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Scuola dell’infanzia obbligatoria: “Una proposta saggia, detta con voce flebile”

6 Settembre 2022 8 min lettura

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Scuola dell’infanzia obbligatoria: “Una proposta saggia, detta con voce flebile”

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“Dobbiamo rendere obbligatoria la scuola d’infanzia e allungare l’obbligo scolastico fino alla maturità. Sono due scelte importanti e fondamentali”. Lo scorso 23 agosto, quando il segretario del Partito Democratico Enrico Letta ha presentato una delle proposte elettorali del Pd dal palco del meeting di Rimini, è stato accolto da fischi e malumori. Il pubblico dell’evento, proveniente dal movimento cattolico Comunione e Liberazione, non ha apprezzato l’idea di estendere l’obbligo scolastico anche alla fascia 3-5 anni. 

Oggi, in Italia, l’istruzione è obbligatoria dai 6 ai 16 anni. L’idea del Partito Democratico è quella di puntare sulla formazione obbligatoria e gratuita fin dai primi anni di istruzione per ridurre le differenze territoriali. “In Italia, un bambino su dieci non frequenta la scuola dell’infanzia (3-5 anni) e meno di uno su tre – con accentuate differenze territoriali - accede al nido. In questo modo, già in tenerissima età, si creano le prime odiose diseguaglianze nell'accesso a un sistema educativo di qualità e a un'alimentazione sana”, si legge nel programma del Pd. “Ecco perché la nostra proposta è per gli asili nido 0-3 anni, l'estensione dell'offerta e sempre maggiore tendenziale gratuità- ha spiegato Letta in un video pubblicato sui suoi canali social - E poi la scuola dell'infanzia dai 3 ai 6 anni: universale, gratuita e quindi obbligatoria. Se faremo così nessun destino sarà già scritto”.

La misura è stata criticata da quasi tutte le altre principali forze politiche. Per il leader di Azione Carlo Calenda, Letta “ha detto una cosa che non si può sentire. L'obbligo fino ai 18 anni sta nel nostro programma ma essere costretti a mandare i nostri figli a scuola dalla materna non si può sentire". La ministra per il Sud Mara Carfagna, passata ad Azione dopo aver militato in Forza Italia, ha definito la proposta “in perfetto stile sovietico” e “fuori dalla realtà”. “Lo sa Enrico Letta che l'offerta di nidi e asili in molti Comuni del Sud non arriva al 15 per cento dei bambini residenti? Lo sa che al Sud oltre il 60 per cento delle madri non è occupata né può esserlo per mancanza di asili?- ha detto Carfagna- Torni nella realtà: la sola, colossale operazione in favore dei bambini e delle madri è quella pensata e realizzata con gli investimenti del PNRR e con la definizione dei Livelli Essenziali di Prestazione”. 

Come ha ribadito anche in seguito, per Carfagna il problema è la distinzione “tra obbligo e diritto”: "Il governo ha promosso il diritto, finanziando la costruzione di asili, scuole, mense e palestre per il tempo pieno. L'obbligo è un'altra cosa, peraltro impraticabile se non hai strutture". Ma il Partito Democratico difende la misura e sottolinea l’importanza dell’obbligo. “Chi sostiene che sia una proposta 'sovietica', perché 'l'educazione è compito della famiglia' accetta e avalla le enormi diseguaglianze che esistono tra le famiglie - ha scritto in un articolo pubblicato su Il Manifesto Claudia Pratelli, l’assessora alla Scuola del Comune di Roma - Sembra incredibile dover ricordare che non è una scelta nascere in una famiglia più attrezzata culturalmente, più fortunata, o più presente. Una società democratica si dovrebbe fondare su una responsabilità collettiva degli adulti riguardo alle bambine e ai bambini e alle loro opportunità. Questa è poi una delle grandi fratture tra opzioni politiche storicamente opposte: chi riconosce solamente il primato dell’individuo e chi invece crede in una comunità solidale”.

Politici e giornalisti, nel commentare le parole di Enrico Letta, hanno però confuso due livelli diversi di istruzione: quello dedicato alla fascia 0-3 (asili nido) e quello per gli studenti che vanno dai 3 ai 6 anni (scuola dell’infanzia, detta anche “materna”). La proposta del Partito Democratico, prevede che ad essere obbligatoria e gratuita sia la sola scuola dell’infanzia. 

Intervistato da Repubblica, Franco Lorenzoni, insegnante, scrittore e fondatore della casa-laboratorio di Cenci, ha detto che si tratta di “una proposta saggia, detta però con voce flebile perché lo scontro sarà duro. Sulla scuola materna statale, gratuita e facoltativa, cadde il governo Moro nel 1966. Poi la legge passò nel 1968. Ci sono grandi interessi privati sulla fascia dei bambini dai tre ai sei anni, anche per carenza di posti nel pubblico. È evidente che, se la scuola dell'infanzia diventasse obbligatoria, lo Stato ne dovrebbe assicurare la gratuità per tutti".

Per Andrea Gavosto, direttore della Fondazione Agnelli, “anticipare l’età di inizio della formazione universale non dovrebbe presentare difficoltà insormontabili, almeno a partire dai 5 anni, dato che a quell’età più del 90% dei bambini già va alla scuola dell’infanzia”. Più precisamente, la percentuale di alunni tra i 3 e i 5 anni che frequenta una scuola dell’infanzia è del 94,6% (dati del 2020, raccolti da OpenPolis), un dato superiore alla media europea.

Ha senso, quindi, proporre un obbligo scolastico se già la maggior parte degli alunni 3-5 frequenta la scuola? Per la sociologa Chiara Saraceno, la misura sarebbe comunque auspicabile. Come ha spiegato in un suo intervento su Repubblica, l’ostilità degli oppositori “non riguarda il servizio in sé”, ma “il fatto che sia pubblico, ovvero, sperabilmente, pluralistico, aperto alle differenze e inclusivo di tutti”, ed “è motivata dalla rivendicazione di un diritto proprietario dei genitori sull’educazione, quindi anche sulle chance di vita, dei loro figli e figlie. Un diritto proprietario che finisce sia per ribadire le disuguaglianze e la loro riproduzione intergenerazionale, sia cristallizzare differenze culturali e valoriali”. Estendere l’obbligo scolastico a partire dai 3 anni, quindi, ridurrebbe le disuguaglianze territoriali. “Nel Mezzogiorno i tassi di copertura sono infatti inferiori a quelli del Centro-Nord, anche se ben più alti di quelli denunciati dall’onorevole Carfagna nella sua incomprensibile critica alla proposta di Letta, mettendo insieme nidi e scuole dell’infanzia. E molte scuole dell’infanzia nel Mezzogiorno sono a tempo parziale e senza mensa”. 

Questo produce l’effetto dell’iscrizione precoce alla scuola primaria: in mancanza di strutture per l’infanzia, viene anticipata l’iscrizione alla scuola elementare. “Non chiamiamolo obbligo, se la parola non piace, anche se è una scelta fatta già dal 90% dei genitori e chi non la fa è spesso proprio chi – straniero, o in condizione di forte marginalità sociale - dovrebbe essere incoraggiato a mandare i bambini alla scuola dell’infanzia. Chiamiamola offerta universale e gratuita a favore dei più piccoli, ed anche dei loro genitori”, conclude Saraceno nel suo articolo. 

Del tutto diversa, invece, è la situazione per gli asili nido. Nell’anno scolastico 2019/2020, con 361.318 posti, il livello di copertura degli asili nido in Italia (definito come numero di posti nei servizi educativi per 100 bambini residenti sotto i 3 anni) era del 26,6%, ben al di sotto del target europeo del 3%, sottolinea l’Osservatorio conti pubblici italiani. Una media dietro la quale si nasconde però un forte squilibrio territoriale: se al Centro-Nord la percentuale sale al 30%, al Sud è ferma al 10% circa. Di questi posti, meno del 50% è offerto dal servizio pubblico. 

Leggi anche >> La crisi della cura dell’infanzia e gli asili nido che non ci sono

Il PNRR prevede una spesa di 4,6 miliardi per aumentare l'offerta di strutture per l'infanzia: il target fissato per dicembre 2025 è quello di creare 264.480 nuovi posti per asili nido e scuole per l’infanzia, anche se, almeno formalmente, non vengono fissati obiettivi separati tra i primi (fascia 0-3 anni) e i secondi (fascia 3-6). “Questo non è ottimale perché per l’Italia le maggiori carenze riguardano gli asili nido e non le scuole per l’infanzia”, scrive ancora l’Osservatorio Cpi nella sua pubblicazione. 

Dei 4,6 mld solo la metà era dedicata esclusivamente alla creazione di nuovi posti di asili nido (2,4 miliardi), mentre gli altri erano stanziati per il personale o per scuole dell’infanzia (altri 700 milioni erano destinati alla costruzione di asili nido già previsti dal Dpcm del 30/12/2020). I 2,4 miliardi previsti dal bando erano ripartiti tra i Comuni in base a due criteri: 1,8 miliardi (75%) in base alla carenza nel numero di posti di asili nido; 600 milioni (25%) in base alla popolazione tra gli 0 e 2 anni prevista al 2035. Il 55,3% doveva essere assegnato al Sud. Ma allo scadere del bando, le domande arrivate coprivano uno stanziamento di soli 1,2 miliardi. Il ministero dell’Istruzione ha quindi deciso di estendere i termini del bando e creare una task force per supportare i comuni nella presentazione delle domande. Le richieste sono arrivate così a 2 miliardi, portando la copertura degli asili nido al 43,4% (poco sotto l’obiettivo del 45,5%). In una nota, il ministero dell’Istruzione ha fatto sapere che i 400 milioni residui saranno destinati all’ulteriore finanziamento delle candidature già pervenute nell’ambito del bando PNRR per l’incremento dei poli dell’infanzia per la fascia 0-6 anni. In seguito a questa prima operazione, circa 70 milioni ancora residui saranno oggetto di un nuovo bando per gli asili nido destinato ai Comuni delle Regioni del Mezzogiorno, con priorità a Basilicata, Molise, Sicilia, che hanno presentato meno candidature rispetto al budget che poteva essere loro assegnato in base alle risorse disponibili nel PNRR. 

“Rispettiamo gli impegni presi con l’Europa: tutte le risorse disponibili vengono utilizzate- ha detto il ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi- Aumentare il numero di posti negli asili nido significa dare più opportunità educative per le bambine e i bambini su tutto il territorio, sostenere le famiglie e l’occupazione femminile”, ha concluso il ministro.

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Secondo l’economista italiano Gianfranco Viesti, “il ministero avrebbe potuto disegnare un piano di sviluppo del servizio in Italia, individuando aree e municipalità nelle quali realizzare gli interventi. Invece, anche in questo caso si è deciso di procedere con un bando. La questione è importante, delicata: si può pensare che sia opportuno chiedere agli amministratori se desiderano attivare o potenziare il servizio e selezionare progetti realizzabili entro il 2026. Ma i diritti di cittadinanza dei bambini e delle bambine dovrebbero essere garantiti da una forte spinta politica nazionale”. Per Viesti un altro errore è stato destinare il bando a tutti i Comuni, e non solo a quelli che avevano più bisogno di queste strutture. “Si sono usati invece due criteri, con un peso rispettivamente del 75% del 25%, determinato autonomamente dal Ministero dell’Istruzione”, ha scritto Viesti, che ha criticato anche il breve lasso di tempo concesso ai Comuni per presentare le domande.

In conclusione, secondo l’economista il problema è proprio l’attribuzione delle risorse attraverso lo strumento dei bandi. “Le nuove reti dei servizi si strutturano così dal basso, a richiesta. Se questo può portare ad avere maggiori certezze sulla cantierabilità, e quindi sulla realizzazione, delle opere, e a selezionare i progetti ritenuti “più meritevoli”, certamente non soddisfa l’esigenza di avere una piena copertura. Cioè a raggiungere quello che dovrebbe essere l’obiettivo politico più importante: offrire il servizio del nido a tutti i bambini piccoli italiani, alla “nuova generazione”, indipendentemente da dove hanno la ventura di nascere. Invece, se si nasce in un Comune la cui Amministrazione è meno sensibile al tema, che non ha esperienza del servizio e non sa bene come fare, che è troppo piccolo per garantire un numero minimo di utenti, o collocato in una regione che ha raggiunto il plafond degli stanziamenti disponibili, che teme di non avere sufficienti risorse correnti per gestirlo, o che semplicemente non ha le risorse tecniche per rispondere ai bandi, si resta senza”.

Immagine in anteprima via openpolis.it

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