COP15, accordo epocale per fermare la perdita di biodiversità entro il 2030. Ignorate le richieste degli Stati africani per un fondo per i paesi più vulnerabili
9 min letturaIl round-up settimanale sulla crisi climatica e i dati sui livelli di anidride carbonica nell'atmosfera.
Dopo oltre quattro anni di negoziati, ripetuti ritardi per la pandemia di COVID-19 e colloqui fino a notte fonda, il 18 dicembre quasi 200 paesi - tra questi non ci sono gli Stati Uniti e il Vaticano - hanno firmato un accordo alla COP15 sulle diversità biologiche, ospitata da Canada e Cina, per arrestare la perdita di biodiversità entro il 2030. L'accordo, definito unico nel suo genere, sembra essere stato imposto dal presidente cinese, ignorando le obiezioni di alcuni Stati africani.
Il negoziatore della Repubblica Democratica del Congo (RDC) è sembrato bloccare l'accordo finale presentato dalla Cina, dicendo alla plenaria che non poteva sostenere un documento che non creava un nuovo fondo per la biodiversità, distinto da quello esistente delle Nazioni Unite, il Global Environment Facility (GEF). Cina, Brasile, Indonesia, India e Messico sono i maggiori beneficiari dei fondi GEF e alcuni Stati africani volevano che l'accordo finale prevedesse più fondi per la conservazione. “Vengo da un paese del bacino del Congo, ricco di biodiversità, che si è sacrificato per tutta l'umanità sacrificando le sue risorse. Ci aspettiamo una corrispondenza dei nostri sforzi. Eravamo sulla strada giusta e pensiamo che quello che abbiamo visto sia stato una forza di mano”, ha affermato il rappresentante del Congo.
Tuttavia, pochi istanti dopo, il ministro dell'Ambiente cinese e presidente della COP15, Huang Runqiu, ha segnalato che l'accordo era concluso e approvato, tra l’incredulità dei negoziatori di Camerun, Uganda e RDC, che hanno parlato di “frode” e “colpo di Stato” contro la COP15.
L'accordo, se attuato, potrebbe segnare importanti cambiamenti nell'agricoltura, nelle catene di approvvigionamento delle imprese e nel ruolo delle comunità indigene nella conservazione, scrive il Guardian, in un mondo popolato ormai da più di 8 miliardi di persone e segnato dal crollo del numero di insetti, dall'acidificazione degli oceani, riempiti di rifiuti di plastica, e dal consumo eccessivo delle risorse del pianeta.
La situazione attuale (erosione della biodiversità, degrado del suolo, delle risorse idriche e minerarie) richiede un cambiamento radicale del nostro modello di società, osservava alla vigilia dell’accordo finale un articolo di Le Monde. Ispirarsi ai principi di giustizia ambientale e sociale e uscire da un modello produttivista ed estrattivista, basato sull'idea di crescita illimitata, che richiede un consumo eccessivo di risorse viventi e minerali e impone una continua richiesta e produzione di energia. L'abbuffata di energia e le sue conseguenze sul clima sono sintomatiche di un sistema economico il cui funzionamento è incompatibile con la sostenibilità presente e futura della Terra, prosegue Le Monde. Tuttavia, lo studio dei sistemi ecologici ci ha insegnato che la crescita infinita è semplicemente impossibile su un pianeta con risorse limitate. Se il processo della COP sulla biodiversità deve funzionare, le Nazioni Unite devono garantire che tutte le voci siano ascoltate.
Il testo finale prevede l'obiettivo di proteggere il 30% del pianeta entro la fine del decennio, di ridurre i sussidi ritenuti dannosi per la natura - come quelli che sostengono l'agricoltura o la pesca non sostenibile - di 500 miliardi di dollari all'anno entro il 2030 e di ripristinare il 30% degli ecosistemi terrestri, acquatici interni, costieri e marini degradati del pianeta. I governi hanno inoltre concordato azioni urgenti per fermare le estinzioni causate dall'uomo di specie notoriamente minacciate. Sebbene l'accordo di Montreal-Kunming non sia legalmente vincolante, i governi avranno il compito di dimostrare i loro progressi nel raggiungimento degli obiettivi con piani nazionali per la biodiversità, simili ai contributi nazionali determinati, che i paesi utilizzano per dimostrare i progressi nel raggiungimento dell'accordo sul clima di Parigi.
“L'obiettivo noto come ‘30 by 30’, ovvero l'impegno a proteggere il 30% del pianeta - sia terrestre che marino - per la natura entro la fine del decennio, è valido e ha buone possibilità di essere recepito dalla società civile di molti paesi, così come lo è stato il ‘net zero’ per le emissioni”, commenta un editoriale del Guardian. “Anche il concetto di piani nazionali per la biodiversità, con una funzione simile a quella dei contributi nazionali determinati nel processo delle Nazioni Unite sul clima, è valido”.
Su altri aspetti l’accordo finale è però debole e vago, e il fatto che non sia giuridicamente vincolante fa temere per la sua attuazione. “Gli obiettivi per porre fine all'estinzione delle specie sono molto vaghi e, sebbene ci siano parole incoraggianti sulla ‘promozione di modelli di consumo sostenibili’, il testo non si spinge oltre”, commenta Craig Bennett, amministratore delegato di The Wildlife Trusts. “Si suggerisce che le imprese transnazionali e le istituzioni finanziarie debbano ‘monitorare, valutare e divulgare regolarmente i loro impatti sulla biodiversità’, ma non si chiede la rendicontazione obbligatoria che molti auspicavano”.
I fondi per la biodiversità
I nodi principali riguardano soprattutto i fondi. Come detto, gli Stati africani chiedevano un nuovo fondo. In uno degli incontri preparatori alla COP15, tenutosi a Nairobi a giugno, il Brasile aveva avanzato una proposta per un nuovo "Fondo globale per la biodiversità" di 100 miliardi di dollari all’anno per la biodiversità, da istituire entro il 2023 e da rendere operativo entro il 2025. La proposta era stata raccolta da 22 paesi in via di sviluppo.
Questa proposta è stata osteggiata dal Regno Unito e dall’Unione Europea che hanno proposto però di aumentare gli investimenti riservati nella biodiversità. E così alla fine i governi hanno deciso di creare un nuovo fondo all'interno del principale meccanismo di finanziamento della biodiversità delle Nazioni Unite - il Fondo globale per l'ambiente - e di impegnarsi a discutere in futuro di un fondo separato.
Nella sua forma attuale, il Global Biodiversity Framework (GBF), riporta Carbon Brief, spera di mobilitare “almeno 200 miliardi di dollari all'anno” entro il 2030 da “tutte le fonti”, nazionali, internazionali, pubbliche e private. I paesi ricchi hanno accettato di fornire 30 miliardi di dollari di aiuti per la biodiversità entro la fine del decennio, un aumento sostanziale rispetto ai livelli attuali.
I diritti degli indigeni
La COP15 è stata un'opportunità per i leader indigeni per il riconoscimento dei loro diritti come custodi della biodiversità, scrive sempre Carbon Brief. Secondo la Piattaforma intergovernativa scienza-politica sulla biodiversità e i servizi ecosistemici (IPBES), “almeno un quarto della superficie terrestre globale è tradizionalmente posseduta, gestita, utilizzata o occupata dalle popolazioni indigene” e, di questa superficie, quasi il 70% può essere classificato come area "protetta" o "area a bassissimo intervento umano". Le popolazioni indigene e le comunità locali (IPLC) dipendono dalla natura per “la sussistenza, il sostentamento e la salute”, ma le loro terre stanno subendo la pressione dell'estrattivismo e dei progetti energetici e di trasporto, aggiunge IPBES. Allo stesso tempo, l’istituzione delle aree protette significa l'espropriazione delle terre di cui gli indigeni sono considerati custodi.
Secondo l'International Indigenous Forum on Biodiversity (IIFB), nel documento finale della COP15, i diritti indigeni sono stati incorporati negli obiettivi di "pianificazione territoriale, conservazione del 30% delle aree terrestri, delle acque interne e delle aree costiere e marine entro il 2030, uso sostenibile consuetudinario conoscenze tradizionali e partecipazione e rispetto dei diritti delle IPLC su terre, territori e risorse”. È l’inizio di una nuova era per la conservazione guidata dagli indigeni, scrive New Scientist. Tuttavia, si chiede Viviana Figueroa, rappresentante dell’IIFB, “come faranno le parti a garantire il raggiungimento di questi obiettivi?”
Gli Stati membri dell'UE trovano l’intesa per un meccanismo di tetto massimo al prezzo del gas ma l’impatto non sembra rilevante
Dopo settimane di aspre discussioni, gli Stati membri dell'UE hanno concordato un meccanismo per limitare i prezzi del gas all'ingrosso. Il piano - chiamato meccanismo di correzione del mercato - entrerà in vigore il primo febbraio 2023 e si attiverà a partire dal 15 febbraio per i contratti con scadenza a 2 mesi, 3 mesi e 1 anno.
Il meccanismo si attiverà quando i prezzi del gas superano i 180 euro per megawattora (MWh) e sono superiori di almeno 35 euro rispetto al prezzo medio internazionale del gas naturale liquefatto (GNL) per tre giorni consecutivi, in modo da non mettere a rischio le forniture di gas dell'Europa, riporta Le Monde. Non si tratta di un vero e proprio tetto al prezzo del gas. Il meccanismo assicura che il prezzo del gas non raggiunga valori superiore al prezzo del gas naturale liquefatto più il premio di 35 euro: “Il prezzo al TTF può quindi assumere valori superiori a €180/MWh purché la differenza con prezzo LNG rimanga pari a €35”, osserva su Twitter Simona Benedettini.
Una volta attivato, il limite di prezzo si applicherà per almeno 20 giorni lavorativi e potrà essere disattivato se il rapporto tra il il gas naturale e il prezzo del gas naturale liquefatto più il premio sarà inferiore ai 180 euro per megawattora, la Commissione Europea dichiara lo stato di emergenza, il meccanismo fa aumentare i consumi di gas o fa ridurre gli scambi tra Stati Membri o al TTF. [Continua a leggere qui]
L’Unione Europea ha raggiunto un accordo cruciale per le politiche climatiche sul mercato del carbonio
L’Unione Europea ha raggiunto un accordo per rivedere l’attuale mercato del carbonio (ETS) e istituire un fondo per agevolare le persone a basso reddito a passare a forme di trasporto e riscaldamento più pulite. Introdotto nel 2004, il mercato del carbonio regola gli scambi di emissioni di decine di migliaia di industrie e centrali energetiche dell’UE, responsabili di quasi la metà delle emissioni complessive dei paesi membri. Il sistema fissa un tetto massimo complessivo di emissioni che questi enti possono emettere e consente alle aziende con più emissioni di acquistare delle quote da quelle meno inquinanti e così inquinare di più rispetto a quanto loro consentito, restando però sempre entro il limite stabilito dall’Unione Europea. Il tetto massimo viene ridotto di anno in anno. Se viene sforato, sono previste multe molto salate. Tuttavia, il sistema è stato aggirato dagli Stati membri in vari modi in questi anni.
I negoziatori UE hanno stabilito che i produttori di energia e i grandi inquinatori, coperti dal sistema ETS, dovranno ridurre le loro emissioni del 62% entro il 2030, l'1% in più di quanto inizialmente proposto dalla Commissione Europea. L'accordo prevede inoltre che tutti i ricavi generati dal mercato del carbonio "dovranno" essere spesi per azioni a favore del clima.
I certificati di CO2 gratuiti, concessi all'industria per rimanere competitiva nei confronti dei rivali esterni all’Unione, saranno completamente eliminati entro il 2034, otto anni dopo l’entrata in vigore del meccanismo di adeguamento del carbonio alle frontiere (CBAM), un meccanismo di tassazione sulle importazioni di alcuni prodotti (come cemento, alluminio, fertilizzanti, produzione di energia elettrica, idrogeno, ferro e acciaio) provenienti da paesi che non hanno gli stessi standard ambientali dell’UE. [Continua a leggere qui]
Agenzia Internazionale dell’Energia: “Quest’anno il consumo globale di carbone raggiungerà i suoi massimi storici”
Un nuovo rapporto dell'Agenzia Internazionale per l'Energia (IEA) mostra che il consumo globale di carbone è destinato a salire ai massimi storici nel 2022 e a rimanere a livelli simili nei prossimi anni se non ci saranno fatti sforzi maggiori per passare a un'economia a basse emissioni di carbonio. La IEA prevede che il consumo globale del carbone aumenterà dell'1,2% nel 2022, superando per la prima volta gli 8 miliardi di tonnellate in un solo anno e il precedente record stabilito nel 2013. Prevede inoltre che il consumo di carbone rimarrà stabile a questo livello fino al 2025. [Continua a leggere qui]
“Come faremo a vivere?” Le storie delle famiglie di contadini del Congo espropriate dei loro terreni per far posto al progetto di compensazione della Total
Tra le azioni messe in campo per contrastare il cambiamento climatico, paesi e aziende energetiche possono compensare le proprie emissioni di carbonio attraverso progetti di compensazione, come ad esempio, la piantumazioni di terreni in quei paesi che meno emettono ma che sono più esposti agli effetti della crisi climatica. Tuttavia, queste azioni possono portare alle espropriazione dei terreni e avere effetti devastanti sulle comunità locali.
È quanto sta accadendo, ad esempio, in Congo, dove un progetto di compensazione del gigante petrolifero TotalEnergies sta mettendo in crisi i contadini locali, espropriati dei loro campi per permettere la piantumazione di alberi su una superficie di 40.000 ettari e la realizzazione della Forest Neutral Congo (FNC).
“Da quando questo progetto è arrivato qui, non lavoriamo più. Con nipoti e figli, come faremo a vivere?, si chiede Pulchérie Amboula, la cui economia ruota intorno alla coltivazione di terreni ereditati dal padre, sugli altopiani di Batéké, una vasta savana ondulata nella Repubblica del Congo. Amboula coltiva la manioca, e produce e vende il foufou, un alimento base della regione. “I ragazzi non studieranno più. Non abbiamo più campi, come faremo a pagare i loro studi? Se ci ammaleremo, dove troveremo i soldi per curarci? Mi sento come se queste persone fossero venute a ucciderci nella nostra stessa terra”.
Secondo il progetto di Total, gli alberi di acacia piantati sui 40mila ettari di terreno consentiranno il sequestro di oltre dieci milioni di tonnellate di CO2 in 20 anni. Le prime piantumazioni sono iniziate circa un anno fa. Il progetto genererà crediti di carbonio che Total utilizzerà per compensare alcune delle proprie emissioni. Ma il progetto, come testimoniato da Pulchérie Amboula in un’inchiesta di SourceMaterial e Unearthed, sta avendo un costo elevato per le famiglie degli altopiani di Batéké che hanno vissuto di queste terre per generazioni. [Continua a leggere qui]
Con il cambiamento climatico la Svezia è diventata uno straordinario territorio vitivinicolo
Nella maggior parte dell'emisfero settentrionale, la vendemmia è terminata mesi fa. Ma in Svezia, con temperature di -8°C e 15 cm di neve, è appena iniziata. Con l’aumento delle temperature e fino a 23 ore di sole estivo per la maturazione di varietà vitivinicole innovative, le aziende vinicole svedesi sono in piena espansione. Pur essendo relativamente piccoli (150 ettari), i vigneti svedesi sono cresciuti del 50% negli ultimi due anni ed entro cinque anni si prevede che saranno più che raddoppiati. A lungo termine, si stima che possano crescere fino a 10.000 ettari e diventare una nuova industria da un miliardo di euro. [Continua a leggere qui]
Immagine in anteprima via UNEP