Il decreto ‘anti-rave’ del governo Meloni serve a reprimere il dissenso ed è in linea con i suoi predecessori
13 min letturaAggiornamento 2 dicembre 2022: Nella fase di conversione del decreto legge 162/2022, il Governo ha presentato un emendamento per sostituire integralmente l’articolo 5, che introduce la cosiddetta norma anti-rave. La proposta di modifica riguarda sia la formulazione, sia la collocazione, sia alcuni elementi sostanziali del nuovo delitto, ma restano intatte molte criticità. Il nuovo reato, sintatticamente più in linea con la formulazione delle altre norme del codice penale, non sarebbe più il 434-bis cp, bensì il 633-bis cp: in questo modo non si tratterebbe più di reato contro l’incolumità pubblica, ma di reato contro il patrimonio. Quanto alla sostanza del reato, si propone di eliminare il requisito numerico (50 persone) e di aggiungere quello sonoro, prevedendo che i raduni punibili siano quelli “musicali”. Verrebbe poi eliminato il riferimento al codice antimafia e quindi l’applicabilità delle misure di prevenzione, tra cui la sorveglianza speciale, contro gli indiziati del reato in questione. Infine, mentre nel testo originale (tuttora vigente) si parla di raduni da cui “può derivare un pericolo”, nella proposta di modifica si prevede che il reato si verifichi quando “dall’invasione deriva una situazione di concreto pericolo”, quindi rendendo attuale e non più solo potenziale il pericolo. La pena resta invece la stessa: da tre a sei anni, da 1000 a 10000 euro di multa. Si consente così il ricorso alle intercettazioni (che sono ammesse dal codice di procedura penale per delitti non colposi per i quali il massimo della pena sia superiore a cinque anni). E restano valide le critiche relative alla severità e alla proporzionalità del reato in questione: l’invasione per profitto è punita con una pena molto minore (da 1 a 3 anni, da 103 a 1032 euro) rispetto al nuovo reato di invasione per raduni musicali.
Il primo provvedimento ufficiale del governo Meloni, il decreto legge 31 ottobre 2022, n. 162, introduce un nuovo reato: invasione di terreni o edifici per raduni pericolosi per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica.
Nonostante la cronaca degli ultimi giorni abbia indotto molti, compresa la Presidente del Consiglio in conferenza stampa, a collegare il nuovo reato al rave party di Modena, è lecito dubitare che una festa, per quanto non autorizzata, sia davvero la ragione di simili scelte di politica penale.
La perplessità non riguarda solo la rapidità di intervento normativa rispetto al suo pretesto, quanto il suo porsi in coerenza con i provvedimenti in materia di ordine pubblico varati, tre anni fa, dal governo gialloverde e dall’allora Ministro dell’Interno Matteo Salvini, e in parte anche dal suo precedessore, Marco Minniti.
In ogni caso, a prescindere dalle ragioni occulte o palesi dell’intervento normativo, bisogna ricordare che una legge è generale e astratta: riguarda tutti, non solo coloro contro i quali il legislatore del momento intende indirizzare la sua repressione. È il caso allora di lasciare da parte le opinioni e partire dai fatti. E i fatti, in materia giuridica, iniziano sempre dal testo della norma e dalla sua collocazione sistematica.
Cosa dice il decreto
L’articolo 5 del decreto 162/2022 incide su due codici: il codice penale, con l’introduzione dell’articolo 434-bis, e il codice antimafia (D.lgs. 159/2011), allargando l’applicazione delle misure di prevenzione anche “ai soggetti indiziati del delitto di cui all’articolo 434-bis del codice penale”.
Già questo duplice intervento lascia intendere il livello di offensività che il legislatore collega a un delitto simile, ma prima di affrontarne le implicazioni bisogna capire quale sia il fatto di reato. Il primo comma del nuovo art. 434-bis cp, nel definire l’azione delittuosa, la descrive così:
L'invasione di terreni o edifici per raduni pericolosi per l'ordine pubblico o l'incolumità pubblica o la salute pubblica consiste nell'invasione arbitraria di terreni o edifici altrui, pubblici o privati, commessa da un numero di persone superiore a cinquanta, allo scopo di organizzare un raduno, quando dallo stesso può derivare un pericolo per l'ordine pubblico o l'incolumità pubblica o la salute pubblica.
Questa definizione appare pleonastica, se vogliamo dare per scontata la descrizione della fattispecie, o vuota, se invece riteniamo che una norma penale debba sempre definire chiaramente i reati che intende reprimere. In ragione dell’impatto che le norme incriminatrici hanno, infatti, è necessario che ciascuno sia in grado di valutare i propri comportamenti per potersi conformare alla legge. In altri termini, secondo il principio di precisione, le norme penali devono definire nella forma più chiara possibile reati e sanzioni, e, secondo il principio di determinatezza, i fatti di reato devono essere verificabili, cioè suscettibili di essere accertati e provati empiricamente in giudizio.
Tornando al primo comma dell’art. 434-bis cp, allora, possiamo chiederci quale sia la definizione del reato. Che cosa significa invasione? E, soprattutto, in base a quali valutazioni si definisce il pericolo per l’ordine pubblico, l’incolumità pubblica o la salute pubblica? La risposta dipende di fatto dall’interpretazione delle forze dell’ordine, prima, e dei giudici, poi. E questa circostanza sarebbe già di per sé inaccettabile, alla luce dei principi del diritto penale.
Offensività e allarme sociale: la repressione dei raduni illegali
Se anche volessimo sostenere che la frase “invasione di terreni o edifici per raduni pericolosi” sia già di per sé chiara, e tralasciare le questioni relative alla determinatezza nella definizione del comportamento criminale, ci sono altre questioni che meritano attenzione, tra cui il livello di allarme sociale sotteso nel nuovo decreto del governo.
Un primo indizio sull’offensività attribuita ai raduni vietati sta nella collocazione sistematica del reato, ossia nel punto del codice penale in cui il legislatore ha deciso di inserire la nuova norma. L’articolo 434-bis rientra nel titolo VI, che punisce i “delitti contro l’incolumità pubblica” e in cui sono presenti reati come strage, incendio, fabbricazione o detenzione di materiali esplodenti.
Anche il nuovo reato di cui all’art. 434-bis cp rappresenta un reato di pericolo. In generale, gli illeciti penali sono definiti secondo il principio di offensività: perché vi sia un reato, ci deve essere il danno a un bene giuridico. Alcuni delitti, considerati particolarmente gravi dalla legge, prevedono però l’anticipazione della tutela: l’offesa al bene giuridico non è il danno, ma la sua messa in pericolo.
Ad esempio, il citato delitto di strage è un reato di pericolo, che viene punito con l’ergastolo nel caso in cui sia consumato, quindi in cui delle persone vengano uccise, ma per cui è prevista una pena a partire da quindici anni di reclusione anche nel caso in cui nessuno perda la vita, perché il bene giuridico dell’incolumità pubblica viene offeso già nel momento in cui è messo in pericolo.
Per chi organizza o promuove invasioni al fine di “raduni pericolosi” dai quali “può derivare un pericolo”, per citare la nuova norma incriminatrice, è prevista una pena compresa tra tre e sei anni e la multa tra 1000 e 10 mila euro, mentre la sola partecipazione al raduno prevede una pena diminuita (non è dato sapere di quanto). Organizzare o promuovere un rave-party, o qualunque altro “raduno pericoloso”, è insomma punito con maggior durezza rispetto a picchiare qualcuno provocandogli una malattia nel corpo o nella mente (art. 582 c.p., lesioni personali, pena da sei mesi a tre anni) o a costringere qualcuno a fare, tollerare o non fare qualcosa con violenza o minaccia (art. 610 c.p., violenza privata, pena fino a quattro anni).
Inoltre, il fatto che la cornice edittale (cioè il minimo e il massimo della pena) parta da tre anni di reclusione rischia di limitare il ricorso alla sospensione condizionale della pena. La cosiddetta condizionale è lo strumento attraverso cui, in caso di condanne brevi di soggetti incensurati, la pena non viene eseguita, a meno che il condannato non commetta altri reati nei cinque anni successivi (e, nel qual caso, sconterà sia la pena sospesa, sia l’ulteriore condanna).
La sospensione condizionale si applica, su valutazione del giudice, se la condanna è inferiore a due anni (o inferiore a due anni e mezzo se il reo è un giovane adulto, cioè ha un’età compresa tra diciotto e ventuno anni, o inferiore a tre anni se è minorenne): prevedere per un reato un minimo di tre anni di reclusione implica quindi escludere il ricorso a questo istituto giuridico e collegare automaticamente l’organizzazione o promozione di raduni “pericolosi” al carcere.
Ma gli indizi sulla gravità che il governo assegna al nuovo reato non sono finiti. Il quarto comma prevede infatti la confisca obbligatoria “delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato”. Di norma, una confisca simile è facoltativa: è il giudice a decidere per l’espropriazione, in base alla pericolosità concreta delle cose usate per il reato. I casi di confisca obbligatoria sono invece relativi al prezzo del reato (quindi, ad esempio, la tangente in un caso di corruzione o il compenso al sicario per un omicidio) o le cose intrinsecamente criminose, come armi, sostanze stupefacenti, oggetti contraffatti, denaro falso. In questo caso, invece, sollevando il giudice da ogni valutazione in concreto, si impone in astratto la confisca obbligatoria.
A questi elementi di severità, si aggiunge la citata modifica del codice antimafia, che allarga l’applicazione delle misure di prevenzione, come la sorveglianza speciale, anche agli “indiziati” del reato di invasione per raduni pericolosi. Le misure di prevenzione sono delle limitazioni della libertà personale, imposte senza la commissione di un reato, per ragioni di pericolosità sociale: non sono mancati usi discutibili, in quanto politici, di misure simili, ma in generale questi strumenti di sorveglianza si applicano agli indiziati di reati molto gravi, come delitti associativi, di stampo mafioso, eversivo o con finalità di terrorismo (con la recente aggiunta di qualche reato che negli ultimi anni ha destato allarme sociale, reale o percepito).
Davvero serve un nuovo reato per punire “l’ennesimo rave party illegale”?
Insomma, il problema dell’invasione finalizzata all’organizzazione di raduni pericolosi sembra particolarmente sentito dal governo, tanto da procedere con decretazione d’urgenza prevedendo una nuova fattispecie di reato, presidiata da sanzioni e misure di prevenzione che ne qualificano la gravità criminale. Ma era davvero necessario istituire un nuovo delitto?
Quando la presidente Giorgia Meloni, nella conferenza stampa di presentazione del decreto, parla di “ennesimo rave party illegale” sta ammettendo che esistono già, nel nostro ordinamento, strumenti che dichiarano illecite certe pratiche e che prevedono per esse specifiche sanzioni. Esiste il reato di invasione di terreni o edifici (art. 633 c.p.), la cui pena è stata peraltro inasprita dal primo decreto Salvini. C’è pure il delitto di violazione di domicilio, con pene da sei mesi a tre anni (art. 614 c.p.), e ovviamente, nel caso in cui ci siano danni alle cose, o minacce o violenza alle persone, non mancano reati previsti (e puniti) dal codice penale. Nei casi ancora più gravi, di raduni distruttivi, esiste perfino il discutibile (in quanto severo e indeterminato) reato di devastazione e saccheggio, con pene dagli otto ai quindici anni.
L’allargamento del significato di “altrui” e la violazione costituzionale
Il dubbio allora è che il vero orizzonte del nuovo reato sia l’ampio significato della parola “altrui” (già utilizzato nella citata norma sull’invasione di terreni o edifici). Si legge infatti che il nuovo delitto consiste “nell'invasione arbitraria di terreni o edifici altrui, pubblici o privati”. Se, come si è visto, la consumazione del reato in luoghi privati potrebbe essere già punita con diverse norme, quando invece oggetto dell’invasione è un luogo pubblico, sia esso un terreno o un edificio, il discorso si fa giuridicamente più complesso.
Riunirsi pacificamente e senz’armi è infatti un diritto, sancito dall’articolo 17 della Costituzione. Una riunione pacifica e disarmata può essere un pericolo per l’ordine pubblico, l’incolumità pubblica o la salute pubblica? Certo. Ed ecco perché esiste un dovere di preavviso (preavviso, non autorizzazione) alle autorità di pubblica sicurezza prima di organizzare una manifestazione in luogo pubblico.
Ma questo dovere è funzionale all’organizzazione dell’ordine pubblico, affinché per l’appunto ci si possa riunire, anche in protesta, anche esprimendo dissenso, senza che l’incolumità pubblica ne sia turbata. Insomma, il pericolo è casomai una colpa delle autorità, qualora non garantiscano il libero svolgimento di una riunione in luogo pubblico, non può diventare un elemento caratteristico di un reato commesso da persone che “invadono” un terreno pubblico per raduni pericolosi.
E per gli edifici pubblici? Ecco il punto. Il nuovo reato, più che ai rave (episodici, controllabili e già punibili con i reati esistenti), sembra piuttosto descrivere una modalità tipica di manifestazione giovanile di dissenso: le occupazioni studentesche. La giurisprudenza ha avuto modo di interrogarsi sulla repressione delle occupazioni studentesche, contro le quali è spesso stato contestato il reato di invasione di terreni o edifici.
Una sentenza di Cassazione del 2000 ha infatti escluso l’applicazione del delitto previsto dall’art. 633 c. alle occupazioni studentesche, perché “tale norma ha lo scopo di punire solo l'arbitraria invasione di edifici e non qualsiasi occupazione illegittima”. Non solo. La pronuncia ha precisato come “l’edificio scolastico, inoltre, pur appartenendo allo Stato, non costituisce una realtà estranea agli studenti, che non sono dei semplici frequentatori, ma soggetti attivi della comunità scolastica e pertanto non si ritiene che sia configurato un loro limitato diritto di accesso all’edificio scolastico nelle sole ore in cui è prevista l’attività scolastica in senso stretto.”
Il nuovo delitto di invasione finalizzata a raduni pericolosi non sembra destinato a un diverso destino applicativo: presenta gli stessi vizi, le stesse forzature più volte censurate dai giudici, nelle sentenze di merito, quando non dalla Cassazione o dalla Consulta, nelle loro funzioni di garanzia di interpretazione uniforme delle leggi e di correzione delle norme incostituzionali. Eppure l’introduzione di questo nuovo reato deve preoccuparci.
La tendenza governativa tra populismo penale e criminalizzazione del dissenso
Il diritto non è una disciplina indipendente. I rilievi giuridici, le riflessioni dottrinali, i ragionamenti della giurisprudenza non possono essere analizzati senza osservare anche il periodo storico, le tendenze politiche, l’impatto sociale che le norme hanno sulla realtà.
Dopo le critiche di merito, allora, non si può tacere una questione di metodo. Il nuovo decreto del governo Meloni, infatti, non sembra rispondere a “casi straordinari di necessità e urgenza”, per i quali l’articolo 77 della Costituzione prevede la possibilità che sia l’esecutivo, invece del Parlamento, a legiferare. Non solo. Le disposizioni del decreto sono tutt’altro che omogenee: in soli nove articoli, il decreto si occupa, oltre che del nuovo delitto contro l’incolumità pubblica, di ergastolo ostativo, differimento dell’entrata in vigore della riforma Cartabia, anticipo del termine di sospensione per medici e operatori non vaccinati. Ma il contenuto di un decreto legge "deve essere specifico, omogeneo e corrispondente al titolo", come ordinato dall’art. 15, comma 3, della legge 400/1988, e come più volte ribadito dalla Consulta, costretta in diversi casi a dichiarare illegittimi decreti legge, o loro conversioni, proprio per via della loro disomogeneità.
Eppure non ci sarebbe stato alcun bisogno di forzare la procedura legislativa. Ottenuta la presidenza dei due rami del Parlamento, e con una maggioranza schiacciante in entrambe le Camere, il governo Meloni avrebbe potuto spingere perché fosse varata una legge, in tempi brevi, senza necessità di ricorrere alla decretazione d’urgenza. È difficile allora non leggere in questa prassi governativa una precisa scelta politica, di enfasi sul potere e sull’azione dell’esecutivo.
Si deve dire, comunque, che questo utilizzo disinvolto dei decreti legge non è certo un’esclusiva del nuovo governo, anzi. E nemmeno, nel merito, l’approccio repressivo nella gestione dell’ordine pubblico è una novità dell’esecutivo guidato da Giorgia Meloni.
Sarebbe semplice limitarsi a citare il pacchetto sicurezza di Maroni (L. 92/2008) o citare i decreti Salvini, con l’inasprimento della pena per l’invasione di terreni, l’allargamento della nozione del reato di blocco stradale, l’introduzione di un’aggravante generale per reati contro le forze dell’ordine commessi durante una manifestazione in luogo pubblico o aperto al pubblico. È necessario invece concentrarsi su una tendenza bipartisan, o di appiattimento sulle posizioni repressive, caratterizzata dal populismo penale e da un ordine pubblico basato sull’esaltazione del decoro e sulla criminalizzazione del degrado: una tendenza che, negli ultimi anni, prescinde dal colore dei governi.
Il decreto 14/2017 (Minniti-Orlando), ad esempio, esalta la “sicurezza urbana”, definendola come “il bene pubblico che afferisce alla vivibilità e al decoro delle città”, prevedendo nel contempo poteri di ordinanza in capo a sindaci e questori, nuove misure di prevenzione a tutela del decoro (il cosiddetto Daspo urbano), disposizioni in materia di occupazioni arbitrarie di immobili. O, prima di allora, con il decreto Renzi-Lupi (all’epoca l’uno segretario del PD, l’altro ministro delle Infrastrutture), si è vietata la residenza e l’allaccio delle utenze a chi ha occupato immobili e alloggi, anche se in condizione di necessità.
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Nessuno stupore può allora esserci per il nuovo delitto di invasione per raduni pericolosi, introdotto dal governo Meloni. Ma la preoccupazione è legittima, e anzi necessaria. Se anche i difetti giuridici della nuova norma sono evidenti, al punto che non può escludersi un intervento correttivo o, più in generale, un mancato utilizzo da parte delle autorità, una legge continua a esistere a prescindere dalla sua attuazione, e ha impatto sul comportamento delle persone. Quando l’allora ministro dell’Interno Maroni ipotizzò di introdurre nel pacchetto sicurezza l’obbligo per i medici di denunciare pazienti privi del permesso di soggiorno, qualunque giurista avrebbe potuto spiegare come quella norma, oltre che disumana, fosse anche illegittima. E infatti quella proposta rimase un proclama, non entrò mai nella legge. Ma non possiamo quantificare quante persone straniere abbiano, in quel periodo e anche successivamente, rinunciato alle cure per paura di essere denunciate.
Allo stesso modo, sebbene il ministro Piantedosi si affretti a spiegare al Corriere che non bisogna preoccuparsi, perché il reato sarà applicato solo contro raduni illegali, non possiamo sapere quanto l’intimidazione istituzionale faccia effetto. Quanti studenti non manifesteranno per paura di finire in carcere, o di dover affrontare un processo? Quanti musicisti non parteciperanno a raduni, per paura che siano considerati pericolosi, con la confisca obbligatoria di strumenti, mixer, amplificatori? E quanto questa vaghezza nell’identificare il pericolo per l’incolumità pubblica sarà interpretata discrezionalmente, ed estensivamente, dalle forze dell’ordine, da prefetti e questori, chiamati a garantire l’ordine pubblico?
Il nostro ordinamento presenta ancora molte norme di epoca, e talora di stampo, fascista. Lo stesso codice penale è stato scritto nel 1931 e, salvo per alcuni articoli dichiarati incostituzionali, resta vigente e applicato, o almeno applicabile. Un delitto che è previsto dall’ordinamento, per quanto irragionevole, per quanto contrario ai principi costituzionali, è sempre un potenziale strumento di repressione: per questo le norme, specie se incriminatrici, devono essere chiare, precise, determinate, e per questo non è accettabile l’introduzione di un reato che può applicarsi a un rave party come a un’occupazione studentesca, a un presidio di lavoratori, a un campo rom, a una manifestazione spontanea. Bisogna vigilare, sotto qualunque governo e in qualunque epoca, affinché le libertà siano esercitabili, da chiunque, senza che si trasformino in gentili concessioni del Viminale, senza il timore che la definizione vaga di un delitto s’allarghi al punto da svuotare il diritto.
Immagine anteprima: frame video Palazzo Chigi (via YouTube)