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Dal salario minimo alla flat-tax: cosa propongono i principali schieramenti su lavoro ed economia

19 Settembre 2022 3 min lettura

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Dal salario minimo alla flat-tax: cosa propongono i principali schieramenti su lavoro ed economia

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Salari al palo, produttività stagnante, elevato tasso di disoccupazione, debito pubblico al limite della sostenibilità, povertà dilagante: sono questi i temi con cui dovrà confrontarsi anche il prossimo governo dopo le elezioni del 25 di settembre. 

Oggi sono presenti altri elementi di preoccupazione, più contingenti: inflazione che sfiora la doppia cifra, razionamento del gas con contraccolpi su famiglie, lavoratori e imprese, prospettive di recessione globale che si fanno sempre più imminenti con l’incognita di una recrudescenza della pandemia che potrebbe acuire le difficoltà della popolazione e dell’economia. 

Non stupisce quindi che anche l’elettorato consideri i temi economici quelli più importanti. Ma sulla risposta alle difficoltà economiche i programmi degli schieramenti principali offrono risposte differenti che abbiamo provveduto ad analizzare. 

Il Partito Democratico: la fine del liberismo di sinistra? 

Dal punto di vista economico, il Partito Democratico enuncia due pilastri su cui basa la sua visione del futuro del paese: lo sviluppo sostenibile, trainato dalla transizione ecologica e digitale, e il diritto al lavoro. 

Sul primo punto il PD intende seguire la strada tracciata dal pacchetto Fit for 55 europeo, citando inoltre come esempio virtuoso il piano di Biden, Inflation Reduction Act of 2022, che riducendo il debito riesce comunque a investire 369 miliardi di dollari per la sicurezza climatica e la transizione ecologica. 

Ciò, si legge nel programma, avverrà sia con investimenti in mobilità sostenibile sia attraverso una nuova visione strategica del rapporto tra Stato e Mercato. Tale cambiamento passa anche da un rinnovamento della Pubblica amministrazione, su cui il PD vuole puntare con un piano di nuove assunzioni in particolare per giovani e donne. 

I dati infatti mostrano che il nostro paese, oltre a un numero esiguo di lavoratori, presenta un’elevata incidenza di lavoratori più anziani, record negativo nell’area OCSE.

Questo comporta anche un’arretratezza dal punto di vista delle tecnologie e quindi dell’efficienza della pubblica amministrazione. I ritardi su questo fronte, che impattano sulla produttività della PA, risultano estremamente gravosi nel rapporto con il privato: nel nostro paese l’interazione con la PA può essere fino a 5 volte più dispendiosa per un’azienda rispetto a quanto succede in Canada.

Ma è sul secondo fronte che si ritrovano proposte più ambiziose. A partire da una revisione della stagione della precarietà sul mercato del lavoro- a cui il Partito Democratico ha contribuito ad esempio con il Jobs Act. In particolare viene citato come esempio ispiratore quello della riforma del mercato del lavoro in Spagna, portata avanti dalla Ministra Diaz.

La riforma, sottolinea Paolo lo Cascio dell’Università di Barcellona, si fonda su quattro pilastri: 

  1. Recupero dei contratti collettivi rispetto a quelli d’impresa, con un maggior peso delle organizzazioni sindacali; 
  2. Obbligo per le imprese di multiservizi di rispettare le condizioni del contratto collettivo del settore;
  3. Estensione della cassa integrazione;
  4. Limite all’uso di contratti temporanei, prediligendo invece il contratto a tempo indeterminato. 

Quest’ultimo punto è particolarmente importante per il nostro paese dove i contratti a tempo determinato non esitano a fermarsi, sia come peso sull’occupazione sia in valore assoluto. Per farlo però il PD dovrà di fatto fare mea culpa per le riforme precedenti, che hanno invece teso a precarizzare il lavoro. 

Vi sono poi temi come quello della democrazia economica con la cogestione delle imprese sul modello tedesco e l’incentivazione del workers buyout (il sostegno finanziario e manageriale alle lavoratrici e ai lavoratori che intendono rilevare le aziende in crisi), della sperimentazione della settimana corta a parità di salario, del rilancio dell’edilizia popolare, dell’abolizione dei tirocini gratuiti. Viene recepita, inoltre, l’approvazione di un in work benefit, un aiuto per i lavoratori poveri, come suggerito dalla commissione apposita. 

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All’interno del programma è presente la proposta di Enrico Letta sul fondo di maturità ai diciottenni, ovvero la dote di 10 mila euro, finanziata attraverso un aumento dell’imposta di successione. Quest'ultima è una misura indispensabile: certamente il gettito dell’imposta è esiguo, ma il nostro paese incassa fino a 13 volte in meno rispetto ai partner europei. Non vi sarebbero effetti sulla crescita né sulle famiglie, visto che si tratta comunque di un aumento che andrebbe a colpire i patrimoni più ingenti. 

Anche la dote ai 18enni è una proposta condivisibile, ma presenta delle insidie. A differenza della proposta del Forum Disuguaglianze e Diversità di Fabrizio Barca, infatti, la proposta di Letta non è universale, ma viene erogata in base all’ISEE familiare. Qui l’applicazione sarà importante. 

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Due proposte lasciano invece perplessi. La prima è quella sul salario minimo. L’idea, già presentata al tempo del governo Draghi, è quella di osservare per ogni settore quale sia il contratto collettivo nazionale più rappresentativo, per poi estendere la paga minima di questo contratto a tutto il settore.

Ma molti contratti collettivi nazionali hanno dei minimi che non superano i 9 euro l’ora, se non addirittura gli 8. In sostanza, in tanti rimarrebbero con un salario misero, esattamente come prima. Il programma parla, in maniera vaga, di un minimo per i settori a più alta incidenza di povertà lavorativa, ma appunto resta tutto piuttosto fumoso.

Con la proposta, inoltre, si perderebbe l’idea di universalità del salario minimo, ovvero avere una cifra fissata pari per tutti i settori e tutti i lavoratori, come nel disegno di legge Catalfo e negli schemi degli altri paesi europei.

L’universalità del salario minimo, infatti, appare condizione necessaria in una situazione come quella italiana, dove la densità sindacale, soprattutto nel settore privato, è andata calando negli ultimi anni, ben al di sotto rispetto ai paesi nordici che non hanno salario minimo.

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La seconda è quella di una mensilità in più per combattere l’erosione del potere d’acquisto dovuto all’inflazione. Questa secondo il PD sarebbe finanziata “con l’introduzione progressiva di una franchigia da 1.000 euro sui contributi Inps a carico dei lavoratori dipendenti”. Oltre al costo per le casse dello Stato, questa proposta rischia in realtà di andare più a favorire le aziende che non i lavoratori, come ogni taglio delle tasse in assenza di correttivi.

Il Movimento 5 Stelle: la virata a sinistra

Il programma del Movimento 5 Stelle, ben più scarno di quello del Partito Democratico, si avvicina in realtà alle proposte del centrosinistra su molti temi, anche se in alcuni casi con sostanziali differenze. 

Alcuni punti del programma colgono correttamente la situazione italiana, in particolare quelli su Salario Minimo e Reddito di Cittadinanza. Il primo fissato a livello legale a 9 euro lordi l’ora; il secondo punto invece riguarda un cambiamento sulle politiche attive, parte intengrante del reddito di cittadinanza che hanno però fallito.

Al salario minimo legale sono avanzate due critiche: di ridurre l’occupazione e di essere contro la storia delle nostre relazioni industriali

Nel primo caso, però, si sottovaluta lo sbilanciamento di poteri rispetto alle imprese: in Italia infatti il fenomeno del monopsonio è presente, con punte di incidenza al 50% al Sud. Significa che le aziende pagano meno rispetto a quello che si produce: ciò permette loro di fare maggiori profitti a fronte di stipendi più bassi e minor occupazione.  

Ovviamente dire salario minimo è riduttivo, la vera domanda dovrebbe essere: a quanto? Secondo uno studio commissionato dal governo britannico, un salario minimo che non va oltre il 60% del salario mediano non ha effetti negativi sull’occupazione. La proposta del Movimento 5 Stelle di un salario minimo legale a 9 euro l’ora rientra in questo intervallo, secondo uno studio recente dell’European Network of Economic and Fiscal Policy Research - anche se, avvertono gli autori, l’analisi è stata svolta solo sul settore manifatturiero, dove l’incidenza di lavoro nero è minore. 

Riguardo invece le relazioni industriali, l'Italia condivide con i paesi scandinavi la contrattazione centralizzata, attraverso la stipulazione di contratti collettivi nazionali firmati dalle sigle sindacali. Ma, a differenza di Svezia e Finlandia, il peso dei sindacati in Italia è andato drasticamente diminuendo e lo strumento dei contratti collettivi nazionali svuotato: basti pensare che dal 2012 al 2021 sono aumentati dell’80%, rispondendo non alla necessità di nuove tutele quanto a meccanismi di pressione su salari e condizioni lavorative, come fa notare Fulvio Fammoni della Fondazione Di Vittorio. 

Anche sul Reddito di Cittadinanza la proposta del Movimento 5 Stelle va nella direzione giusta. Non si deve dimenticare che il provvedimento comprende non solo il trasferimento monetario, ma anche le politiche attive - quelle dei famosi navigator. Sul fallimento di quest’ultima parte vi è un accordo pressoché unanime all’interno degli schieramenti politici, compreso il Movimento 5 Stelle che chiede appunto un cambio di passo.

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Sul trasferimento monetario, invece, la situazione è più delicata rispetto agli attacchi rivolti in questi anni dalla politica: il trasferimento è effettivamente sbilanciato, avvantaggiando i single rispetto alle famiglie, ma si tratta appunto di cambiamenti infinitesimali rispetto a uno smantellamento o una riforma radicale. 

Nel programma si leggono anche altre proposte condivisibili e che si sovrappongono al programma del Partito Democratico: l’abolizione dei tirocini e stage gratuiti, il contrasto al fenomeno della precarietà con riforme per rafforzare l’utilizzo di contratti a tempo indeterminato, la sperimentazione della settimana corta a parità di salario, il rilancio dell’edilizia popolare. 

Altri punti invece presentano problemi. Tra tutti, ovviamente la strenua difesa del Superbonus. Le critiche riguardanti le truffe sono deboli: a lasciare perplessi sono invece i calcoli sui benefici della misura a livello di credito d’imposta, che si concentrano nelle fasce più abbienti della popolazione. Poiché, come fanno notare gli estimatori, il superbonus ha comunque avuto un impatto sulla crescita italiana degli ultimi due anni, meglio sarebbe stato allocare quelle risorse proprio nell’edilizia popolare, largamente sottofinanziata nel nostro paese. 

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Così anche la riproposizione del cashback, misura fortemente sostenuta dal Governo Conte II, è discutibile. Dopo mesi di dibattito in mancanza di dati, uno studio del Ministero dell’Economia e delle Finanze ha chiarito come la misura sia funzionata a metà. 

Grande assente poi all’interno del programma del Movimento 5 Stelle è la tassazione dei grandi patrimoni: il programma fiscale manca di mordente per la nuova agenda sociale inaugurata da Giuseppe Conte. 

Destra: rilanciare l’economia, ma senza intaccare le disuguaglianze 

A differenza di Partito Democratico e Movimento 5 Stelle il programma unitario della coalizione di destra non tocca il tema delle disuguaglianze, quanto quello del rilancio economico e del taglio delle tasse.  

Quest’ultimo attraverso uno dei cavalli di battaglia della coalizione, ovvero l’introduzione della cosiddetta flat tax. Nel programma comune si parla dell’estensione della flat tax per le partite iva, varata dal primo governo Conte, a 100 mila euro, flat tax su reddito incrementale rispetto alla media degli anni precedenti con l’intenzione di arrivare a una vera e propria flat tax. All’interno dei singoli programmi e nelle proposte già depositate però persistono delle differenze. Le proposte in campo sono infatti tre. 

La prima è quella di Fratelli d’Italia, espressa dal responsabile di Economia e Finanze del partito Maurizio Leo in una lettera al quotidiano La Repubblica. Scrive Leo: 

L’idea di fondo è semplice: su tutto ciò che si dichiara in eccedenza rispetto al pregresso, si pagheranno meno tasse, “solo” il 15%. Questa tassazione deve riguardare il solo anno in cui l’incremento direddito si realizza, mentre non sarebbe sensato un trascinamento del beneficio nei successivi, se non in relazione a eventuali ulteriori incrementi.

Inoltre, la nostra proposta parte dal presupposto che il reddito da incentivare vada determinato non per confronto con l’anno precedente, bensì rispetto al reddito annuale massimo dichiarato in un periodo pluriennale di riferimento.

Il primo limite della proposta è che viola il cosiddetto principio di equità orizzontale. Se infatti prendiamo due individui con lo stesso reddito l’anno dopo l’introduzione di una flat tax sul reddito incrementale, il livello di tassazione sarà diverso in base al reddito medio dichiarato in precedenza. 

Non si può non evidenziare il limite pratico di questa proposta: l’incremento di reddito viene tassato allo stesso modo indipendentemente dal livello precedente di fatto, penalizzando i contribuenti meno abbienti. 

Dimostra infatti l’analfabetismo economico dei suoi sostenitori, che spazzano via il principio di progressività dell’imposta sul reddito, nonostante il livello di godimento - in gergo tecnico l’utilità - data dall’incremento di reddito sia maggiore per le fasce meno abbienti: con 100 euro in più un operaio può fare la spesa per sé e la sua famiglia, un ricco invece non ha bisogno di 100 euro. Per questo qualunque paese occidentale ha improntato il suo sistema fiscale alla progressività. 

Inoltre, fanno notare in un loro articolo su La Repubblica gli economisti Tito Boeri e Roberto Perotti questo meccanismo favorisce chi sta avendo un aumento di reddito rispetto invece a chi ne ha una contrazione.  

La seconda proposta è quella della Lega di Matteo Salvini. Come ha fatto notare il deputato di Italia Viva Luigi Marattin quanto proposto dalla Lega tende in realtà a un sistema estremamente complesso, che distingue il reddito delle famiglie se sono composte da una singola persona, da due coniugi di cui uno solo è contribuente o da due coniugi contribuenti. In base al tipo di famiglia si calcolano le deduzioni fiscali che vanno a diminuire la base imponibile. Per evitare però distorsioni la proposta della Lega arriva, a conti fatti, a introdurre 18 aliquote IRPEF. Così si perde anche l’unico vantaggio della Flat Tax, ovvero la semplicità. 

La terza proposta è quella di Forza Italia, ovvero un’imposta piatta al 23% con l’estensione della No Tax Area - ovvero la platea di contribuenti che non paga IRPEF. 

Nonostante non ci sia un accordo nel centrodestra sull’aliquota unica da applicare, l’idea stessa di una tassa piatta lascia alquanto perplessi. D’altronde gli unici paesi che hanno una tassazione di questo tipo sono gli ex paesi comunisti, dove le disuguaglianze di reddito erano inferiori quando venne istituita. Due sono le problematiche principali. 

La prima è l’esborso per lo Stato, che costerebbe 80 miliardi, in un paese che da anni presenta problemi enormi dal punto di vista del debito pubblico. 

La seconda problematica riguarda appunto gli effetti redistributivi: la flat tax, sia nell’ipotesi al 23% sia al 15%, avvantaggerebbe le fasce più abbienti della popolazione. Secondo le stime il risparmio totale, in entrambi i casi, andrebbe per la maggior parte- 42% e 54% rispettivamente per la proposta al 23 e al 15- al 10% più ricco del paese. 

Una delle risposte a questa critica è che la flat tax incentiverebbe l’offerta di lavoro. O, per citare le parole sempre di Maurizio Leo di Fratelli d’Italia, “uno stimolo ad alzarsi dal divano”. Questo tipo di risposte denotano una scarsa conoscenza della letteratura economica in materia di tassazione ottimale, basti pensare, tra gli altri ai lavori di Saez e Diamond. Il risultato, nella pratica, è che un taglio delle tasse di questo tipo non aumenta la produttività, non ha effetti sulla crescita ma peggiora solo le disuguaglianze. 

Il programma della destra per rilanciare l’economia non si ferma alla flat tax. Oltre a proposte vaghe come la spesa per infrastrutture strategiche, come il Ponte sullo Stretto, ritenuto ininfluente per la crescita italiana dagli esperti, l’altra proposta per rilanciare l’economia è di nuovo nel programma di Fratelli d’Italia: il principio del “più assumi, meno tasse paghi”. 

Nonostante non si conoscano i dettagli, un meccanismo di questo tipo non può che lasciare perplessi: certo, in Italia il problema della produttività è intrinsecamente legato alla dimensione delle aziende. Ma agire sulla leva fiscale potrebbe servire a poco, in quanto il problema italiano resta la dimensione d’impresa: il nostro tessuto industriale è infatti formato da poche grandi aziende- spesso pubbliche-e una miriade di piccole e medie imprese. Queste ultime presentano una produttività inferiore rispetto alle corrispettive europee, azzoppando quindi la crescita del nostro paese. Non si capisce in che modo questa tassazione agevolata possa risolvere questo problema, soprattutto tenendo conto che non è il costo del lavoro il problema italiano. Come mostrano i dati, nel nostro paese la quota salari - ovvero quella porzione del reddito nazionale dedicata al fattore lavoro- è calato nel corso degli anni come nel resto d’Europa, ma partendo da quote inferiori. Così come i profitti delle aziende sono aumentati lasciando al palo i salari. 

Che cosa emerge? 

Sfogliando i programmi economici, quindi, appaiono le divisioni tra destra e sinistra - nonostante qualcuno volesse mandarle in soffitta. Il Partito Democratico si presenta alle elezioni con il programma più a sinistra della sua storia, con temi cari alla socialdemocrazia e in grado di attaccare le disuguaglianze. Resta però un problema di fondo: il PD è stato al governo a lungo in questi anni e molte riforme che oggi critica sono state approvate proprio quando erano al governo: è una rottura con il passato sincera oppure no? 

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Il programma del Movimento 5 Stelle più che tassa e spendi è solo spendere. Manca del tutto la parte sulla tassazione dei grandi patrimoni e l’utilizzo della leva fiscale per combattere le disuguaglianze di reddito. 

Al contrario la destra ha incentrato la sua campagna elettorale sulle tasse, proponendo quello che, alla prova dei numeri, è un taglio delle tasse ai più ricchi- smentendo così chi parlava di destra sociale.

Immagine in anteprima via pxhere.com

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