Il neoliberismo è stato superato dalla realtà
12 min letturaÈ difficile accorgersi di qualcosa quando ci sei immerso: questa è la critica che viene rivolta al neoliberismo, un’ideologia talmente ubiqua da confondersi con la naturale evoluzione delle cose. Al contrario i suoi sostenitori ritengono superficiale la critica al neoliberismo, incolpato di tutti i mali del mondo, dalla fame fino alla diminuzione del piacere sessuale.
Prima di dibattere di pregi e difetti del neoliberismo è però necessario avere un’idea chiara del fenomeno. Che cos’è quindi il neoliberismo? Per dare una definizione è utile partire dai suoi due numi tutelari, Margaret Thatcher e Ronald Reagan.
Thatcher e Reagan: lo Stato diventa il problema
Dopo la seconda guerra mondiale si assistette negli Stati occidentali a 30 anni di crescita sia economica sia del benessere generale. Questa crescita coincideva con il periodo del consenso keynesiano, in cui lo Stato interveniva massicciamente per sostenere i settori economici strategici, mentre si procedeva all’istituzione dei moderni sistemi di tutele che comprendevano istruzione e sanità.
Negli anni ’70 quel mondo finì bruscamente con l’embargo del petrolio deciso dai paesi dell’OPEC, come ritorsione verso l’appoggio da parte dei paesi occidentali a Israele nella Guerra dello Yom Kippur . I sistemi economici furono colpiti da un fenomeno inedito, la stagflazione. Arrivò così un periodo quindi di elevata disoccupazione e allo stesso tempo inflazione.
La possibilità di stimolare l’economia attraverso l’intervento pubblico divenne impossibile, come osservato tra gli altri dal Primo ministro britannico del tempo, James Callaghan. Proprio nel Regno Unito, qualche anno dopo, Callaghan fu scalzato da Nr.10 da una delle paladine del neoliberismo: Margaret Thatcher. Distante dal “One nation conservatorism”, che riteneva il libero mercato efficiente ma ingiusto, e quindi puntava a leggi per proteggere i più deboli, Thatcher era una devota del libero mercato.
Nella sua prima legge di bilancio il suo gabinetto tagliò l’imposta sul reddito alle fasce più abbienti aumentando invece dall’8% al 15% l’imposta sul valore aggiunto- la nostra IVA. Ridusse poi i sussidi, anche se, vista la situazione economica, la spesa per trasferimenti aumentò considerevolmente nei primi anni durante il suo primo mandato. Sul piano monetario invece si assistette a una politica restrittiva, con un aumento deciso del tasso di interesse per frenare l’inflazione.
In un primo momento le politiche di Margaret Thatcher fecero precipitare però il Regno Unito in una recessione ancora più dura, con il tasso di disoccupazione che arrivò a toccare il 12% nel 1984. Fu soltanto grazie alla vittoria nella Guerra delle Falkland e all’entrata in scena dei LibDem, partito nato dalla scissione dei laburisti di destra e i liberali, che riuscì a vincere le elezioni del 1983. Fu allora che Thatcher accelerò il piano di modernizzazione del paese: privatizzazione dei settori non reputati più strategici, deregolamentazione dei mercati finanziari, un successivo taglio delle tasse, esternalizzazione dei servizi (i privati poterono entrare in settori come la sanità), leggi anti-sindacali.
Le politiche di deregolamentazione del settore finanziario da parte del suo gabinetto portarono alla rinascita della London Stock Exchange, che aveva visto calare il suo prestigio a scapito della ben meno rigorosa borsa di New York. Le riforme più importanti entrarono in essere in un solo giorno, il 27 ottobre del 1986, da allora conosciuto come il Big Bang.
Nello stesso periodo, gli Stati Uniti d’America eleggevano un paladino del neoliberismo come Ronald Reagan, il cui slogan recitava “lo Stato non è la soluzione del problema, ma il problema”. L’esperienza di Reagan rasenta quella di thatcheriana, ma con sostanziali differenze. Anche in USA vi fu un attacco al welfare State (ricordiamo le famose Welfare Queen di Reagan) così come una deregolamentazione dei mercati finanziari e una stretta monetaria come quella di Volcker che aumentò drasticamente il tasso di disoccupazione. Ma è necessario concentrarsi sulle differenze sostanziali. In primo luogo il taglio dell’imposta sul reddito effettivo di Reagan fu inizialmente finanziato a debito- salvo poi dover incrementare altre tasse l’anno dopo il primo provvedimento. Questo perché, secondo gli economisti di Reagan, tagliare le tasse avrebbe incentivato al lavoro e diminuito l’evasione. In realtà le cose andarono diversamente: secondo i calcoli del Dipartimento del Tesoro, il taglio delle tasse di Reagan del 1981 portò in media un calo dell’1.91% del gettito sul PIL nei primi due anni e al 2.89% nei primi quattro. Fu proprio sotto l’amministrazione Reagan che il debito federale esplose.
Ma ciò non era dovuto solo ai tagli delle tasse, ma anche a un altro fattore che appunto differenzia l’esperienza Reagan e quella di Thatcher: gli USA a quel tempo si trovavano ancora nel mezzo della guerra fredda e quindi mentre riduceva i trasferimenti per i più poveri, Reagan inondava di dollari i settori della ricerca dell’esercito come l’agenzia federale DARPA: il risultato è buona parte della tecnologia che usiamo oggigiorno.
L’amministrazione Reagan da una parte seguiva quindi i precetti del neoliberismo, ma allo stesso tempo dispiegava lo Stato per gli interessi del settore militare - e non solo, visto gli effetti che ebbe sul resto dell’industria.
Il neoliberismo e la sinistra
Come abbiamo visto negli anni ’80 la destra neoliberista fu egemone nei paesi anglosassoni. Questo, assieme alla caduta dell’URSS nei primi anni ’90, portò a una riflessione in seno alla sinistra. Come osservato da uno degli ideologi di quel movimento, Anthony Giddens della LSE, la vecchia socialdemocrazia non era più un’opzione: il mondo era cambiato, la società pure. Serviva una terza via.
Negli Stati Uniti questa riflessione partì negli anni ’80. In un articolo sul Washington Monthly Charles Peters coniò il termine “Neoliberali” proprio per quei membri del Democratic Party statunitense che avevano abbandonato il pregiudizio nei confronti delle Big Corporation e dei militari. Questa corrente del partito divenne centrale nel 1992 quando Bill Clinton lanciò con successo il suo assalto alla Casa Bianca sfidando il presidente uscente George H.W. Bush. Durante la sua esperienza alla Casa Bianca, Clinton migliorò la situazione dei conti pubblici, con vari anni di surplus, anche alzando le tasse alle fasce più abbienti. Durante la sua presidenza si assistette a uno dei più lunghi periodi di crescita mai vista dagli Stati Uniti d’America.
Permangono però degli aspetti controversi della presidenza Clinton. In primo luogo riguardo alle riforme del welfare, tese a rendere più stringenti i trasferimenti spingendo le persone verso lavori malpagati ed estenuanti. Inoltre durante la presidenza Clinton si superò la legge, in vigore dall’epoca di Roosevelt, che separava banche commerciali e d’investimento: un passo fondamentale nella deregolamentazione dei mercati finanziari che portò alla crisi del 2008.
Nel Regno Unito invece, dopo quasi vent’anni di dominio incontrastato dei Conservatori, alle elezioni del 1997 ottenne una vittoria schiacciante il giovane Tony Blair. Già nel 1994, nel succedere a John Smith, Blair rimosse al congresso di Blackpool il cosiddetto articolo 4, che stabiliva come fine ultimo del partito Laburista l’abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione, dettando la linea di una volontà modernizzatrice.
Dal punto di vista politico l’esperienza di Blair è forse quella più interessante della Terza Via: fu proprio il gabinetto Blair a istituire il salario minimo per far fronte al calo della densità sindacale dopo gli anni ’80 e a fornire un welfare state universalistico moderno come il Child Trust Fund.
Nonostante ciò Blair continuò, forse per lo spirito del tempo, politiche orientate al mercato in settori chiave come scuola e sanità, come dimostra nel secondo mandato il private finance initiative (PFI) che permise ai privati un maggior coinvolgimento nel settore pubblico.
Il successo riscosso dalla Terza Via in terra anglosassone ha portato a vari tentativi di imitazione: basti pensare a Schröeder in Germania, a Zapatero in Spagna o, nel nostro paese, a D’Alema e Renzi. Ovviamente, come spiegato in precedenza, queste esperienze nascevano dal mutato contesto economico e soprattutto ideologico. L’intento era coniugare il libero mercato, emerso come vincitore nella guerra fredda, con le istanze sociali tipiche della sinistra. Queste ultime però sono spesso venute a mancare, portando a un calo deciso del consenso elettorale per i partiti di sinistra.
Di che cosa parliamo quando parliamo di neoliberismo?
Questa panoramica storica dovrebbe aver reso chiaro che non si può considerare il neoliberismo come un movimento coeso e coerente, quanto un cambiamento di paradigma dovuto a situazioni contingenti (come fu a seguito della stagflazione). Quale può essere allora una definizione onnicomprensiva del neoliberismo?
In un recente report del Roosevelt Institute la studiosa Felicia Wong lo descrive come due idee distinte quanto interconnesse:
- 1. Da una parte un’ideologia di libero mercato, basata su modelli economici, e diventata poi una serie di prescrizioni di politica economica semplicistiche: più mercato/meno stato, taglio delle tasse, efficienza nel settore pubblico;
- 2. Dall’altra un’ideologia non solo economica ma anche sociale: l’individuo come meccanismo di un gigantesco sistema ovvero il mercato, privato di ogni caratteristica sociale (come per esempio classe o genere).
Questa definizion manca però di un tratto saliente: il neoliberismo non si presenta come un’ideologia economica, basata come ogni altra ideologia su assunti indimostrabili, quanto come mero pragmatismo, il famoso “Non c’è alternativa” di Margaret Thatcher. Il neoliberismo non sarebbe quindi un’ideologia come la socialdemocrazia o il conservatorismo sociale, quanto l’ingegnerizzazione della realtà. Proprio con la Thatcher, del resto, si è assistito a un progressivo slittamento di funzioni di uffici come il COI (the Central Office Of Information), che pian piano sono stati investiti dal compito di istituzionalizzare la propaganda.
Il neoliberismo ha basi davvero traballanti anche restando in quei modelli economici che spaccia per verità assoluta ed eterna. Il libero mercato che descrive si basa più che altro su una banalizzazione della teoria economica più che su una sua profonda conoscenza.
Le ipotesi sotto cui valgono i teoremi dell’Economia del benessere, la formalizzazione matematica della mano invisibile di Adam Smith, non si verificano pressoché mai nella realtà dando luogo a quelli che tecnicamente vengono chiamati fallimenti del mercato. Altri modelli, come Real Business Cycle e Dynamic Stochastic General Equilibrium, sono stati criticati dalla comunità economica, perfino da uno dei padri nobili dell’economia come Robert Solow.
Non solo: dal punto di vista empirico svariati cavalli di battaglia della narrazione neoliberista appaiono quantomeno più complessi. Vediamo qualche esempio.
“Tagliare le tasse incentiva la crescita”. Questo è uno dei mantra classici dai tempi di Thatcher e Reagan. Abbassando le tasse si incentiverebbe lo spirito d’iniziativa e le persone sarebbero così portate a lavorare di più. I dati però ci dicono altro: una recente ricerca della London School of Economics, restringendosi al taglio dell’imposta sul reddito personale, ha evidenziato come gli effetti sulla crescita siano non significativi, mentre tali misure porterebbero soltanto a un aumento delle disuguaglianze. Proprio quanto successo nel Regno Unito e negli USA durante Thatcher e Reagan;
“Più flessibilità, occorre rendere più dinamico il mercato del lavoro”. Si tratta di una posizione particolarmente sentita in Europa. Per anni infatti si è assistito a fenomeno denominato “eurosclerosi”: gli indicatori occupazionali, soprattutto dopo la stagflazione, mostrarono una netta divergenza tra Europa e Stati Uniti d’America. Questo, secondo una certa linea, dipendeva dall’elevata rigidità del mercato del lavoro europeo rispetto a quello americano. Pertanto per anni in Europa si è puntato sulla flessibilizzazione del mercato del lavoro. Oggi però assistiamo a un fenomeno quasi inverso: elevata flessibilità e bassa produttività. Per questo motivo anche economisti non di certo estremisti hanno spostato la loro attenzione sul tema dei buoni posti di lavoro: non solo ben pagati, ma anche con tutele. Il rallentamento della produttività a cui stiamo assistendo è dovuto anche alle compressione dei diritti dei lavoratori, il cui effetto è di incentivare la competizione al ribasso.
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L’Italia è un caso emblematico di questa tendenza. A partire dagli anni ’90, con gli accordi del ’93, il Pacchetto Treu, la Legge Biagi e il Jobs Act si è andati incontro a un mercato del lavoro sempre più flessibilizzato. Le conseguenze non sono state però quelle sperate: non solo non si è risolto il dualismo nel mercato del lavoro, ritenuto da pressoché chiunque una delle cause della bassa produttività del paese, ma si è appunto permessa una competizione a ribasso su salari e tutele.
Questo si ricollega inoltre alla copertura sindacale. Come abbiamo visto il neoliberismo ha sempre considerato i sindacati organizzazioni che ostacolano la modernizzazione del mondo del lavoro. Per quanto non siano esenti da critiche, la letteratura è ormai consapevole dell’apporto positivi dei sindacati nel sostenere la produttività e la soddisfazione dei lavoratori;
“Lo stato è una zavorra inutile, meno stato c’è meglio è”. Lo Stato sembra essere il nemico giurato del neoliberismo. Questo però solo all’apparenza, in quanto è lo stato a essere il fondamento delle moderne economie di mercato. Il neoliberismo quindi dispiega lo stato per imporre un mercato, quel sistema perfetto in grado di portare benessere e crescita, laddove non c’era. Un approccio di questo tipo è davvero funzionante? Dipende. Le privatizzazioni, uno dei cavalli di battaglia del neoliberismo, in realtà hanno avuto degli effetti contrastanti. Due casi negativi su tutti: quelle in UK e quelle in Russia. Nel primo caso la ricerca non offre una risposta univoca: in alcuni casi le privatizzazioni hanno reso più produttive ed efficienti, in altri casi hanno aumentato solo i profitti, in altri ancora hanno causato profondi danni ai consumatori e prezzi esorbitanti come nel caso delle ferrovie.
Il caso russo invece è meno ambiguo: la privatizzazione dell’industria sovietica e le politiche di apertura hanno portato a quella che gli studiosi chiamano “shock therapy” che ha concentrato le industrie dello stato, spesso vendute a costi insignificanti, nelle mani di poche persone- i cosiddetti oligarchi- e causato danni considerevoli alla popolazione civile come un aumento della mortalità mai visto in tempo di pace. Questo perché, ancora una volta, privatizzazioni non significano necessariamente efficienza e crescita, tanto che oggi si assiste a un cambio radicale di visione nei confronti dell’intervento dello stato nel mercato, anche con aziende pubbliche.
Collegato a quanto detto c’è l’impatto dello Stato nell’innovazione. Un esempio vicino a noi sono, ovviamente, i vaccini. Non solo gli stati hanno finanziato massicciamente i vaccini, ma ad esempio la ricerca dietro i vaccini a mRNA è pressoché interamente passata attraverso fondi pubblici. Spesso l’innovazione richiede decenni per fare profitti, un tempo infinitamente lungo per gli investitori privati. Come ha fatto notare Mariana Mazzucato nel suo Lo Stato imprenditore sono state proprio gli investimenti pubblici dell’amministrazione Reagan, e in generale del governo americano, a generare buona parte della tecnologia che sta dietro alla rivoluzione digitale.
“I sussidi scoraggiano il lavoro”. In Italia questo cavallo di battaglia lo conosciamo bene, viste le polemiche sul Reddito di Cittadinanza. Se i cittadini vengono pagati per stare sul divano, si dice, allora lavoreranno di meno. Dal punto di vista logico funziona: perché dovrei alzarmi dal divano se posso acquistare quello che mi serve con un sussidio? Nella realtà la questione è, di nuovo, un po’ più complessa. Questo perché il lavoro non è soltanto compensazione monetaria- lo stipendio- ma ha una funzione anche sociale: dà senso alla vita dell’individuo e alla sua identità. A dimostrarlo ci sono gli svariati esperimenti riguardanti il vero reddito di cittadinanza, ovvero l’Universal Basic Income (UBI): il trasferimento di una cifra monetaria ai cittadini di uno stato in modo incondizionato. Quando questo strumento è stato sperimentato, i risultati sono stati un aumento della soddisfazione e del benessere degli individui su ogni fronte senza alcun impatto sull’offerta di lavoro.
“I mercati finanziari sono sempre utili per il corretto funzionamento di un’economia”. La crisi del 2008 è la dimostrazione plastica delle problematicità di un approccio neoliberista ai mercati finanziari. Proprio in quegli anni tornò alla ribalta l’opera di un economista al di fuori del mainstream che tra gli anni ‘70 e ‘80 studiò i mercati finanziari e della loro instabilità: Hyman Minksy. L’economista sosteneva che momenti di crescita incoraggiassero investimenti rischiosi per aumentare i profitti, portando a un’elevata instabilità e quindi a un crollo. Per questo Minsky riteneva necessaria una stringente regolamentazione dei mercati finanziari. Oggi anche l’economia mainstream ritiene che un elevato peso della finanza possa avere impatti negativi sull’economia.
C’è infine un aspetto più contingente che mostra i limiti del neoliberismo: la crisi climatica. Un approccio da libero mercato nei confronti della transizione ecologica porterebbe infatti alla catastrofe climatica più totale. È quindi necessario un intervento dello Stato anche attraverso meccanismi meno invasivi, come una tassa sulle emissioni (carbon tax) e incentivi verso i settori verdi. Questo, ovviamente, nella teoria. Nella pratica le cose si fanno più difficili: infatti politiche come quelle descritte sopra rischiano di erodere il consenso dei governi che le impongono. Basti pensare che fu proprio una carbon tax quella che generò la protesta dei Gillett Gialli.
"Non c'è alternativa"? Dipende
Il problema del neoliberismo, quindi, sta nel ritenere il libero mercato l’unica alternativa. Il libero mercato come naturale cura a ogni problema spacciata non tanto come ideologia, ma come studio e conoscenza delle complessità della realtà e quindi come soluzione squisitamente tecnica. Spesso questo richiamo alla tecnica è un tentativo di delegittimare gli avversari. Come abbiamo visto l’evidenza non è univoca e spesso vi sono divergenze in seno agli esperti sugli effetti di una politica.
All’ingegneria del neoliberismo è quindi necessario, come spiega Dani Rodrik, rispondere con “dipende”. Non esisterebbero quindi politiche valide ovunque e per sempre.
E infatti oggi le circostanze contingenti ci spingono a un rifiuto netto delle ricette neoliberiste. Pandemia, crisi dovuta alla guerra in Ucraina e l’insoddisfazione della popolazione generale nei confronti delle crescenti disuguaglianze - che il neoliberismo ha contribuito ad acuire - rappresentano sfide a cui il neoliberismo non sa dare risposta e che richiedono una nuova fase di protezione e intervento statale. La domanda quindi diventa: prevarrà l’ideologia del neoliberismo o la realtà?
Immagine in anteprima via debatingeurope.eu