Qatar 2022: la questione dei diritti umani, l’ipocrisia della Fifa e il coraggio degli atleti iraniani
9 min letturaAggiornamento 25 novembre 2022: La decisione della Fifa di sospendere la campagna pro-LGBTQ+ “One Love” non è rimasta senza conseguenze. Steffen Simon, responsabile media della Federazione calcistica della Germania, ha dichiarato in un’intervista alla testata tedesca Bild che la federazione sta valutando se la FIFA abbia operato legalmente nel minacciare sanzioni. Anche l’Inghilterra sta valutando gli estremi per contestare nelle sedi opportune la decisione della FIFA, mentre il presidente della federazione danese Jesper Moller, ha persino ventilato la possibilità di lasciare la FIFA stessa. Il dibattito su una possibile decisione di questo tipo coinvolge anche altre nazionali. Nel frattempo, i calciatori della nazionale tedesca hanno protestato prima della partita con il Giappone. Hanno infatti posato per la tradizionale foto di rito tappandosi la bocca con la mano, condannando la decisione della FIFA come forma di censura. Su Twitter, l’account della squadra ha dichiarato: Volevamo usare la nostra fascia di capitano per prendere posizione a favore dei valori che abbiamo nella squadra nazionale tedesca: la diversità e il rispetto reciproco. Insieme ad altre nazioni, volevamo far sentire la nostra voce. Non si trattava di fare una dichiarazione politica: i diritti umani non sono negoziabili. Questo dovrebbe essere scontato, ma non è ancora così. Ecco perché questo messaggio è così importante per noi. Negarci la fascia al braccio equivale a negare la nostra la voce. Restiamo fedeli alla nostra posizione. Alcuni calciatori, tra cui il capitano Manuel Neuer, hanno giocato indossando scarpe con motivi arcobaleno. Sugli spalti dello stadio dove si è giocato Germania-Giappone, inoltre, era presente la ministra dell’Interno tedesca, Nancy Faeser, che ha esibito la fascia “One Love” al braccio.
Forse nulla racconta i Mondiali in Qatar come quello che è successo nella mattinata di lunedì 21 novembre, appena alla seconda giornata della competizione: in poche ore si è consumato un dramma che dice tutto di questo evento, con la FIFA che ha di fatto imposto un divieto dell’ultimo minuto sulle fasce arcobaleno della campagna “One Love”, che da settembre alcune nazionali europee avevano dichiarato di voler indossare. Dopo le repliche di diversi capitani, che volevano vestire ugualmente la fascia, la federazione internazionale ha messo in chiaro che chi contravveniva alle regole sarebbe stato sanzionato, con un’ammonizione o con l’esclusione dalla partita prima del fischio d’inizio. E davanti a ciò, tutti i giocatori e le federazioni nazionali hanno fatto un passo indietro.
Il Mondiale in Qatar è espressamente questo, e non perché il tema dei diritti LGBTQ+ sia più rilevante di quello dello sfruttamento dei lavoratori o delle emissioni inquinanti, ma perché è su questo punto che il Qatar ha scelto di tracciare una linea invalicabile. E la FIFA gli è andata dietro senza fiatare, e anzi adottando i comportamenti del regime di Doha: così come il Qatar ha lasciato credere per anni a sponsor e tifosi che si sarebbe potuto bere birra allo stadio per poi ritirare tutto a due giorni dal via, la FIFA ha atteso l’ultimo momento utile per negare il permesso ad indossare la fascia arcobaleno. E lo ha fatto in una maniera ancora più subdola, imponendo una serie di slogan sociali (assolutamente anonimi) da indossare obbligatoriamente nelle varie giornate del torneo: una banale scritta “No alle discriminazioni” per difendersi dalle accuse di aver svenduto i diritti LGBTQ+.
Un paradosso, se pensiamo a quante difficoltà abbia sempre avuto il calcio a prendere attivamente posizione contro l’omofobia, in uno sport in cui ancora oggi quasi nessun giocatore professionista europeo ha mai fatto coming out durante la carriera. Per la prima volta una serie di importanti calciatori ha deciso di rivendicare i diritti di questa comunità in un paese che li viola apertamente, e il governo del calcio si è messo contro. Solo due giorni prima, il presidente della FIFA Gianni Infantino presentava i Mondiali in Qatar dicendo “Mi sento qatariota, africano, arabo, gay, un lavoratore migrante”. Il confine tra la propaganda e i diritti concreti non è mai stato così evidente.
Leggi anche >> L’omofobia nel calcio
La realtà dell’omofobia del Qatar
Ovviamente, è un problema di lungo corso. Non solo quello dell’omofobia nel calcio, ma proprio quello dell’ipocrisia del governo del football nei confronti di questo tema. Nell’estate del 2021, una simile polemica era scoppiata anche durante gli Europei: la Germania doveva andare a giocare a Budapest contro l’Ungheria, e improvvisamente la UEFA aveva deciso di impedire al capitano tedesco Manuel Neuer di indossare una fascia di capitano arcobaleno. La motivazione era che il regolamento vieta l’esposizione di “simboli politici” da parte dei giocatori, ma Neuer aveva portato quella fascia anche nelle precedenti partite, senza che la confederazione europea se ne fosse lamentata. I tedeschi si opposero, e la UEFA dovette fare un passo indietro. Ma ovviamente il Qatar non è l’Ungheria.
Qui le relazioni tra persone dello stesso sesso sono punite per legge fino a sette anni di prigione. Ma la verità è che le cose peggiori avvengono al di fuori del già problematico ambito legislativo: un recente report di Human Rights Watch spiega, attraverso varie testimonianze, che le persone appartenenti alla comunità LGBTQ+ qatariota vengono arrestate e incarcerate senza che il fermo venga registrato, senza possibilità di contattare i familiari né un avvocato. Durante la detenzione, che può durare anche diversi mesi, vengono sottoposte ad abusi fisici e verbali, e viene promessa loro la libertà a una sola condizione: che accettino di entrare in un centro di conversione sessuale finanziato dal governo.
Quando non riguarda gli arresti arbitrari e gli abusi, la cultura omofoba del Qatar si declina in tutta una serie di violazioni e ostruzioni ben più ampie. Sempre a fine ottobre, il noto attivista britannico Peter Tatchell è stato fermato a Doha per essersi pacificamente fermato lungo una strada pubblica con indosso un cartello che rivendicava diritti per la comunità LGBTQ+. Lunedì scorso, per fare un altro esempio, al celebre giornalista sportivo statunitense Grant Wahl è stato impedito di entrare allo stadio per vedere Stati Uniti-Galles perché indossava una maglietta coi colori arcobaleno.
Non è solo una questione di violazione di diritti, ma anche di rimozione vera e propria. Nell’agosto 2015, il sito d’informazione indipendente Doha News sollevava grande scandalo in Qatar pubblicando una lettera di un anonimo cittadino gay, che raccontava la sua drammatica esperienza di omosessuale clandestino in un paese profondamente omofobo. Nemmeno quattro mesi dopo, il governo oscurava il sito, facendone di fatto crollare gli introiti e portandolo sull’orlo della bancarotta. I proprietari di Doha News hanno quindi dovuto cedere la testata, che è passata tra le mani di una proprietà straniera vicina al governo del Qatar. Leggere Doha News oggi non è la stessa cosa che leggerlo sette anni fa.
Una linea invalicabile
Parlare di diritti LGBTQ+ non è come parlare di diritti dei lavoratori. Le polemiche su quest’ultimo tema hanno accompagnato tutti questi dodici anni, generando proteste, accuse e plateali prese di posizione da parte dei giocatori, che hanno infine costretto il governo qatariota a varare delle piccole (e, secondo molti, inefficaci) riforme del mondo del lavoro. Su questo tema, pur con i suoi limiti, il Qatar ha accettato un piccolo compromesso. Sui diritti LGBTQ+ no.
Leggi anche >> I Mondiali in Qatar e il dramma dei lavoratori morti
Anzi, la posizione della politica locale sul tema è sempre stata abbastanza chiara, a chiunque avesse voglia di guardarla. Nel novembre 2021, uno degli uomini dietro l’organizzazione del Mondiale, Nasser Al-Khater, assicurava alla CNN che nel suo paese erano tutti benvenuti, a prescindere dall’orientamento sessuale. Ma nella stessa intervista sosteneva anche che non esistono leggi contro l’omosessualità in Qatar: quanto è credibile uno discorso in cui una simile evidenza viene platealmente negata? Lo scorso aprile, il capo dell’antiterrorismo Abdulaziz Al Ansari spiegava all’Associated Press che durante i Mondiali non sarebbe stato possibile esporre simboli arcobaleno. Un mese dopo, Reuters rivelava che alcuni hotel di Doha non avrebbero accettato coppie di turisti dello stesso sesso. E, in ultimo, abbiamo avuto la perfetta ammissione dell’ambasciatore dei Mondiali Khaled Salman, che alla ZDF ha definito l’omosessualità una “malattia mentale”.
Che il Qatar non avrebbe concesso nulla ai diritti LGBTQ+ era stato palese fin da subito. Qua in Occidente parliamo spesso dei nostri “valori”, sottovalutando che anche le altre società li hanno: questa atroce negazione dell’omosessualità è il valore del Qatar, o perlomeno della familia Al Thani, di cui il paese è di fatto un possedimento personale. L’emiro si comporta con suoi sudditi come un padre severo con dei bambini piccoli, “proteggendoli” dai “brutti esempi”: l’omosessualità può esistere solo se clandestina e invisibile, proprio come il consumo di alcol è consentito solo in bar e ristoranti degli hotel che non siano visibili dalle strade pubbliche. Davanti a questi valori, il Qatar è stato intransigente, mentre i paesi occidentali tutt’altro.
I valori per cui lottare
Il paradosso è che, nella stessa partita di lunedì l’Inghilterra è scesa in campo senza la fascia “One Love”, davanti a sé aveva l’Iran, i cui giocatori si sono rifiutati di cantare l’inno, proseguendo la protesta del mondo del calcio contro il proprio governo per la repressione nelle strade. Nel loro paese, infatti, nonostante la feroce repressione si continua a protestare contro il regime, con le rivolte scoppiate dopo l’uccisione di Mahsa Ahmini. In molti hanno messo a confronto i due contesti, complice la sfida sportiva in campo: da un lato gli europei che rinunciano a manifestare per i diritti umani davanti al rischio ammonizione, dall’altro gli iraniani che si schierano in solidarietà di chi protesta, in campo e davanti ai microfoni. Lo ha fatto, per esempio, il capitano della nazionale iraniana, Ehsan Hajsafi, in conferenza stampa: “Siamo qui, ma ciò non vuol dire che non possiamo essere la loro voce, o che non dobbiamo rispettarli”” ha dichiarato, aggiugendo, “spero che le condizioni cambino in favore di ciò si aspetta il popolo iraniano”.
⚡️ BREAKING: #Iran football team captain defies regime, backs protests: “We have to accept that conditions in our country are not right & our people are not happy. They should know that we are with them. And we support them. And we sympathize with them regarding the conditions.” pic.twitter.com/SX4kenXiTZ
— Hillel Neuer (@HillelNeuer) November 21, 2022
Senza dubbio, la differenza qui è soprattutto di contesto sociale: in Iran il calcio è divenuto da tempo terreno di scontro sociale, in particolare sui diritti delle donne, ma non solo. Ai calciatori viene chiesto sempre più spesso di schierarsi, e sui social non sono poche le persone che hanno contestato la decisione di non cantare l’inno perché troppo “soft”. I calciatori europei, invece, provengono da un ambito molto più privilegiato in cui molto raramente hanno necessità di lottare per i propri diritti.
È ciò che spiegava un anno fa la calciatrice svedese Magdalena Eriksson, rinfacciando ai suoi colleghi di essere stati molto tiepidi sui problemi di Qatar 2022 (tra cui quello della violazione dei diritti LGBTQ+ la tocca direttamente): le giocatrici sono portate più spesso a parlare di tematiche politiche perché il loro ruolo è totalmente diverso, “Per tutta la mia carriera, in quasi ogni intervista, c’era sempre una tematica più importante del calcio a cui fare riferimento”. E non è un caso che l’unica persona ad aver indossato la fascia “One Love” lunedì allo stadio Khalifa sia stata Alex Scott, ex-calciatrice e oggi opinionista per la BBC.
Ma prendersela con i giocatori - anche con quelli che hanno lanciato i messaggi più criticabili, come il capitano della Francia Hugo Lloris, unico a dire che non avrebbe usato la fascia arcobaleno per “rispetto” alla cultura qatariota - ha senso fino a un certo punto. Come detto, il calcio maschile europeo è profondamente impreparato sulle tematiche politiche, e su quelle LGBTQ+ in particolare: il contesto non facilita prese di posizione coraggiose. Soprattutto quando poi sono gli stessi politici a non muovere un passo: le federazioni nazionali hanno tutte rinunciato a portare avanti la battaglia per la fascia arcobaleno, e allo stesso modo anche tutti i loro governi hanno evitato di commentare la vicenda. Nessun politico si è schierato in difesa della propria squadra di calcio, sostenendo un’eventuale sfida alla FIFA. Una settimana fa, il Ministro degli Esteri britannico James Cleverly è arrivato a sostenere pubblicamente che i tifosi avrebbero dovuto “scendere a compromessi” e accettare la cultura qatariota sul tema LGBTQ+. Un’intera società, o almeno i suoi vertici, è franata di fronte all’intransigenza retrograda di un piccolo stato del Golfo, che ha dalla sua parte l’arma più potente del mondo: il potere economico che può tenere in piedi il nostro benessere, unico vero valore occidentale su cui non siamo disposti a discutere. Il vero problema, una volta di più, va ben al di là del rettangolo verde.
Immagine in anteprima: i giocatori della nazionale iraniana non cantano l'inno prima della partita contro l'Inghilterra ai mondiali in Qatar – frame video CBC