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In Ucraina si combatte anche contro la cultura colonialista russa

10 Dicembre 2022 13 min lettura

In Ucraina si combatte anche contro la cultura colonialista russa

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Dal 24 febbraio, diverse voci dal settore culturale ucraino chiedono ai paesi occidentali di ridurre lo spazio della cultura russa, espressione di un soft power che Mosca usa come arma di influenza fuori dai propri confini. Nel marzo scorso, l'Istituto ucraino ha inviato un appello a più di 500 rappresentanti di istituzioni partner all'estero e in Ucraina. Più di 3.800 tra giornalisti, attivisti per i diritti umani, educatori e responsabili della cultura hanno firmato una lettera aperta sull’applicazione di "sanzioni culturali" alla Russia: la cooperazione culturale non dovrebbe essere permessa, secondo gli ucraini, in seguito alla guerra.

Nei giorni scorsi, invece, in un articolo sul Guardian è stato lo stesso ministro della Cultura ucraino, Oleksandr Tkachenko, a chiedere il boicottaggio culturale. "Non stiamo chiedendo di cancellare Tchaikovsky, ma di mettere in pausa le esecuzioni delle sue opere finché la Russia non cesserà questa sanguinosa invasione".

Secondo il regista Denis Ivanov, originario del Donbas, il punto non è più essere contro Putin o meno, come nel 2014, quando

Molti artisti russi presero parte alle proteste, alcuni furono arrestati, altri volarono in Occidente. Kira Kovalenko, Anton Dolin, Yevgeny Gindilis, Alexey Medvedev e molti altri. Essi comprendono il concetto di responsabilità collettiva. La maggior parte di loro sostiene la "cancellazione" della cultura russa perché comprende che questa misura è temporanea e necessaria.

Nel presente, tuttavia, ogni nuova produzione artistica russa è impossibile senza una certa forma di supporto statale, secondo Ivanov. Questa non è una posizione solamente ucraina: secondo lo scrittore russo Mikhail Shiskhin è il regime di Putin (così come i suoi predecessori) ad aver messo sotto tiro la cultura russa nel mondo, imprigionandola tra le catene nazionaliste del russkij mir. Una cultura che non è libera è già di per sé “cancellata”, ed è innegabile che la lingua di Pushkin e Tolstoj venga ora percepita come “la lingua dei criminali di guerra e degli assassini”. Come reagire quando una statua di un poeta russo viene oggi abbattuta in Ucraina? “Mi limito a tacere e cospargermi il capo di cenere”, scrive Shishkin, i cui libri in russo hanno vinto numerosi premi letterari e sono stati tradotti in oltre trenta lingue.

Nella prospettiva di molti paesi dello spazio post-sovietico, la produzione artistica russa è stata spesso funzionale a legittimare una visione del mondo specifica, mai completamente indipendente dalla politica: è prima coincisa con l’unificazione e l’assimilazione imperiale durante l’epoca zarista e sovietica, e poi con lo sciovinismo e la dottrina del russkij mir. Dal punto di vista dei paesi occidentali, invece, l’influenza dell’arte russa è meno tangibile e rilevante: qui si guarda infatti con incomprensione alle richieste dell’Ucraina di proibire le opere e le esibizioni di artisti russi. Ciò è sia inevitabile che comprensibile, poiché la cultura russa non ha mai gravato e oppresso l’espressione di quella italiana o francese.

Secondo le voci di alcuni artisti ucraini, l’eredità dell’arte russa permette alla sua società, paralizzata nella possibilità di protesta contro il proprio regime, di godere passivamente di una presunta aura di civilizzazione e alti ideali, negando ogni responsabilità collettiva di fronte alle varie tragedie che la Russia ha causato nella propria storia. Sentir parlare di grande umanesimo russo e Dostoevskij mentre Kyiv, Mariupol e Kharkiv venivano bombardate negli stessi istanti, agli ucraini è suonata come una strumentalizzazione e una presa in giro durante le prime settimane dell’invasione.  Lo pensa anche il russo Shishkin:”Il regime ha bisogno della cultura come una maschera umana, come una mimetica da combattimento. Ecco perché Stalin aveva bisogno di Dmitrij Šostakovič e Putin di Valerij Gergiev”.

Contemporaneamente, molti ucraini hanno rifiutato di partecipare a esibizioni al fianco degli artisti russi, poiché il rischio sarebbe stato quello di creare una confusione sui livelli di empatia verso vittime e aggressori, con i due popoli posti come vittime equivalenti del regime di Putin. Come scritto da Volodymir Sheiko, direttore dell’Istituto ucraino, molte organizzazioni culturali occidentali hanno cercato di riconciliare ucraini e russi attraverso l’arte e la cultura, ma quasi nessuno ha chiesto agli ucraini se fossero pronti a questo passo, proprio mentre la guerra andava avanti solo da poche settimane. 

Un punto comune nel discorso di protesta dei lavoratori culturali ucraini è che l’egemonia russa ha sempre propagato la concezione, già dall’epoca zarista, di una cultura ucraina di rango inferiore, subordinata e quasi caricaturale rispetto a quella russa. Un’evidente impostazione coloniale, all’interno di un più ampio discorso imperialista mai rielaborato dalla società russa, dove la decostruzione dei miti imperiali non è mai avvenuta, nella comoda convinzione che la dominazione culturale russa si sia fermata con la fine dello zarismo nel 1917.

Prospettive postcoloniali

I moti di liberazione nazionale in Asia e Africa dopo la Seconda Guerra Mondiale hanno segnato l’inizio dei processi di decolonizzazione e reso quei paesi indipendenti, decenni prima del dibattito accademico sulla decolonialidad culturale posto dai paesi dall’America Latina. Trasversalmente nei movimenti di sinistra occidentali, sono state diverse le forme di supporto alla rivendicazione dell’identità dei popoli subalterni agli ex imperi europei, giunti alla fase culminante della loro cruenta parabola storica, ma le cui eredità sono rimaste per decenni (e sono ravvisabili tuttora) nelle società dei paesi post-coloniali.

In risposta alle osservazioni del politologo David Harvey sul ruolo della NATO nell’invasione russa dell’Ucraina, il professore canadese Derek Hall ha fatto notare come all’interno degli stessi ambienti di sinistra la storia dei paesi post-comunisti a partire dalla fine degli anni ‘80 sia percepita in maniera opposta rispetto ai protagonisti diretti degli eventi. Molte analisi che condividono la teoria decoloniale in altri contesti, evitano di mettere a fuoco un punto: il collasso dell’Unione Sovietica come la fine di un impero. Si ignora la percezione, diffusa in Europa orientale, della continuità storica tra Impero zarista e Unione Sovietica. Che si aderisca o meno alla nuova prospettiva storiografica dell’Europa orientale, minimizzare queste dimensioni rischia di semplificare molti dei processi avvenuti in questi paesi sotto le comode etichette di russofobia e anticomunismo.

Tuttavia, a causa di diversi pregiudizi soprattutto ideologici, si tende a inquadrare la democratizzazione dei paesi dell’Europa centro-orientale e la loro rapida adesione ai valori europei e atlantici in funzione dell’espansionismo occidentale. Nessuna soggettività è assegnata ai paesi in questione, e nessuna analisi delle motivazioni del loro rapido discostamento dal passato comunista e russificato viene compiuta. Si enfatizza l’americanizzazione dell’economia e il conservatorismo reazionario della società dei paesi post-comunisti, senza quindi compiere un’analisi delle motivazioni storiche nelle scelte di questi paesi: li si relega nel ruolo di attori passivi della Storia, ora “svenduti” all’egemonia statunitense. 

Si tratta di quel fenomeno che, già prima della guerra in Ucraina, alcuni giornalisti siriani tra cui Leila Al Shami, avevano definito come “anti-imperialismo degli idioti”: la tendenza a chiudere gli occhi su qualsiasi forma di imperialismo non occidentale, nella convinzione implicita che ogni movimento della Storia è prima di tutto frutto della scelta dell’uomo bianco occidentale, mentre le responsabilità delle altre forme di imperialismo e dominazione culturale sono sottovalutate o escluse.

Quando nel 2015 l’allora presidente ucraino Petro Poroshenko ha approvato le controverse leggi sulla decomunistizzazione (che hanno segnato un’accelerazione nelle politiche di desovietizzazione iniziate nel 1991 ma procedute a ritmi blandi, per esempio rispetto ai paesi Baltici), che sarebbero potute essere criticate per molti motivi, poche analisi provenienti da sinistra hanno saputo leggerne il senso dei processi in atto nella società ucraina a partire dalle rivolte di Majdan nel 2014, come sottolineato già allora da Slavoj Žižek. Troppe volte questi processi sono stati presentati come prova del presunto estremismo di destra antirusso nella società ucraina e delle influenze americane sulla politica del paese. Ciò ha contribuito ad alimentare la propaganda del Cremlino sull’Ucraina, che nell’idea dei russi può esistere come Stato indipendente solo come avamposto “nazista” in funzione antirussa.

In tutti i paesi post-sovietici, la storiografia e l’identità nazionale sono categorie ancora oggi in fase di costruzione, plasmabili dal dibattito accademico, libero da pochi decenni. Certamente in un tale contesto i rischi di strumentalizzazione politica sono alti ma è chiara una volontà di riattualizzare segmenti di una storia nazionale le cui grandi tragedie del Novecento non sono mai state conosciute, occultate dal comunismo. Operazione che fin dal suo inizio è stata frenetica e contraddittoria, come diversamente non poteva essere in una società che nel 2015 stava vivendo l’invasione ibrida russa nel Donbas.

Se da una parte l’ideologia imperialista di Putin affonda le sue radici nello zarismo, dall’altra un importante ruolo è svolto dalla strumentalizzazione della nostalgia per l’Urss, il cui collasso è stato definito dal presidente russo come “la più grande catastrofe geopolitica del XX secolo”. L’Ucraina indisponente che abbatte le statue comuniste e desecreta gli archivi del KGB, aprendo il dibattito pubblico su eventi la cui ricostruzione storica è sempre stata negata all’interno dell’Unione Sovietica, non può essere che essere vissuta come un nemico dalla Russia di Putin.

Desovietizzando il proprio passato, gli ucraini sono stati costretti a rinunciare a una parte importante della propria storia nella seconda metà del ‘900, dove il contributo di scienziati, artisti e sportivi ucraini è stato fra i più importanti di tutte le repubbliche sovietiche. Come scrive l’autore russo Sergej Lebedev, la Russia si è appropriata dello spazio simbolico dell’eredità sovietica, assumendolo a strumento di politica interna ed estera. Oggi, non importa se un’opera d’arte sia stata concepita da un cittadino della repubblica socialista d’Ucraina, Estonia oppure Azerbaijan. Al pubblico generalista qualsiasi di queste opere viene presentata come sovietica e, dopo il 1991, automaticamente come russa. Se ciò era tollerabile dopo il 2014, diventa insopportabile nella società ucraina del 2022.

“Cancellazione”

Putin confonde le carte quando parla di “cancel culture” verso la Russia in Occidente. Si riferisce, forse, all’episodio in cui le esibizioni a Milano e Monaco del suo amico e direttore d’orchestra Valery Gergiev furono cancellate non in virtù della nazionalità, ma per via del suo rifiuto nel condannare l’invasione decisa dal suo presidente, di cui è sostenitore. Momenti in cui artisti e opere sono stati censurati in relazione alla nazionalità russa sono stati assolutamente rari in Europa, come si è visto con la prima di Borus Godunov alla Scala di Milano. Il tema del ruolo dell’arte russa è stato invece centrale nel dibattito pubblico in Ucraina dopo l’invasione, e confondere i due contesti adottando la stessa lente di lettura per entrambi ha come unico scopo quello di banalizzare i motivi per cui gli ucraini sono costretti dagli eventi a filtrare l’arte russa dopo il 24 febbraio. Nello specifico, in nome di una visione “unificatrice” della cultura, l’accusa generica di russofobia contribuisce a riprodurre l’ennesima dinamica di equiparazione verso processi che, nella società ucraina di oggi, hanno motivazioni diverse dalla cosiddetta “cancel culture”.

Oggi in Ucraina anche opere liriche, libri e film di artisti russi non più in vita durante il collasso dell’Unione Sovietica (altri nemmeno alla sua nascita) vengono soppresse. Se è facile leggere la logica del boicottaggio verso gli artisti russi in vita per i loro legami con lo stato, la vicenda si fa assai più complessa quando la cancellazione riguarda un passato che dovrebbe essere immodificabile. Sarebbe comodo e intellettualmente pigro spiegare questi processi come motivati solamente dall’odio per gli invasori. Nel farlo spesso si considerano le decisioni ucraine come dettate da pulsioni e, al più, momentaneamente motivate dallo stress dettato dall’invasione. Si tratta dell’ennesima postura da westsplaining, come a dire: a noi i romanzi di Tolstoj e Dostoevskij sono piaciuti, gli ucraini dovrebbero capire che l’arte russa non ha alcuna attinenza con gli eventi odierni.

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Molti tra gli ucraini che combattono sul fronte oggi sono cresciuti guardando i film di Tarkovskij, hanno imparato a suonare il pianoforte con le composizioni di Tchaikovsky, sui banchi di scuola hanno letto ogni singola pagina dei masterpiece di Tolstoj e Dostoevskij. Questi nomi sono stati per decenni parte integrante dei programmi scolastici di letteratura, musica e arte nelle scuole ucraine, scavalcando per quantità gli artisti nazionali: quasi sempre la russificazione era necessaria per parlare il linguaggio delle élite, e quindi spesso era una scelta consapevole, seppur costretta, da parte degli ucraini. Durante l’epoca sovietica, grandi letterati ucraini come Taras Shevchenko e Lina Kostenko erano considerati personaggi marginali ed espressione di un folklorismo provinciale. Per altri versi, vi è stata una dinamica di appropriazione culturale fin dallo zarismo verso figure come quella di Nikolaj Gogol’, conosciuto unicamente come scrittore russo, ignorando le sue radici ucraine e le sue etnografie sulla cultura di origine, oltre al romanzo Taras Bulba che ripercorre l’esperienza dell’etmanato cosacco oggi visto dalla storiografia moderna ucraina come prima esperienza statuale. Il prototipo dell’influenza reciproca tra le due culture è diventato simbolo dell’appropriazione coloniale.

Nella librerie di chi ha vissuto la transizione dall’Unione Sovietica all’Ucraina indipendente, insieme alle opere dei pochi autori occidentali non censurati dal potere sovietico (spesso scrittori apolitici, come Jack London), si trovano libri di Pushkin, Solzhenycyn, Bulgakov, Nabokov, Majakovskij. Per chi non è stato colpito direttamente dai bombardamenti sono rimasti al loro posto anche dopo il 24 febbraio, ma per molti è difficile rimanere indifferenti nel guardarli. Forse perché molti di quei libri oggi evocano roghi innescati dai missili, lanciati da chi si arroga il diritto di avere il monopolio della lingua usata da quei grandi scrittori, e ha deciso di trattare il passato come una proprietà privata. 

Il conflitto è anche interiore

Lo storico dell’arte ucraino Illia Levchenko mostra con un esempio come l’arte diversa da quella imposta dal centro burocratico di Mosca venisse concepita durante l’Unione Sovietica. Nella regione occidentale della Transcarpazia, annessa nel 1945 dalla Cecoslovacchia, si era sviluppata una scuola di pittura. Due artisti ungheresi, Adalbert Erdeli and Yosyp Bokshay, si ispiravano nei loro dipinti a scene quotidiane, colori accessi, abbandono della prospettiva e realismo. I due si ispiravano ai quadri di Cezanne e Gaugain, e ricevettero numerose critiche positive in Europa occidentale. Ma agli occhi del regime erano colpevoli di non glorificare nelle loro opere il lavoro, così Nikita Kruschev soppresse il movimento definendolo “merda” e “opera da pederasti”. Erdeli e Bokshay furono presto accusati di cosmopolitismo e formalismo borghese, rendendo impossibile il loro lavoro.

Alcuni grandi scrittori hanno parlato del ruolo della cultura russa nei paesi dell’Europa Orientale. In “Autocrazia e guerra” (1905) Joseph Conrad scrive che in Russia “nulla può crescere e la distruzione di ogni bontà della natura umana è condizione dell’esistenza dell’anima russa stessa”. Milan Kundera, nella “Tragedia dell’Europa Centrale” (1984) parla di volontà di cancellazione della cultura ceca da parte dell’imposizione totalitaria di quella russa durante l’occupazione sovietica, e cita il giornalista ceco Havlicek: “ai russi piace definire slavo tutto ciò che è russo, in modo da poter poi definire russo tutto ciò che è slavo”.

Il filosofo di origine rumene Costica Bradatan in un articolo sul Los Angeles Review of Books usa la parola smerdyakovsimo, dal nome di Pavel Smerdyakov, il (forse) fratellastro di Ivan, Fedor e Aliosja ne I Fratelli Karamazov. Secondo Bradatan la propensione di Smerdyakov a fare del male agli altri e a sé stesso è una metafora oscura che attraversa la storia russa: “lo smerdyakovismo divampa soprattutto sotto forma di leader e istituzioni che governano attraverso il terrore; la repressione per il gusto della repressione”. L’articolo di Bradatan mette in luce i “due abissi dell’anima russa”: gli alti ideali della cultura e la violenza insensata che convivono in uno stesso spazio, nelle opere degli artisti russi così come nelle discussioni sul ruolo della cultura dopo l’invasione in Ucraina.

Secondo molte voci della cultura ucraina moderna, la matrice ideologica putiniana è solo l’ennesima fase della storia russa intrisa di soprusi del più forte sul più debole; la stessa che nel corso del Novecento ha aperto le porte alla repressione, ai gulag e all’Holodomor. In questo contesto, la produzione culturale russa mainstream si è ritrovata, per vari motivi, più spesso come contorno didascalico al totalitarismo piuttosto che porsi in una posizione di opposizione verso di esso.

Un punto sottovalutato è la devastazione interiore di ucraini che in passato hanno amato libri e film russi, e devono vedere le stesse persone o i loro discendenti (come il nipote di Tolstoj che nega l’esistenza dell’Ucraina, desidera la devastazione di Kyiv e la conquista della Polonia) esprimersi con le parole che i russi hanno usato in questi nove mesi, oltre ai precedenti otto anni.

Eppure, per quanto ciò possa provocare disappunto e frustrazione durante un’invasione così violenta, queste considerazioni non potranno mai essere assolute e all’interno dello stesso dibattito accademico riguardo la decolonizzazione della cultura ucraina dall’egemonia russa gli assunti non sono sempre chiari e lineari. Si tratta di un dibattito che richiederà anni per giungere alla maturità e delineare una visione d’insieme.

In Russia, proprio la consapevolezza e lo sguardo lucido di alcuni uomini sulla violenza circostante ha permesso di scrivere le pagine più importanti della letteratura russa e contemporaneamente segnare il passo nella ricerca di una verità storica così difficile da indagare liberamente. Ne è un esempio la cosiddetta “letteratura dei gulag” di Solzenycin, Shalamov e Grossman. Proprio quest’ultimo, in Tutto Scorre… (1970) offre una delle testimonianze più vivide e sentite dell’Holodomor degli anni ’30 in terra ucraina.

Come ha raccontato Francesca Mannocchi dopo uno dei suoi reportage in Ucraina, una parte della popolazione locale ritiene la rinuncia ai prodotti culturali russi, anche del passato, un passo “necessario, più che giusto” in tempi di guerra. Non di meno le opinioni all’interno della stessa società ucraina sono differenti: una votazione online sul sito del comune di Odessa in merito alla rimozione della statua dell’imperatrice Caterina II di Russia ha visto prevalere i favorevoli di poco (50,2%). Alcuni giovani sembrano essere indifferenti: nelle hit della canzoni più riprodotte figurano ancora molti artisti rap russi e ciò ha generato un dibattito molto polarizzato all’interno delle nuove generazioni stesse.

Come conclude anche Mikhail Shishkin nel suo lungo articolo per l’Huffington Post:

La letteratura russa deve ancora al mondo un grande romanzo. Forse sarà scritto da un giovane che ora si trova in trincea e non ha idea di essere proprio lui quello scrittore. E si chiede: Cosa ci faccio qui? Perché il mio governo mi ha mentito e tradito? Perché dobbiamo uccidere e morire qui? Perché noi russi siamo fascisti e assassini? Di chi è la colpa? Che fare?

Ascolta il podcast >> Lo sguardo oltre il confine. Conversazione con Francesca Mannocchi

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La speranza di chiunque desideri una società ucraina aperta e non reazionaria alla fine della guerra, è che queste tendenze non finiscano nel calderone del populismo e della rivendicazione fine a sé stessa. La giornalista del Guardian Charlotte Higgins, scrive che la maggior parte delle persone che ha incontrato in Ucraina ritiene che la letteratura russa tornerà dopo la guerra, quando sarà possibile comprenderla secondo una lente diversa e concepirla come solo una delle tante branche della cultura mondiale. Un’analisi critica equilibrata di ciò che l’ha legata in passato, e ciò che la differenzia oggi, alle influenze culturali russe può solamente aiutare l’Ucraina nel proprio percorso di definizione storico e identitario.

Immagine in anteprima: frame video Hindustan Times via YouTube

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