Legge di bilancio: nei piani del governo la salute conta pochissimo
4 min letturaEra necessario, lo sappiamo da tempo ma la pandemia l’ha reso proprio eclatante, un deciso cambio di passo. Tra le tante conseguenze dei due anni di Covid, una delle più ovvie era quella associata alla necessità di rivedere, rafforzare, migliorare la capacità del nostro Sistema sanitario nazionale (SSN) di far fronte a situazioni di emergenza e, in generale, di rispondere alle aspettative e necessità di gestione della salute pubblica che si presentano oggi ben diverse e molto più articolate rispetto al passato. Intendiamoci, il Sistema sanitario nazionale italiano, l’SSN, nato con la legge 833 del 24 dicembre 1978, rimane uno dei migliori al mondo. Per i valori che l’hanno ispirato, quelli contenuti nell’articolo 32 della Costituzione che parla di “diritto fondamentale dell’individuo e interesse della collettività”, e anche per gli esiti complessivi, dato che per molto tempo l’Italia è stata, e rimane, uno dei paesi al mondo con gli indici di salute più alti e l’aspettativa di vita più lunga. Però oggi è piuttosto ineluttabile la constatazione di trovarci di fronte, sempre più, a un diritto negato, come hanno titolato diversi articoli e libri usciti negli ultimi anni e mesi, che sottolineano tutte le debolezze del nostro SSN, dalle grandi disparità di trattamento alle lunghe attese per avere una prestazione e molto altro, su cui sarebbe urgente intervenire e che invece sembrano sempre messe in secondo piano rispetto alla necessità di contenere o ridurre la spesa.
Si sperava, tutti speravamo, che i fondi associati al PNRR potessero fare la differenza. Ma il PNRR va attuato di pari passo con le scelte governative, come quelle che stanno prendendo forma nella legge di bilancio in discussione in questi giorni, per esempio. E purtroppo, da quello che possiamo capire in questi giorni, pare che la grande ristrutturazione rimarrà nelle carte, nelle prospettive, nelle promesse. Perché non c’è, nemmeno in questa manovra, un vero impegno verso finanziamenti seri che possano invertire l’attuale tendenza al ribasso e al decadimento del Ssn. Anzi, la spinta ulteriore verso le autonomie regionali e l’idea, abbozzata in un ddl a firma del Ministro per gli Affari regionali, Roberto Calderoli, di far rientrare l’intera gestione della sanità sotto il controllo regionale va in controtendenza rispetto a tutte le indicazioni e gli insegnamenti raccolti durante l’emergenza pandemica. La regionalizzazione della sanità è esattamente uno dei problemi chiave, è la causa alla base di enormi disparità e che, a parte poche eccezioni, ha prodotto inefficienze e disservizi. E non solo nelle regioni tradizionalmente considerate meno efficienti dal punto di vista sanitario. Le conseguenze dell’abbandono della medicina territoriale in Lombardia, dovuto alla spinta decisa verso la privatizzazione dell’assistenza sanitaria, sono state sotto gli occhi di tutti durante la pandemia, inequivocabili e difficili da confutare.
Nei giorni scorsi sono apparse diverse critiche al testo della legge di bilancio attualmente approvato dal consiglio dei ministri e inviato per la discussione alle camere. Sul sito del PD si leggono critiche più o meno puntuali, e l’annuncio di una manifestazione per il 17 dicembre contro la manovra, con riferimento esplicito alla questione della spesa sanitaria. Protestano anche le associazioni di categoria del comparto sanitario che hanno manifestato il 15 dicembre. L’ex ministra della salute Beatrice Lorenzin ha esplicitamente fatto riferimento al fondo di gestione della sanità scrivendo che “Senza l’aumento del fondo [sanitario nazionale - nda], i prossimi anni saranno critici per servizio sanitario nazionale. La risposta non è il Calderoli, ma l’aumento del fondo per coprire i costi Covid delle regioni e lo sblocco dei livelli elementari di assistenza in conferenza stato regioni. Se non si risolve la questione dei salari e non si affrontano le prospettive degli operatori della sanità, rischiamo che ai pensionati non solo non si da respiro economico ma neanche le cure essenziali e l’assistenza domiciliare”.
Nei giorni scorsi, qui su Valigia Blu, Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe, ha riassunto quali sono i passaggi ritenuti necessari per rimettere in pista il nostro servizio sanitario. Un report della stessa fondazione pubblicato nel 2019, definiva il SSN “un paziente cronico con multimorbidità, diagnosticando quattro principali “patologie” che ne compromettevano lo “stato di salute”: l’imponente definanziamento pubblico di circa € 37 miliardi (ben dettagliato nel report con dati e grafici) nel decennio 2010-2019; l’incompiuta del DPCM sui nuovi Livelli Essenziali di Assistenza (LEA) che aveva ampliato prestazioni e servizi a carico del SSN senza la necessaria copertura finanziaria; gli sprechi e le inefficienze a livello politico, organizzativo, professionale; l’espansione incontrollata dell’intermediazione assicurativo-finanziaria”.
Diamo un po’ di numeri - come sta la sanità italiana
Lunedì 5 dicembre, l’OCSE ha pubblicato il suo rapporto periodico Health at a glance: Europe 2022, con una serie di dati al 2020 che consentono di fare confronti tra l’Italia e gli altri paesi europei. È utile guardare un po’ indietro e anche un po’ al di fuori dell’Italia per capire alcune delle problematiche che stiamo fronteggiando oggi perché in sanità, come in altri sistemi complessi della gestione pubblica, non si può improvvisare. E quando si sono ridotte le risorse e gli investimenti e non si è investito nelle competenze necessarie, poi per riprendersi e rimettersi in campo ci vogliono anni di lavoro, programmazione e nuovi investimenti. Che al momento, almeno sul fronte politico, paiono latitare.
Prima di operare qualsiasi confronto, è importante chiarire che la spesa sanitaria è composta in modo abbastanza differenziato a seconda dei paesi. La gran parte dei paesi europei vede un sistema misto pubblico-privato, per esempio anche attraverso la messa in campo di assicurazioni sanitarie obbligatorie per i propri cittadini e, dunque, i dati vanno presi come indicazioni e non come termini di confronto assoluto. In Svezia e Danimarca, come nel nostro paese, la copertura sanitaria è quasi totalmente pubblica, con percentuali di copertura che vanno oltre l’80-85%. In paesi come la Francia, la Germania, l’Olanda, i tre quarti della spesa sanitaria sono coperti da assicurazioni obbligatorie. È importante anche, nell’operare confronti, ricordare che il costo di una prestazione all’interno di una struttura pubblica può avere un costo più basso rispetto a una struttura privata, anche per i costi aggiuntivi dovuti al ruolo di diversi attori e intermediari, come ad esempio le assicurazioni e altri soggetti for profit. L’aumento di spesa dovuto alla pandemia è stato poi, in quasi tutti i paesi europei, assorbito e gestito da fondi pubblici.
Fatte tutte le premesse del caso, dunque, andiamo a vedere quanto spendono i paesi in sanità. In termini di spesa procapite annua totale (che include dunque spesa pubblica e privata), noi siamo ben al di sotto della media europea (grafico qui sotto). Dalla Svizzera, che spende quasi 5.000 euro a persona, alla Germania, subito sotto, alla Svezia e Danimarca, attorno ai 4.000, si scende fino alla media dell’Unione Europea (inclusi qui anche paesi associati, come appunto Svizzera e Norvegia) che è 3.100. In Italia, siamo a 2.600.
Dopo la crisi finanziaria del 2008-2010, per molti paesi c’è stato un rilancio della spesa sanitaria e la spesa pro-capite è cresciuta dal 2013 al 2020 in molti paesi, soprattutto in quelli che partivano da sistemi sanitari non ancora molto strutturati e supportati. In Italia questo incremento di spesa annuo non c’è stato e siamo dunque rimasti attorno o addirittura al di sotto del tasso di inflazione.
Uno dei dati che più dice delle scelte politiche in materia di investimenti è quanto si decide di spendere in relazione al PIL del paese. Anche questo parametro evidenzia molto bene le scelte di basso investimento del nostro paese nel comparto sanità. L’Italia spende circa il 9,6% del proprio PIL in sanità (sempre dati 2020) rispetto a percentuali ben più alte, a due cifre, di Germania, Francia, Austria, Belgio. In termini di investimento pubblico noi siamo poco sopra il 7%. Aggiungiamo che l’importo totale della spesa dipende anche da quanto consistente o meno sia il PIL stesso. E dunque se a prima vista da questo grafico si potrebbe erroneamente immaginare che la Finlandia spenda addirittura un po’ meno dell’Italia, in realtà in proporzione il PIL finlandese è ben più ricco e dunque anche la sua spesa sanitaria complessiva e procapite è più consistente rispetto alla nostra (circa 300 miliardi di dollari su una popolazione di 5,5 milioni di abitanti in Finlandia, contro i 2100 miliardi di dollari italiani su una popolazione di 59 milioni di abitanti).
Un dato interessante, che dice qualcosa della politica sanitaria adottata nel tempo, è quanto un paese decide di spendere in prevenzione. In questo caso, più unico che raro ma significativo e indicativo delle scelte operate nei decenni scorsi, l’Italia è tra i paesi che spendono di più in prevenzione rispetto ad altri, in termini di percentuale sulla spesa complessiva.
Con un focus sulla questione dei numeri di medici e infermieri, e sulle loro remunerazioni, il rapporto OCSE permette di entrare anche nel vivo di una delle questioni più discusse in Italia, e cioè la congruenza del personale sanitario rispetto alle esigenze. Il dato chiave, in tutti i discorsi sulla sanità degli ultimi anni, è la carenza di medici e di personale sanitario rispetto alle necessità. Il numero di medici è aumentato in tutta Europa dal 2010 al 2020 (da 1,5 milioni a 1,8). La media europea, che nello scorso decennio era di 3,4 dottori per 1000 abitanti, è arrivata nel 2020 a 4 dottori. Però mentre Austria, Spagna, Germania, Norvegia sono passati da meno di 4 medici per 1000 abitanti a quasi 5, noi siamo rimasti fermi sullo stesso numero nel corso del decennio. E, come vedremo, siamo in difficoltà a fare il ricambio necessario.
All’interno della carenza di medici, forse l’elemento più preoccupante in tutta Europa e anche in Italia è il numero ridotto e in calo dei medici di medicina generale, che svolgono un ruolo centrale nel presidio territoriale e nel rapporto diretto con i pazienti al di fuori dell’ambito ospedaliero. Nella media europea, un medico su cinque è di medicina generale. Alcuni paesi hanno messo in campo precise contromisure per migliorare questo rapporto. In Francia, ad esempio, dove il tasso medici/popolazione è tra i più bassi del continente, con circa 3 dottori per 1000 abitanti, dal 2017 il 40% di tutti i posti di formazione specialistica post-laurea sono stati dedicati a medici di medicina generale, riuscendo a portare il dato a quasi 3 medici di base su 10. Ma in generale, un po’ ovunque, si rileva la difficoltà a convincere i futuri medici ad abbracciare questa specializzazione, ritenuta meno prestigiosa e meno riconosciuta rispetto ad altre specializzazioni mediche. L’unico paese che fa davvero eccezione è il Portogallo, con ben quasi la metà dei medici specializzati in medicina generale.
In Italia, il dato è in linea con quello europeo. C’è anche la marcata differenza, come pure negli altri paesi, tra la densità e disponibilità di medici nelle aree urbane e quella in zone rurali. Un dato che in un paese come il nostro, che ha una parte consistente della popolazione che vive al di fuori delle grandi città (35% in zone rurali e 40% in piccole città e centri di dimensione ridotta), è chiaramente preoccupante.
Il dato più sorprendente è il numero molto significativamente diverso, nel nostro paese, di infermieri. Nella media europea ci sono 8,3 infermieri per 1000 abitanti. In Francia, Germania, Belgio, Finlandia, Olanda, si arriva al di sopra di 10-12 per 1000 persone. In Italia è di 6. Se poi andiamo a vedere il rapporto tra dottori e infermieri, passiamo da 4 infermieri per ciascun dottore in molti paesi europei a 1,6 nel nostro.
E dunque, se negli altri paesi europei, in media, c’è stato un aumento sostanziale del personale medico negli ultimi anni, in Italia no. E anzi, come ben sappiamo dalle stime che vengono dalle rilevazioni e studi predisposti dalle associazioni sindacali di categoria come la ANAOO ASSOMED e la CIMO FESMED e la FNOMCeo (federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri), dati che sono stati ripresi anche dal ministro per la salute Orazio Schillaci in audizione alla Commissione Sanità del Senato il 6 dicembre scorso, attualmente in Italia mancano oltre 29mila professionisti (tra cui 4.500 nei pronto soccorso, 10mila nei reparti ospedalieri, 6.000 medici di medicina generale).
Un altro punto molto debole della situazione italiana è quello che riguarda la remunerazione. I dati OCSE (in questo caso espressi in dollari) indicano che in media, nei paesi europei, i medici di medicina generale guadagnano da 2 a 4 volte di più rispetto al salario medio degli altri lavoratori, e gli specialisti da 2 a 5 volte di più. In Italia, questo dato si aggira su circa 3 volte il salario medio. Nello specifico, i dati OCSE indicano che, a parità di potere d’acquisto, i medici italiani guadagnano in media (con differenze anche marcate tra medici di base, specialisti, ospedalieri, etc) 110mila dollari lordi l’anno, contro i 187mila dei colleghi tedeschi, i 190mila degli olandesi, i 155mila dei britannici, i 140mila dei belgi. Simili a noi sono gli spagnoli, e messi peggio, come spesso accade nelle graduatorie di questo tipo, i greci e gli ungheresi, che stanno tra i 60 e i 68mila dollari. Grande disparità anche nei salari degli infermieri, che in Italia sono in media attorno ai 30mila dollari lordi l’anno, mentre in molti paesi europei arrivano a cifre doppie.
I dati OCSE entrano anche in un recente rapporto specifico dedicato al personale sanitario, presentato al Parlamento italiano lo scorso ottobre da Agenas, l’Agenzia regionale per i servizi sanitari regionali. Agenas va più nel dettaglio scattando una fotografia che ben racconta chi sono i lavoratori attuali del comparto sanitario italiano. Nel 2020, i dipendenti del SSN erano poco più di 617mila persone, di cui quasi 7 su 10 donne e 3 su 10 uomini. Rispetto all’anno prima c’erano 13.600 lavoratori in più. Oltre il 70% dei lavoratori svolge un ruolo sanitario vero e proprio, poco meno del 20% è composto da tecnici e circa il 10% da amministrativi. Focalizzandoci solo sui sanitari in senso stretto, gli infermieri sono il 60%, i medici e gli odontoiatri il 23% e altri professionisti con mansioni complementari sono al 18%.
Il punto più dolente evidenziato dal rapporto Agenas è la cosiddetta “gobba pensionistica”, pienamente in linea con i già citati dati delle associazioni sindacali e di professione. Nel corso del decennio 2010-2019 il blocco delle assunzioni e i vincoli di spesa imposti alle regioni italiane hanno di fatto bloccato il turnover del personale sanitario, come di altri comparti. Così, dice Agenas, a fine 2018 c’erano già circa 25mila lavoratori in meno rispetto al 2012 e addirittura 40mila in meno rispetto al 2008. Tra il 2012 e il 2017 il totale del personale del comparto sanitario è passato da 653mila a 626mila persone. E ora dovremo affrontare un periodo in cui i pensionamenti saranno imponenti, con circa 30mila medici e poco più di 20mila infermieri che lasceranno il SSN nei prossimi 5 anni. A questi dati, vanno aggiunti gli 8mila medici che, secondo le stime del sindacato medico Anaao-Assomed, hanno dato le proprie dimissioni volontarie nel corso degli ultimi due anni perché le condizioni di lavoro e la remunerazione non sono accettabili.
Per compensare solo in parte questo calo e le necessità del settore, le aziende sanitarie hanno iniziato a ricorrere a personale “con un profilo di impiego flessibile”, per esempio medici assunti tramite cooperative, aumentato di 11.500 unità nel corso del decennio passato. Durante la pandemia, sono state più di 60mila le persone assunte con contratti a tempo determinato o flessibili per fronteggiare l’emergenza.
Le indicazioni di Agenas sono chiare. Come stanno facendo altri paesi, sarebbe utile implementare “ruoli più avanzati” per gli infermieri sia in ospedale sia nelle cure primarie. Esperienze relative alle cure primarie in Finlandia, Irlanda e Gran Bretagna dimostrano che gli infermieri professionali possono migliorare significativamente l’accesso alle cure per molti pazienti, riducendo i tempi di attesa, soprattutto nel caso di malattie minori e di controlli di routine. In questa direzione va anche la ristrutturazione già prevista della medicina territoriale, rafforzata dal PNRR, che vede un ruolo molto importante degli infermieri nelle Case e Ospedali di comunità. E dunque, secondo Agenas, il fabbisogno di infermieri nei prossimi anni sarà pari a un numero tra i 20mila e i 27mila infermieri. Le assunzioni di personale sanitario, sia di medici che di infermieri, sono coperte da diversi decreti legge e misure approvate negli ultimi anni ma è indiscutibile che sia necessario ora anche un esplicito e consistente impegno da parte governativa attraverso gli impegni previsti nella manovra di bilancio. Le risorse previste dal PNRR non sono infatti destinate ad aumentare il personale sanitario, tranne che per un aumento del numero di borse di specializzazione.
Le risorse del PNRR per la sanità
Anche se i mali della sanità, come si evince dai dati, sono responsabilità di un disinvestimento e di una disattenzione di lungo periodo, non c’è dubbio che i fondi in arrivo tramite il PNRR, associati a una politica coraggiosa, potrebbero fare la differenza. In particolare, se non al personale, questi fondi sono dedicati al rafforzamento della medicina del territorio, uno dei punti più deboli emersi durante la pandemia, e alla ricerca scientifica.
La missione 6 del PNRR, nella sua versione più aggiornata e disponibile online, prevede investimenti nel campo della salute per un totale di 15,6 miliardi, l’8,16% del totale del Piano totale. La destinazione di questi fondi va in due direzioni specifiche: il rafforzamento della medicina territoriale e l’innovazione, la ricerca e la digitalizzazione del servizio sanitario nazionale.
La prima, pari a 7 miliardi, è quella del rafforzamento della medicina territoriale attraverso la costruzione di una serie di strutture di prossimità, una rete di telemedicina e di assistenza sanitaria territoriale. In particolare si cita la necessità di potenziare o creare ex novo, dove non sussiste, una rete di Case della comunità e di Ospedali di comunità, anche per rispondere all’attuale situazione di profonda disomogeneità nei livelli e nella qualità dell’assistenza sanitaria a seconda delle regioni e dei luoghi di residenza delle persone e per sgravare il carico degli ospedali, che oggi in molto luoghi finiscono con lo svolgere anche ruoli di cura ordinaria e non urgente e che non richiede alte specializzazioni. La misura ha portato all’approvazione il 23 maggio scorso di un Regolamento recante la definizione di modelli e standard per lo sviluppo dell'assistenza territoriale nel Servizio sanitario nazionale. Qui ci sono indicazioni di spesa precise dall’anno corrente (90 milioni di euro) fino al 2026 (con cifre crescenti ogni anno, fino a 1.015,3 milioni di euro). Si progetta di costruire una Casa di comunità ogni 40-50mila abitanti, per l’erogazione di diversi interventi sanitari di base. Ogni Casa dovrebbe avere 7-11 infermieri, 1 assistente sociale, 5-8 unità di personale di supporto sociosanitario e amministrativo. Entro il 2026 dovrebbero esserci 1288 Case in tutto il paese, per un costo totale stimato di circa 2 miliardi di euro. Se il progetto Case non è nuovo (il primo risale all’inizio di questo secolo), oggi ce ne sono ancora poche: la regione che ne ha di più è l’Emilia-Romagna con 124; più di una settantina sono state costituite in Veneto, Toscana, Piemonte e alcune decine in altre regioni mentre ci sono regioni, tra cui la Lombardia, Valle d’Aosta, il Friuli Venezia Giulia, l’Abruzzo, la Puglia e la Campania, dove sono programmate ma non attive. Sono poi previste delle Centrali operative territoriali (COT), una ogni 100mila abitanti, che fanno da raccordo tra i servizi e i professionisti dei diversi settori di assistenza, e delle Unità di continuità assistenziale, anche queste 1 ogni 100mila abitanti. Infine, il PNRR e il Regolamento prevedono degli Ospedali di comunità, “strutture sanitarie della rete territoriale a ricovero breve” per interventi a media/bassa intensità clinica e degenze di breve durata, a gestione prevalentemente infermieristica. Il PNRR prevede la messa a punto di 381 ospedali di questo tipo. Grazie anche a una rete più efficiente di telemedicina, queste strutture potrebbero lavorare in modo integrato garantendo livelli di assistenza adeguati su tutto il territorio.
La seconda misura, con 8,63 miliardi, ha come obiettivo principale l’innovazione, la ricerca e la digitalizzazione del servizio sanitario nazionale. Si parla esplicitamente di rinnovamento delle strutture tecnologiche e digitali esistenti, del completamento del Fascicolo Elettronico, di una migliore capacità di erogazione e monitoraggio dei livelli essenziali di assistenza, i LEA, anche grazie a sistemi informativi più efficaci. Una delle tante incongruenze, a essere gentili, evidenziata dalla pandemia è stata in effetti la completa discrepanza della capacità di raccolta e monitoraggio dei dati, e di conseguenza anche della gestione dei flussi di emergenza, ricoveri, occupazione dei posti di terapia intensiva, erogazione di altre prestazioni, da una regione all’altra. Tale è stato il disastro della gestione informatica dei dati che ci sono state molte inchieste e iniziative per migliorare la situazione. Una su tutte, citiamo la petizione e iniziativa Dati bene comune, dell’associazione OnData.
Sul fronte del personale, l’unica misura prevista dal PNRR è l’assegnazione alle regioni di fondi per 900 borse di studio aggiuntive per corsi specifici in medicina generale di durata triennale (per un totale di 2700 borse di studio). In totale dovrebbero essere 4200 i contratti di specializzazione aggiuntivi a partire dal 2020.
OK il PNRR, ma quanto conta la salute nei piani del governo?
Pochissimo, se guardiamo alla legge di bilancio in discussione in questi giorni. Una manciata di articoli e pochi investimenti aggiuntivi. Le misure per la sanità sono al Titolo VI della legge presentata al Parlamento, con 5 articoli, dal 93 al 97. Ci sono stanziamenti per il piano contro l’antimicrobico-resistenza, un incremento dei fondi destinati ai vaccini anti SARS-CoV-2 (pari a 650 milioni di euro per il 2023) e ai farmaci per la cura dei pazienti COVID-19. C’è il riconoscimento di una remunerazione aggiuntiva in favore delle farmacie per il rimborso dei farmaci erogati in regime di SSN, fino a 150 milioni di euro per anno, dal 2023. Ai finanziamenti complessivi per il sistema sanitario e per il personale sono dedicati due articoli. Per il personale operante nei servizi di pronto soccorso è previsto un incremento pari a 200 milioni di euro annui, ma solo a partire dal 1 gennaio 2024 (60 per la dirigenza medica e 140 per il personale). Nella sua audizione, il ministro Schillaci si è impegnato a riportare questo investimento nel 2023, ma per ora chiaramente l’indicazione della legge di bilancio è questa. Per il finanziamento del SSN è previsto poi un incremento di 2,15 miliardi di euro per il 2023 (di cui però 1,4 sono dedicati ai maggiori costi energetici), di 2,3 per il 2024 e di 2,6 per il 2025, rispetto allo standard attuali di spesa.
Molto discussa è l’unica indicazione concreta, contenuta in uno degli emendamenti alla legge di bilancio proposto dalla maggioranza stessa che, per contrastare l’insufficienza dei numeri di personale sanitario, apre alla possibilità di mantenere in ruolo, su base volontaria, anche i medici universitari e ospedalieri in via di pensionamento per altri due anni, fino ai 72 anni. La reazione dell’associazione Anaao Assomed, come di altre associazioni di categoria, è stata molto dura per voce del suo segretario nazionale Pierino Di Silverio, che ritiene questa proposta una offesa a tutta la categoria su cui si dovrebbero investire quelle risorse. “Non solo – spiega Di Silverio - perchè non risponde all’obiettivo dichiarato di sopperire alla cronica carenza di medici, che richiede misure che il Governo conosce ma non vuole applicare, ma anche perchè pone in essere metodologie inconcepibili di reclutamento rappresentando una beffa rispetto al grido di auto che proviene ormai da tempo da tutto il mondo sanitario”, si legge nel comunicato dell’associazione. Questa proposta, dicono da Anaao Assomed, non riduce il problema delle liste d’attesa troppo lunghe, non riduce il ricorso alle cooperative per il lavoro notturno e festivo e addirittura produce “un congelamento delle carriere e delle assunzioni con un danno consistente per le donne e i giovani, proprio in un momento in cui l’incremento del numero di contratti di formazione specialistica ha aumentato la disponibilità di specialisti”.
Le risorse previste dal PNRR sono molto importanti per la modernizzazione strutturale del nostro SSN, secondo quanto afferma la Fondazione Gimbe nel già citato articolo qui su Valigia Blu, che sollecita infatti il governo italiano a non perdere l’occasione e anzi a rilanciare, investendo risorse in sanità, per attuare un vero e proprio piano di rilancio e di riforme necessarie. Ma così com’è la legge di bilancio non predispone “le adeguate contromisure per fronteggiare le criticità che ostacolano l’attuazione del PNRR” che sono molteplici. Gimbe propone di attuare una rigorosa governance dei 21 servizi sanitari regionali per ridurre le disuguaglianze di trattamento. E cita naturalmente gli altri punti deboli: la carenza di personale, l’eterogeneità delle modalità contrattuali sul territorio nazionale, la necessità di migliorare la formazione del personale medico-sanitario e la digitalizzazione di tutto il sistema. Il rischio è quello, sottolinea la Fondazione, di non riuscire a rispettare le scadenze imposte dall’Europa e dunque di non poter utilizzare i fondi previsti.
Più drastica e sconsolata al tempo stesso Daniela Minerva, giornalista che segue da molti anni il sistema sanitario, raccontandone puntualmente gli andamenti, scriveva il 1 dicembre scorso su Repubblica “Possiamo ancora dire che il mandato costituzionale è rispettato?” La riflessione di Minerva prende il via dal valore altissimo del SSN, “straordinario strumento di solidarietà collettiva e simbolo stesso della coesione sociale”. Ma atterra e conclude sul definanziamento, sulle disparità regionali e sulla mancata programmazione sostenibile rispetto al ricambio del personale sanitario, su una domanda che facciamo anche nostra “Proviamo a chiederci: anche se ci fossero i medici, ospedali e asl senza soldi come li arruolerebbero?”.
Immagine in anteprima: Alberto Giuliani, CC BY-SA 4.0, via Wikimedia Commons