’Aia. A fare da portavoce dell’associazione dei parenti di quelle vittime è lo scrittore irano-canadese Hamed Esmailion, in cui molti attivisti iraniani vedrebbero volentieri un leader della loro rivoluzione. Ma per Esmalion i leader sono tra i giovani manifestanti e tra i troppi oppositori in carcere. Per ricordare la tragedia del volo PS752 sono state indette, per l’8 gennaio 2023, nuove manifestazioni in diverse città del mondo, fra cui Roma e Torino. La voglia di rivoluzione degli iraniani si accompagna, come sempre, anche al dolore. 

Immagine in anteprima: frame video Wall Street Journal

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