La lotta dei dissidenti e l’appello per la solidarietà ai difensori dei diritti umani nella Bielorussia di Lukašenka
9 min letturaNonostante la continua e brutale repressione del dissenso, il duro regime del presidente bielorusso Aljaksandr Lukašenka non è riuscito a sedare il movimento di opposizione pacifico emerso più di due anni fa dopo le elezioni presidenziali “farsa” dell’agosto 2020. Al contrario, per molti versi, l’opposizione democratica, resistendo al terrore e agli arresti di massa, è diventata una minaccia sempre maggiore per il regime, soprattutto a seguito dell’invasione russa dell’Ucraina dello scorso 24 febbraio. Con l’infuriare della guerra, infatti, la stabilità di facciata della Repubblica di Belarus’ si è incrinata sempre di più, aprendo un vaso di Pandora per un regime che è praticamente considerato - almeno in Occidente - un’ala remota del Cremlino.
“Capisco che la gente pensi che la rivoluzione sia finita, ma non è così. Vediamo la resistenza e ci sono molti sviluppi e iniziative interessanti all’interno del paese. Ci sono molte persone che hanno cercato di fermare il movimento delle truppe russe o che hanno protestato in qualche altro modo. Vengono incarcerati e le ripercussioni sono molto dure”, sostiene la giornalista bielorussa emigrata nel 2020 Hanna Liubakova proprio nel giorno in cui le autorità bielorusse hanno ufficialmente aggiunto alla lista dei simboli nazisti fuorilegge lo storico slogan patriottico Žyve Belarus’ (Viva la Belarus’), ampiamente utilizzato da attivisti e politici dell’opposizione negli ultimi due anni a questa parte. Il 10 novembre, infatti, le autorità hanno dichiarato che lo slogan era usato dai bielorussi che hanno collaborato con la Germania nazista negli anni Quaranta, nonostante, secondo gli storici, il saluto sia stato introdotto nel 1905-1907 da Janka Kupala, noto poeta e scrittore bielorusso. La leader dell’opposizione in esilio, Svjatlana Cichanoŭskaja, ha definito la mossa governativa come l’ennesimo attacco all’identità bielorussa, mentre l’organizzazione non governativa Viasna prevede già altre centinaia di casi di violazione dei diritti umani in arrivo.
Da quel 9 agosto 2020 è chiaro che i bielorussi non torneranno più alla passività di prima: “Siamo tutti cambiati, e per sempre”, ha scritto dal carcere Maryja Kalesnikava, uno dei volti femminili delle proteste bielorusse insieme a Veranika Capkala e Svjatlana Cichanoŭskaja, lo scorso agosto in occasione del secondo anniversario delle proteste.
Maryja Kalesnikava non molla
La leader dell’opposizione Maryja Kalesnikava, arrestata l’8 settembre 2020 e processata a porte chiuse per “istigazione ad azioni volte a danneggiare la sicurezza nazionale” ed “estremismo” e condannata a 11 anni di carcere, sta bene e si trova attualmente nel centro medico della colonia femminile di Homel’, dov’è detenuta da oltre 25 mesi. Lunedì 28 novembre è stata portata via in ambulanza dalla colonia femminile e ricoverata d’urgenza prima nel reparto di prima chirurgia e successivamente in quello di terapia intensiva, il tutto all’insaputa dell’avvocato Vladimir Pyl’čenko (la cui licenza per esercitare la sua professione è ad alto rischio) e dei suoi familiari, come comunicato tempestivamente dall’ufficio dell’oppositore Viktar Babaryka nel suo canale Telegram. Solo a distanza di qualche giorno è stato possibile avere qualche informazione in più sulle condizioni della prigioniera politica: secondo i medici, con cui il padre ha comunicato per giorni esclusivamente in presenza di funzionari del ministero degli Interni, l’operazione chirurgica all’ulcera perforata di Kalesnikava è andata bene e le condizioni della paziente stanno migliorando, tanto che la paziente domenica scorsa è uscita dall’ospedale e riceverà le cure necessarie per i prossimi dieci giorni nel centro medico della prigione. Finalmente, ha anche potuto riabbracciare il padre per una decina di minuti.
Il peggio sembra quindi essere passato, ma Maryja e i suoi cari hanno vissuto giorni da incubo. Le visite in ospedale non erano permesse, la paziente era sorvegliata da tre uomini: uno, armato, vicino alla porta del reparto e altri due all’interno; sempre secondo l’ufficio di Babaryka, l’unica a conoscere la diagnosi era la stessa Maryja e ancora non è chiaro quando e perché si sia sentita male poiché all’avvocato non è stato permesso vedere la sua cliente per quasi due settimane, dal 17 novembre. I sospetti, tuttavia, non mancano: nella prima metà di novembre l’amministrazione della colonia ha deciso di isolare Kalesnikava in una cella punitiva per “essersi trovata nel posto sbagliato durante l’orario di lavoro” ed aver avuto “comportamenti scortesi”. Il suo avvocato aveva presentato un reclamo in merito dichiarando di temere per lo stato di salute della sua cliente, ma non ha mai ricevuto risposta ai ricorsi.
Molti politici occidentali hanno prontamente reagito al ricovero di Kalesnikava, denunciando pubblicamente le politiche di repressione applicate dal regime di Lukašenka. Il portavoce del dipartimento di Stato americano Ned Price ha scritto che “il regime bielorusso è pienamente responsabile della salute e del benessere di Maryja Kalesnikava e di tutti gli altri 1.440 prigionieri politici. I responsabili saranno chiamati a risponderne”, mentre la presidente dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa (PACE) Tini Cox ha ribadito che “i politici bielorussi devono stare in parlamento e nel dibattito pubblico, non in prigione”, richiedendo così l’immediata liberazioni di tutti i prigionieri politici. Dalla Lituania, la leader dell’opposizione Svjatlana Cichanoŭskaja ha voluto commentare la notizia tramite Telegram mandando un saluto di guarigione alla sua “amica di battaglia” e un pensiero a tutte quelle le persone sono state torturate nelle carceri bielorusse negli ultimi due anni.
Un novembre buio (e al buio)
Nonostante siano trascorsi più di due anni dalle proteste, le violazioni dei diritti umani nei confronti di dissidenti e prigionieri politici non si sono allentate e le autorità continuano ad applicare attivamente procedimenti penali e amministrativi per motivi politici. Le accuse riguardano principalmente la partecipazione a riunioni pacifiche, le offese a funzionari governativi (tra cui il presidente Lukašenka), i legami con iniziative etichettate come “formazioni estremiste” e, non da ultimo, l’intenzione di unirsi alle forze armate dell’Ucraina contro il Cremlino.
Al 1° dicembre il numero di prigionieri politici è salito a 1.447, fra questi 139 nuovi nomi figurano nella lista da novembre, di cui 32 giornalisti e operatori mediatici; 440 prigionieri politici sono stati rilasciati ma solo dopo essersi dichiarati colpevoli o a seguito di procedure di grazia. Nel mese di novembre, Viasna è venuta a conoscenza di 206 casi di persecuzione amministrativa a sfondo politico, 31 persone sono state condannate a multe salatissime e 95 a brevi periodi di detenzione amministrativa.
Le condizioni delle carceri bielorusse - come accennavamo in questo precedente articolo - sono da sempre notoriamente disumane e l’aggiunta di centinaia di nuovi presunti colpevoli (ovvero i manifestanti delle proteste antigovernative) a strutture già sovraffollate non può che peggiorare le condizioni delle persone in attesa di giudizio o che stanno già scontando la loro pena. Lavoro forzato, torture, violenze, isolamento e celle punitive sono all’ordine del giorno, specie per quei detenuti che “non si piegano” e non vogliono collaborare con le autorità firmando dichiarazioni di colpevolezza o denunciando altri cittadini. A questi “prigionieri problematici e pericolosi” vengono spesso negate le visite di avvocati o familiari, non ricevono la posta né alcuna assistenza medica.
Maryja Kalesnikava non è, perciò, l’unica ad avere gravi problemi di salute nelle carceri bielorusse. Ad esempio, Maryna Adamovič, moglie dell’ex candidato alle elezioni presidenziali e prigioniero politico Mikalaj Statkevič, riferisce che il marito ha la polmonite da quando ha contratto la Covid-19, ma non riceve alcun farmaco e lo stato di salute del detenuto non viene comunicato; l’ultima sua lettera risale all’11 novembre. Il centro per i diritti umani Viasna riferisce poi di un regime severo di punizione nei confronti dell’attivista per i diritti umani Nastja Lojko: il 29 novembre è stata arrestata per la terza volta consecutiva per 15 giorni, il che significa che è detenuta da più di un mese. Come in altre occasioni, è stata punita per “piccoli atti di teppismo” con elettroshock o rimanendo fuori al gelo senza vestiti per 8 ore, come ha testimoniato di recente lei stessa in tribunale. Un altro caso intollerabile è quello del prigioniero politico Juryj Kavalëu, che avrebbe dovuto essere rilasciato a breve: accusato di aver violato alcune regole carcerarie mentre stava scontando una pena per “insulti a Lukašenka”, il Tribunale distrettuale di Vaŭkavysk ha deciso di dichiararlo pazzo e gli ha prescritto un trattamento obbligatorio in un ospedale psichiatrico. Kavalëu si trova ora isolato in ospedale contro la sua volontà, sottoposto a trattamento farmacologico involontario.
“Non è affatto necessario picchiare un uomo in prigione per ucciderlo. È sufficiente creare le condizioni per far sì che marcisca lentamente da solo”, racconta alla testata Zerkalo.io Andrej, ex prigioniero politico che ha avuto problemi con il coronavirus quando era in isolamente e ha subito diverse fasi di “trattamento” dietro le sbarre.
Altri membri del centro per i diritti umani Viasna continuano a essere detenuti in custodia cautelare con nuove accuse arbitrarie, tra cui Ales’ Bjaljacki, presidente e fondatore dell’organizzazione e vincitore del Premio Nobel per la Pace 2022 che, in attesa del processo, rischia insieme ai suoi tre colleghi fino a 12 anni di carcere per contrabbando di denaro contante ed evasione fiscale ai danni del governo. Bjaljacki si è sempre rifiutato di lasciare il paese, ritenendo che il suo dovere gli imponesse di difendere la società civile martoriata. Lo stesso vale per Marfa Rabkova, giovane coordinatrice della rete di volontari di Viasna, che è stata tra le prime a essere arrestata in piazza nel settembre 2020. Accusata di “istigare azioni volte a danneggiare la sicurezza nazionale” e “formare gruppi di estremisti”, il 6 settembre 2022 è stata condannata a 15 anni di carcere.
Non sono solo i dissidenti a finire nel mirino della repressione, ma anche i loro familiari: chiunque abbia un conoscente o parente in carcere, o che è fuggito all’estero, o che ha rilasciato interviste a giornalisti indipendenti o stranieri, può aspettarsi di ritrovarsi con la polizia che gli perquisisce casa alla ricerca di prove (droga, armi, denaro, lettere) accusandolo di crimini a lui completamente estranei. In questi casi, la cortesia delle autorità non è certo di casa: umiliano la gente comune e, spesso, si registrano anche violenze fisiche.
I processi diventano da civili a penali in un baleno e la pena di morte aleggia nell’aria dei detenuti. La rischiano anche i dissidenti, come dimostrato dal caso dei “sabotatori di treni”, quei cittadini o dipendenti delle ferrovie che, dopo lo scoppio della guerra in Ucraina, hanno iniziato a danneggiare binari, apparecchiature di segnalazione, quadri elettrici per bloccare le consegne di armi russe alle truppe e, addirittura, “impedire il trasporto di militari russi verso l’Ucraina” (come afferma il direttore della compagnia ferroviaria ucraina Ukrzaliznycja, Oleksandr Kamyšin). Sono stati prontamente etichettati dal regime bielorusso come terroristi e, di conseguenza, pericolosi per la sicurezza nazionale tanto da rientrare nella lista dei condannati a morte. “La Belarus’ è l’unico Stato in Europa e in Asia centrale che utilizza ancora la pena di morte, la punizione più crudele, inumana e degradante al mondo. Questa legge, che è contraria agli obblighi internazionali della Repubblica e che estende l’applicazione di questa punizione anche ad atti che non sono qualificabili come uccisioni intenzionali, è l’ultima dimostrazione del profondo disprezzo delle autorità bielorusse per i diritti umani”, ha dichiarato Marie Struthers, direttrice di Amnesty International per l’Europa orientale e l’Asia centrale, lo scorso maggio. A poco è servita la presenza dei membri della campagna “Difensori dei diritti umani contro la pena di morte in Belarus’” all’ottavo Congresso mondiale contro la pena di morte che si è svolto a Berlino dal 15 al 18 novembre riunendo un migliaio di partecipanti provenienti da diversi Paesi: Lukašenka, di sicuro, non se ne cura affatto.
Un debole barlume di speranza per la dissidenza bielorussa
Nel 2020, la società bielorussa ha imparato l’arte della resistenza a lungo termine e ha creato un mezzo di comunicazione libero con sede all’estero. D’altronde, in patria è dura esporsi e criticare il regime: nel periodo 2021-2022, più di 300 organizzazioni non governative sono state radiate, messe al bando o costrette ad “autoliquidarsi”.
Dopo mesi e mesi in esilio, nel secondo anniversario delle proteste, tutte le forze politiche dell’opposizione hanno finalmente raggiunto un accordo e si è formato un governo bielorusso in esilio guidato da Cichanoŭskaja. Ne fanno parte il suo ufficio che opera a Vilnius, la Direzione nazionale anti-crisi guidata da Pavel Latuška, l’iniziativa BYPOL con sede a Varsavia, i Cyber Partigiani e il reggimento Pahonia che combatte in Ucraina; il Consiglio di coordinamento, creato durante le proteste di due anni fa e di cui fa parte il premio Nobel per la Letteratura Svetlana Aleksievič, si sta trasformando in un sostituto del parlamento. Un altro fattore significativo è che il governo in esilio ha già istituito un proprio braccio armato, al quale si sono iscritti più di 200 mila bielorussi, pronti a sollevarsi contro Lukašenka alla prima occasione, anche con la forza.
Nel frattempo, il 30 novembre Svjatlana Cichanoŭskaja ha comunicato la liberazione di quasi tutti i prigionieri politici del “caso studenti” (attivisti accusati di aver organizzato le proteste studentesche nell’autunno del 2020 violando gravemente l’ordine pubblico) tra cui la sua ex rappresentante del Consiglio di Coordinamento Alana Gebremaryjam. Tuttavia, Cichanoŭskaja non manca di ricordare costantemente non solo le vittime, ma anche il coraggio dei dissidenti e dei difensori dei diritti umani che continuano a lottare in patria. A riguardo, il 10 dicembre, in occasione della Giornata dei diritti umani, Cichanoŭskaja e le organizzazioni bielorusse per i diritti umani chiedono di esprimere solidarietà ai difensori dei diritti umani bielorussi che continuano oggi a opporsi con fermezza alla crudeltà del regime di Lukašenka, documentando senza paura i crimini delle forze di polizia e difendendo gli attivisti in tribunale.
Immagine in anteprima: Maria Kolesnikova e Maxim Znak mentre attendono un'udienza nel carcere di Minsk – foto via OSCE