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Dopo il Qatar, il rischio di un nuovo Mondiale della vergogna con l’Arabia Saudita

26 Dicembre 2022 8 min lettura

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Dopo il Qatar, il rischio di un nuovo Mondiale della vergogna con l’Arabia Saudita

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Finalmente è finito: il Mondiale della vergogna è ormai alle nostre spalle. O forse no, perché alla fine il Qatar era purtroppo solo la punta dell’iceberg. La conclusione dell’evento sportivo più discusso dell’ultimo periodo - circondato da accuse di corruzione e di ripetute violazioni dei diritti umani - non rappresenta uno scampato pericolo, anzi rischia di essere piuttosto il definitivo inizio di una nuova preoccupante epoca nei rapporti tra il calcio e diritti umani.

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Certo, Qatar 2022 non è stato il primo Mondiale organizzato da un paese dittatoriale. Solo quattro anni prima si era giocato in Russia. Nel 1978 era toccato all’Argentina di Videla, nel 1934 all’Italia fascista. Ma l’evento che è appena terminato ha segnato una decisiva escalation di questa tendenza: davanti a molte accuse e a un movimento che per la prima volta è arrivato a contestare apertamente lo svolgimento del Mondiale, la FIFA ha deciso di tirare avanti. La retorica con cui Gianni Infantino ha negato e minimizzato le violazioni dei diritti umani da parte di Doha non ha precedenti nella storia dell’organizzazione, e sembra dimostrare che il percorso che ora si vuole seguire sia questo: separare il calcio dal rispetto dei diritti umani.

Un’ipotesi che è tutt’altro che fantasiosa, a dire il vero. Non è un segreto che la candidatura più forte a ospitare i Mondiali del 2030, i prossimi da assegnare, sia quella dell’Arabia Saudita. Di nuovo una monarchia assoluta del Golfo Persico, un altro paese con idee estremamente retrograde sui diritti delle donne e della comunità LGBTQ+, in cui la kafala è ancora ufficialmente in vigore (mentre almeno in Qatar è stata formalmente abolita), attivamente impegnato in una sanguinosa guerra in Yemen, e il cui principe è accusato di aver autorizzato l’omicidio del giornalista Jamal Khashoggi. E d’altronde non può essere altrimenti: da qualche tempo Riad ha deciso di investire nello sport, trasportando sui campi europei lo scontro geopolitico col Qatar.

L’ascesa dell’Arabia Saudita nel calcio europeo

A dispetto del suo vasto potere economico e dell’estensione geografica dei suoi confini, l’Arabia Saudita è a lungo rimasta ai margini del mondo del calcio, che in Europa veniva rapidamente egemonizzato - almeno a livello di investimenti - dai più piccoli Emirati Arabi Uniti (Manchester City) e Qatar (Paris Saint-Germain). Lo sbarco di Riad nel calcio europeo è arrivato solo nell’ottobre 2021, attraverso l’acquisizione del Newcastle, prontamente trasformato attraverso grosse spese sul mercato in una delle principali squadre d’Inghilterra: dopo anni di medio-bassa classifica, in questo momento i Magpies si trovano terzi in Premier League, in quello che potrebbe essere il loro miglior piazzamento dal 2003.

In realtà, quella del Newcastle non è stata la prima proprietà saudita del calcio europeo: già nel 2013 Abd Allah bin Musaid Al Saud, un membro di secondo piano della famiglia reale, aveva acquistato lo Sheffield United. Ma le due operazioni sono estremamente diverse a livello di conduzione e prospettiva. Lo Sheffield è stata un’acquisizione privata e personale di un ricco cittadino saudita, mentre il Newcastle è stato rilevato direttamente dal PIF (Public Investment Fund), il fondo sovrano di Riad, in maniera speculare a quanto fatto dagli omologhi emiratini e qatarioti con Manchester City e PSG. Da quel momento, l’Arabia Saudita si è tuffata nel sistema del football: lo scorso maggio, ad esempio, si è accordata con Leo Messi per farne l’ambasciatore del turismo nel paese. Una mossa particolarmente significativa, visto che l’argentino è da un anno e mezzo stipendiato dai rivali del Qatar (in quanto giocatore del PSG), il cui emiro pochi giorni fa lo ha vestito con il bisht tradizionale subito prima di alzare al cielo la Coppa del Mondo. Un gesto che indica omaggio e celebrazione, ma che, nel caso specifico, acquisisce delle inevitabili connotazioni politiche

Ma queste sono solo alcune delle stelle che popolano questo cielo. Nel 2018, l’Arabia Saudita ha sottoscritto un accordo con la Serie A per ospitare sul proprio territorio le successive tre edizioni della Supercoppa italiana. La prima, tenutasi a Jeddah, scatenò polemiche politiche abbastanza unanimi, ma nessun partito si espose abbastanza da portare alla sospensione del contratto, e il 18 gennaio prossimo a Riad si giocherà l’ultima edizione prevista, nel disinteresse generale. Dopodiché si deciderà probabilmente di rinnovare l’accordo: Riad offre alla Serie A 138 milioni di euro in sei anni per ospitare il torneo, triplicando l’offerta attuale e imponendo la trasformazione del torneo da due a quattro squadre. Il modello è lo stesso già applicato in Spagna con la Supercoppa locale, che dal 2020 si tiene sempre in Arabia, che ha forzato l’aumento delle squadre partecipanti, snaturando la competizione originale. E a quanto pare anche coinvolgendo il difensore del Barcellona Gerard Piqué per assicurarsi l’accordo.

L’obiettivo è chiaramente quello di seguire il sentiero già tracciato dal Qatar, per ricucire il divario con Doha nel calcio e, il prima possibile, diventare il nuovo baricentro di potere del football globale. Il Mondiale del 2030 è l’obiettivo ultimo per pareggiare i conti col Qatar, ma nel frattempo Riad si è già assicurata la Coppa d’Asia del 2027 come prova generale, seguendo di quattro anni l’edizione prevista tra pochi mesi proprio a Doha e dintorni. Dal controllo diretto dei club europei all’organizzazione delle grandi competizioni nazionali e internazionali, Arabia Saudita e Qatar si stanno ormai dando battaglia sui campi sportivi.

La visione di Riad

Il 2030 non è una data a caso: è anche l’anno in cui i sauditi prevedono di ultimare il loro ambizioso progetto per rendersi indipendenti dal petrolio. Si chiama Vision 2030, e l’uomo che l’ha ideato è il grande protagonista di tutta questa storia: Mohammed bin Salman Al Saud. In Italia lo conosciamo soprattutto per i rapporti con il senatore Matteo Renzi e il caso delle consulenze pagate dal regime, ma in realtà si tratta del recentemente nominato Primo Ministro saudita, nonché erede al trono. Proprio la carica da Primo ministro gli ha permesso, per via dell’immunità diplomatica, di sfuggire alle indagini degli Stati Uniti sull’omicidio Khashoggi. Secondo molti analisti, il vero uomo al potere in Arabia Saudita è proprio lui, e non il vecchio re Salman.

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La sua ascesa è iniziata nell’estate 2017, quando ha ottenuto la nomina a Principe della Corona e vice Primo Ministro. Una decisione necessaria per poter gestire in prima persona il progetto Vision 2030, che lui stesso aveva proposto al consiglio dei ministri nell’aprile 2016. Il piano di Bin Salman prevedeva la trasformazione del colosso petrolifero di stato, Saudi Aramco, in una vera e propria holding, e la creazione di un fondo sovrano per investire su larga scala nell’economia globale (PIF, appunto). Il calcio è rapidamente entrato nei campi d’azione privilegiati di Bin Salman, che è intervenuto in prima persona nelle trattative per l’acquisizione del Newcastle (pur nascondendosi ufficialmente dietro la figura dell’intermediaria Amanda Staveley, nominata presidente del club in maniera molto astuta, così da smentire le accuse di sessismo verso il regime saudita diventando una delle prime società di calcio ad avere a capo una donna). E, non a caso, Bin Salman ci ha tenuto particolarmente ad apparire alla cerimonia di apertura dei Mondiali in Qatar, sedendosi accanto a Infantino e all’emiro Tamim bin Hamad Al Thani.

Arrivare ai Mondiali 2030 serve per ottenere il grande evento per celebrare il successo di Bin Salman, e gli appassionati di calcio sanno quanto sarà simbolica questa data: la celebrazione del centenario del primo Mondiale della storia. Non si tratta di una candidatura unica, visto che l’Arabia Saudita partecipa assieme a Egitto e Grecia, ma è abbastanza facile intuire quale tra i tre paesi abbia il peso maggiore, e quindi andrà a ospitare i match più importanti, come ad esempio la finale. La decisione sarà presa solo al Congresso della FIFA del 2024, al quale i sauditi si presenteranno però forti dello sponsor del già citato Messi, campione del mondo in carica con l’Argentina. E probabilmente pure con quello di Cristiano Ronaldo: secondo Marca il calciatore dovrebbe firmare a breve un contratto con l’Al Nassr di Riad, che durerà proprio fino al 2024, per diventare successivamente ambasciatore del calcio saudita fino al 2030.

Perché rischiamo un nuovo Mondiale della vergogna

La tavola sembra apparecchiata per vedere il calcio del prossimo decennio con l’Arabia Saudita nel ruolo di protagonista. Ciò grazie all’organizzazione continuativa delle supercoppe d’Italia e Spagna, al controllo di un club di primo piano in Inghilterra, alle sponsorizzazioni di due dei campioni più iconici della storia del calcio e all’essere sede sia della Coppa d’Asia che (forse) del Mondiale. Viene logico, a questo punto, chiedersi perché al calcio tutto questo debba andare bene, dopo le proteste che abbiamo visto verso il Qatar.

La questione, tanto per cambiare, è economica. I soldi dell’Arabia Saudita, che possiede il fondo sovrano più ricco al mondo, sono in grado di alimentare la grande industria del calcio anche in questo periodo di crisi. Non sorprende che proprio la Serie A, uno dei campionati europei con le maggiori difficoltà economiche, sia stata una delle prime leghe ad accogliere i capitali di Riad. E d’altro canto i sauditi sono ben felici di usare il calcio per i propri scopi, che ormai vanno ben al di là dello spesso abusato concetto di sportwashing. Come scrive Stanis Elsborg, “per l’Arabia Saudita lo sport non è solo sportwashing, uno stratagemma per ripulire la propria immagine per sorvolare sulla preoccupante situazione dei diritti umani, ma è molto di più: potere nelle relazioni internazionali”.

I Mondiali in Qatar hanno dimostrato (qualora ce ne fosse ancora bisogno) che la FIFA è perfettamente in grado di passare sopra alle problematiche politiche e sociali, quando in gioco c’è un grande profitto. Mai come per gli ultimi Mondiali si era verificato un così partecipato movimento di opposizione alla Coppa, che ha visto coinvolte ong, giocatori, allenatori, tifosi e anche alcune federazioni. Eppure niente di tutto questo è bastato a scalfire l’evento, e anzi l’accoppiata FIFA-Qatar è anche riuscita a vietare la protesta delle fasce arcobaleno senza nessun particolare contraccolpo.

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Il che, comunque, non è sufficiente a rendere Arabia Saudita 2030 inevitabile. Nei due anni che ci separano dal voto per l’assegnazione del Mondiale, gli occhi saranno puntati su Zurigo e Riad, i due poli del potere del calcio moderno. L’attenzione dei media, dei tifosi e anche dei professionisti del pallone potrebbe anche essere stata ridestata dallo shock di Qatar 2022, e forse questa volta sarà più difficile far passare inosservata l’assegnazione a una spietata monarchia assoluta. Paradossalmente, il vero boicottaggio di cui tanto si è discusso negli scorsi mesi, potrebbe iniziare adesso.

Immagine in anteprima: il presidente della FIFA, Gianni Infantino, e il principe ereditario dell'Arabia Saudita, Mohammed bin Salman, seduti uno accanto all'altro durante la partita Qatar-Ecuador – Frame video via Twitter

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