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Aleppo, la città dei silenzi

22 Dicembre 2022 8 min lettura

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Aleppo, la città dei silenzi

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“Quello era un segno, una sorta di presagio di quello che sarebbe successo ad Aleppo e in tutta la Siria di lì a poco. Il minareto svettava sui nostri cieli da oltre mille anni e quando è crollato sotto il peso dei bombardamenti, è come se avesse annunciato la fine, la fine di tutto, del sogno di libertà e delle nostre stesse vite”. Omar A., farmacista trentacinquenne, non potrà mai dimenticare quei giorni di guerra e di dolore. Ripensare oggi, a distanza di sette anni, al giorno in cui ha dovuto abbandonare per sempre Aleppo “fa male al cuore”, spiega a Valigia Blu. Nonostante la nuova vita a Berlino, dove i suoi figli vanno a scuola e dove lui e la moglie lavorano, afferma che una parte di lui “è morta lì”.

Era il 23 aprile del 2013 quando, sotto il peso dei bombardamenti governativi su Aleppo, crollava il minareto della moschea degli Omayyadi ad Aleppo, costruito nel lontano 1090. Solo pochi mesi prima l’Unesco aveva lanciato un appello per proteggere l’intera moschea, considerata patrimonio mondiale e uno dei luoghi di culto islamici più belli del mondo. La distruzione dell’antica torre suscitò molte reazioni sul piano internazionale e spinse un professore italiano dell’Università Politecnica delle Marche, Gabriele Fangi, docente di architetture, a proporre di usare il suo lavoro di fotogrammetria sferica per ricostruire il minareto

Il professore, venuto a mancare nel 2020, andò effettivamente in Siria, ma la ricostruzione non è mai ripartita, anche per via delle sanzioni imposte al regime di Damasco per la perpetuazione di violenze ai danni di civili. Le 2400 pietre che compongono il minareto sono ancora lì, messe in fila, in attesa di tornare a toccare il cielo. “Tutto il mondo ha visto le immagini del crollo del minareto in tv. Molti siriani, a causa dei posti di blocco e della divisione della città tra aree sotto il controllo del governo e aree sotto il controllo dei ribelli, non hanno più potuto mettere piede in quella moschea. È come aver appreso la notizia della morte di un caro, senza però potergli dare l’ultimo addio”, racconta Omar, che sul telefonino ha diverse foto del prima e del dopo la distruzione. “Abbiamo pianto anche quando hanno saccheggiato e dato alle fiamme l’antico suq. Il dolore più grande, non va dimenticato, non ce l’ha dato tanto la distruzione dei siti archeologici, bensì l’uccisione spietata dei civili. I barili bomba non solo hanno distrutto oltre due terzi della città, ma hanno provocato migliaia e migliaia di vittime. A volte ho la sensazione che la gente abbia pianto di più per il minareto Aleppo o il sito archeologico di Palmira che per gli abitanti delle due città”, aggiunge. “Chi, come me, ha vissuto il momento dell’evacuazione, dopo mesi di assedio e anni di bombardamento, chi è salito sui famigerati autobus verdi sa di essere un sopravvissuto all’inferno, ma siamo stati dimenticati da tutti e persino dipinti come criminali”.

Nel dicembre del 2016, un anno particolarmente freddo e nevoso, gli ultimi ribelli contro il governo di Damasco sono stati costretti ad evacuare la zona est della città di Aleppo, per non farvi più ritorno. Sotto il nome “ribelli”, oltre a uomini armati, c’erano altre tremila persone circa, secondo il Comitato internazionale della Croce Rossa e della Mezza Luna Rossa, interi nuclei familiari composti da bambini, donne, anziani colpevoli di abitare nella zona est di Aleppo che anni prima aveva visto la sconfitta dell’esercito di Assad per mano del Free Syrian Army. L’opposizione definiva Aleppo est “zona liberata”, sebbene il moltiplicarsi di gruppi armati avesse sensibilmente contribuito alla definitiva destabilizzazione della zona.

Sul piano militare, nel 2016 lo scenario era molto cambiato rispetto ai primi anni dell’insurrezione popolare. Oltre al sostegno iraniano, il governo di Assad poteva ora contare sul pieno impegno dell’esercito russo, che aveva preso attivamente parte ai bombardamenti dal cielo, ma anche a operazioni militari via terra. Anche la realtà degli oppositori era molto diversa rispetto ai primi tempi, quando a scontrarsi contro l’esercito regolare erano gli uomini del cosiddetto Free Syrian Army, una formazione militare composta da colonnelli e soldati dell’esercito siriano che avevano deciso di disertare e di unirsi per contrastare l’offensiva bellica interna sulle città insorte. L’arrivo in Siria di migliaia di foreign fighters, giunti da molti paesi del mondo arabo, ma anche da Europa e dall’Asia centrale, e le sempre maggiori ingerenze della Turchia e dei paesi del Golfo hanno portato al moltiplicarsi delle fazioni armate, che hanno poi avuto percorsi diversi in Siria. Ad Aleppo l’Isis non è mai arrivata, ma la città ha visto l’offensiva di altre fazioni terroristiche come Hayat Tahrir al Sham e Jabhat an-Nusra, entrambe di ispirazione qaedista. Proprio la natura integralista di questi gruppi ha contribuito a decimare l’opposizione militare più laica e anche la resistenza civile. Chi non è morto sotto il peso di barili-bomba è stato ucciso da queste formazioni oscurantiste.

Si dice che la storia la scrivano i vincitori. Secondo la versione del governo di Damasco, la battaglia finale di Aleppo, così come la guerra in tutta la Siria, sono state una “vittoria di Bashar al Assad sui terroristi". Il regime ha bollato e continua a bollare tutti i suoi oppositori come terroristi, negando l’esistenza di una insurrezione popolare pacifica e laica e accusando Stati Uniti, Israele e l’Occidente in generale di aver messo in atto un complotto contro la sua persona, contro la Siria e i Siriani. Negli ambienti lealisti vige la narrativa di Assad come salvatore della patria, mentre la Siria stessa è definita “Suria al-Asad”, ovvero la Siria di Assad. Ogni volta che cambia un capo di Stato o un rappresentante di qualche istituzione internazionale, i fedelissimi del regime ironizzano con meme e prese in giro, dicendo che tutti cadono, ma non Assad. Fuori dal paese, Assad ha trovato e trova sostegno negli ambienti cosiddetti antimperialisti e non solo, che lo definiscono il baluardo della laicità e che hanno definito quella di Aleppo una “liberazione” della città.

Esiste, tuttavia, un’altra versione della storia, raccontata dai testimoni, dai sopravvissuti, che dà un quadro molto diverso dei fatti. L’offensiva bellica scatenata dal regime, con il sostegno della Russia, ha preso di mira deliberatamente quartieri residenziali e infrastrutture civili di vitale importanza, come gli ospedali. Contro la potente macchina della propaganda governativa e russa, solo la forza delle parole e del racconto di chi la guerra l’ha subita può fornire una fotografia diversa dei fatti. In questo la possibilità di divulgare informazione attraverso la rete ha permesso di far conoscere una narrativa diversa rispetto a quella ufficiale. Ad aprile del 2016, quando gli attacchi aerei hanno distrutto l’ospedale Al Quds, un’eccellenza nella cura pediatrica gestito dal Comitato Internazionale di Mezza Luna e Croce Rossa e da Medici Senza Frontiere che serviva tutta la città di Aleppo, si sollevò la voce di un medico, il dottor Hatem, che scrisse una lettera ripresa dai media internazionali per denunciare quanto accadeva. Nel suo messaggio Hatem, che ricopriva anche il ruolo di direttore della struttura sanitaria, denunciò l’uccisione, in seguito a un bombardamento, di uno dei maggiori pediatri della città siriana, Muhammad Wasim Maaz, insieme ad altre 27 persone, tra pazienti e staff dell’ospedale. Questa, insieme a molte altre testimonianze, mirava a scuotere la comunità internazionale, affinché agisse.

I bombardamenti sugli ospedali sono tuttavia proseguiti, come mostrato, tra gli altri, anche dalla giovane regista di Aleppo Waad al Khateab, nel suo docufilm For Sama. La pellicola, girata nella città di Aleppo nel 2016, raccoglie frammenti della vita quotidiana di civili e medici colpiti dall’assedio imposto dal regime e dai bombardamenti. Hamza al Khateab, medico e marito della regista, ha denunciato più volte, intervenendo via web sui media della stampa internazionale, l’accanimento contro i nosocomi e il pericolo a cui venivano esposti quotidianamente i civili. Grazie alla sua tenacia e ai numerosi riconoscimenti internazionali, tra cui la candidatura al Premio Oscar nel 2020, Waad al Khateab è considerata a tutti gli effetti un’icona della resistenza civile siriana ed è chiamata come testimone in contesti prestigiosi e di rilievo, come il Consiglio di Sicurezza dell’ONU, dove è intervenuta a dicembre dello scorso anni, con una denuncia molto potente. Waad e la sua famiglia sono stati costretti a lasciare Aleppo nel dicembre del 2016. Attualmente vivono a Londra, dove quest’anno, in occasione del settimo anniversario del loro esilio, hanno organizzato con altri rifugiati aleppini la mostra We dared to dream, con testimonianze sui loro ultimi giorni nella città.

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“Quando ripenso ai miei ultimi giorni ad Aleppo vedo solo due colori, il rosso e il verde. Il rosso era il sangue della gente morta ammazzata, i cui corpi spesso rimanevano giorni sotto le macerie. Il verde è quello degli autobus che sono entrati in colonna per portarci via”, racconta a Valigia Blu Mayada, insegnante di scuola elementare, tra gli evacuati del dicembre 2016, oggi in esilio in Turchia. “Quell’anno aveva nevicato. La neve che si posava sulle macerie rendeva la città diversa, irriconoscibile, ma nulla avrebbe potuto cancellare l’odore della morte, quella reale, e quella che sentivamo nei nostri cuori. Se ripenso a quei giorni, senza luce, senza riscaldamento, con il cibo che scarseggiava per via dell’assedio, con l’impossibilità di raggiungere familiari in altre zone della città, mi chiedo come siamo riusciti a sopravvivere”. La maestra non ha più potuto riprendere il suo lavoro. Ora fa la sarta in una fabbrica alla frontiera. “So che dietro quei monti c’è la mia città, ma so che non ci tornerò mai più. Non ho la forza di tornare in quel cimitero diffuso che era diventata Aleppo. Spero che le mie figlie non mi chiedano mai delle nostre origini. Ora sono piccole, non si fanno domande, ma un giorno forse dovremo affrontare la questione. Mi chiedo se potranno mai capacitarsi di quello che è successo”.

Abu Ramy ad Aleppo est aveva un piccolo negozio di alimentari. “Sono rimasto fino alla fine in città, con la speranza di proteggere le proprietà di famiglia. bombardamenti hanno provocato danni, ma non le hanno rese inagibili” racconta a Valigia Blu. “Inizialmente sugli autobus non facevano salire uomini armati e comunque tutti i passeggeri dovevano scendere ai diversi posti di blocco, per essere controllati. Alcuni giovani sono stati fermati e uccisi davanti a tutti, perché riconosciuti come ribelli. Sugli ultimi mezzi, invece, in base agli accordi, hanno lasciato salire anche miliziani. Tra loro molti erano figli del quartiere, giovani che si sono improvvisati soldati, ma altri erano sconosciuti e non parlavano nemmeno arabo. Chi fossero e cosa ci facessero lì non l’ho mai capito. So solo che ad Aleppo c’è stata una distruzione pianificata. Oggi, che sono sette anni che vivo nella periferia nord, so che tutte le mie proprietà sono state occupate e in base ai nuovi decreti governativi, non potrò mai più rientrarne in possesso. C’è una cosa però che ho lasciato ad Aleppo e che nessuno potrà mai portarmi via. Il cuore”.

(Immagine in anteprima via WikiMedia Commons)

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