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Perché non ha senso parlare di immunità per SARS-CoV-2

28 Luglio 2022 7 min lettura

Perché non ha senso parlare di immunità per SARS-CoV-2

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Studiare i processi immunitari di una malattia completamente nuova richiede molta ricerca scientifica. In due anni siamo riusciti a capire molte più cose su SARS-CoV-2 di quanto abbiamo mai compreso nello stesso breve periodo a proposito di altri virus. Abbiamo ormai capito per esempio che parlare di immunità di gregge per SARS-CoV-2 ha poco senso. Come non esiste un’immunità di gregge per l’influenza che arriva diversa ogni anno – concorda chi studia la malattia da due anni -  non esisterà un’immunità di gregge per questo nuovo Coronavirus o comunque sarà difficile da raggiungere con un virus che cambia frequentemente. Ma questo non significa che non riusciremo a conviverci con il tempo: gli scienziati oggi hanno compreso i meccanismi del sistema immunitario che possono aiutare a individuare i soggetti veramente a rischio di sviluppare una forma grave di malattia; abbiamo farmaci che funzionano molto bene come gli anticorpi monoclonali e i nuovi antivirali, e abbiamo vaccini che comunque riescono nella maggior parte dei casi a evitare l’aggravarsi della malattia.

Poi, come i governi e le autorità sanitarie hanno saputo, sanno e sapranno tradurre in pratica ciò che la scienza ha scoperto, è faccenda ben più articolata.

Servono risposta innata e risposta acquisita. Insieme

La nostra risposta immunitaria si compone di due bracci: l’immunità innata e quella acquisita. L’immunità innata è quella generica frutto dell’evoluzione, dovuta al fatto che i virus sono più antichi di noi, e pertanto da quando le prime cellule biologiche sono comparse sulla Terra hanno dovuto combattere entità che le attaccavano. Tutte le cellule e gli organismi viventi hanno sviluppato meccanismi di difesa, piante incluse. L’immunità innata è quindi la prima linea di difesa, che non funziona sviluppando anticorpi, ma attivando dei sensori che avvertono le nostre cellule che sta arrivando un virus, cioè un’informazione genetica “aliena” - questo di fatto è un virus: un’informazione genetica che da sola non può vivere e che quindi duplica se stessa in un organismo ospite. Questi segnali indotti spingono le cellule a difendersi producendo delle molecole – gli interferoni, una serie di citochine – per neutralizzare l’invasione. 

Accanto all’immunità innata esiste quella acquisita una volta entrati in contatto con il virus o con un vaccino. I nostri globuli bianchi, che ricordano il virus che hanno già incontrato una volta, producono gli anticorpi per difendere il corpo da attacchi futuri dello stesso patogeno. Chiaramente, più il virus muta, più può sfuggire al radar di questi anticorpi.

Perché c’è chi muore di COVID-19 mentre altri sono asintomatici?

“Why do people die from COVID-19?”, titolava un lungo approfondimento apparso su Science nel febbraio 2022. «Con COVID-19 abbiamo assistito a una novità assoluta: un gap enorme tra persone asintomatiche e altre, anche sane, che finivano in ospedale in terapia intensiva. Qualcosa non funzionava nell’immunità innata di queste persone», spiega a Valigia Blu Giuseppe Novelli, professore ordinario di Genetica Medica presso la Facoltà di Medicina e Chirurgia dell'Università di Roma “Tor Vergata”. 

Ci sono state due grandi scoperte in tal senso, una nel 2020 e una nel 2021, pubblicate su Science, una delle riviste scientifiche più note al mondo, che hanno chiarito il ruolo dell’interferone nell’evoluzione negativa della malattia. Un primo studio ha mostrato che il 5% dei malati gravi presenta un difetto genetico nella produzione di interferone, mentre una seconda ricerca, edita fra il 2021 e il 2022, ha chiarito che la restante parte dei malati gravi che finiscono in terapia intensiva non avendo difetti nella produzione di interferone, presenta in realtà un difetto genetico che fa sì che il sistema immunitario distrugga l’interferone che il corpo produce, rilasciando autoanticorpi anti interferone. In altre parole, da più parti emerge l’evidenza che quasi tutti i malati gravi presentano qualche problema dell’interferone. 

Inoltre, gli autoanticorpi che neutralizzano gli interferoni di tipo I aumentano con l'età. “Da poco COVID-19 è annoverato fra le Interferonopatie, le malattie che coinvolgono l’interferone. L’esistenza stessa di questo gruppo di patologie è recente: sono state identificate solo nel 2011. Aver capito che si tratta di malattie legate a un difetto genetico nella produzione o nella distruzione dell’interferone spiega anche perché si possano ammalare gravemente anche i bambini”. Il ruolo chiave dell’interferone emerge anche in un altro studio apparso su Nature nel giugno 2022.

Perché alcuni rari vaccinati finiscono in terapia intensiva?

Abbiamo capito di aver bisogno di entrambe le immunità, innata e acquisita, affinché il vaccino funzioni. I vaccini riducono notevolmente la tossicità delle proteine che finiscono nei polmoni, evitando nella maggior parte dei casi  la malattia grave, e i dati in merito sia clinici che epidemiologici (differenza tra vaccinati e non, ospedalizzati) parlano chiaro. Eppure, qualche raro caso finisce comunque in terapia intensiva. «Anche queste persone presentavano ben prima di aver ricevuto la vaccinazione, questi auto-anticorpi anti interferone. In questo modo anche una volta vaccinati e quindi stimolata la risposta immunitaria acquisita, era come non fossero vaccinati. Chiaramente abbiamo le prove che avevano questa condizione genetica prima della vaccinazione, trattandosi di individui all’interno di uno studio di questo tipo», conclude Novelli.

Leggi anche >> Contagi, cure, vaccinazioni: il punto su COVID-19

Come individuare le persone veramente a rischio di malattia grave

Quando si parla di Medicina Personalizzata si intende la possibilità di “adattare” un trattamento sulla singola persona, a seconda delle sue caratteristiche genetiche, che sono quelle che fanno sì che alcune persone presentino un problema, una patologia o una reazione a un certo farmaco, mentre altre no. Un po’ come quando si propone una certa terapia oncologica solo dopo aver studiato geneticamente il tumore da aggredire. Dal momento che alla base del rischio di malattia grave vi sono aspetti genetici – oltre alla presenza di altre patologie che determinano fragilità per esempio negli anziani – è possibile pensare a dei test di screening di questo tipo in persone appena risultate positive? «Questi test per gli autoanticorpi esistono già, costano relativamente poco e diverse realtà ospedaliere li propongono già a chi si presenta in ospedale positivo», continua Novelli. «Si potrebbe pensare a uno screening più esteso, ma chiaramente la decisione di inserire questo tipo di procedura nei percorsi terapeutici per COVID-19 può spettare solo alle autorità, non agli scienziati». 

Immunità nei bambini. Questione di peso

Carlo Giaquinto, docente di pediatria presso l’Università di Padova, dove si occupa di malattie infettive pediatriche da 35 anni, prima su HIV e ora su COVID-19, coordina un progetto finanziato dalla Commissione Europea per studiare l’impatto di SARS-CoV-2 nei bambini e nelle donne in gravidanza. «Abbiamo appena pubblicato un articolo sul New England Journal of Medicine che evidenzia che l’efficacia della vaccinazione tra i 5 e gli 11 anni (dati israeliani) per evitare l’infezione è minore rispetto ai ragazzi con più di 12 anni e agli adulti, con un trend decrescente di efficacia man mano che dai 5-6 anni si arriva agli 11 anni», ci spiega. «Questo non significa che non vada fatta la vaccinazione, perché in ogni caso la prevenzione delle ospedalizzazioni è alta. Ci siamo chiesti tuttavia il perché di questo fenomeno, e una delle ipotesi è che il dosaggio del vaccino – si è analizzato il vaccino Comirnaty  - nei bambini più grandi possa essere troppo basso rispetto al loro peso». 

Nei vaccini pediatrici, cioè fino agli 11 anni, la dose è di un terzo rispetto a quella che si propone agli over 12, ma fra il corpo di un bambino di 11 anni e quello di uno di 12 anni c’è poca differenza. «Una seconda domanda aperta è perché i bambini prendono COVID-19 molto facilmente ma si ammalano meno degli adulti. Certamente l’infezione è più frequente perché la socialità favorisce la trasmissione delle infezioni, soprattutto nei più piccoli». Uno studio pubblicato su JAMA che ha analizzato gli anticorpi neutralizzanti in bambini più piccoli rispetto ai bambini più grandi e agli adulti suggerisce che i bambini più piccoli hanno più anticorpi e questo potrebbe essere uno degli elementi che proteggono i bambini dalla malattia. 

Funziona di più l’immunità da malattia o da vaccino?

Non sappiamo ancora che cosa “funziona meglio”: vi sono ancora risultati molto contrastanti. «Dobbiamo innanzitutto chiarire se parliamo di protezione verso l’infezione o verso la malattia», spiega Giaquinto. «Sicuramente sia l’infezione che la vaccinazione provocano una risposta immunitaria che protegge dalla malattia grave. Per quanto riguarda invece la protezione nei confronti dell’infezione ci sono diversi elementi che vanno considerati come la durata dell’immunità, le varianti, l’età, e via dicendo».

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Immunità di gregge? Impossibile

Parlare di immunità di gregge (condizione per cui si limita la circolazione del virus) potrebbe aver senso con un virus che non muta, ma non è il nostro caso. SARS-CoV-2 sarà come l’influenza - dicono chiaramente entrambi gli intervistati – il virus è dello stesso tipo ma muta sempre, e prenderla un anno non ci rende immuni per l’anno dopo. «Basta osservare che cosa accade in Sudafrica, dove oltre l’80% della popolazione ha contratto l’infezione, e nonostante questo il virus continua a circolare», spiega Giaquinto. «Saremo sempre in ritardo rispetto al virus con il vaccino. Le varianti sono moltissime, ed è dunque praticamente impossibile avere un vaccino perfetto nel proteggere dall’infezione. Diverso è il discorso se parliamo di prevenzione di malattia. Anche vaccini preparati con virus diversi dalle varianti circolanti proteggono dalla malattia grave».

Abbiamo tanti antivirali e monoclonali, ma li usiamo poco

La soluzione è quindi vaccinarsi, e nel frattempo individuare presto i pazienti a rischio nei quali il vaccino può proteggere meno, e curare queste persone rapidamente con farmaci efficaci. Che ci sono: si tratta degli anticorpi monoclonali e degli antivirali. Questi farmaci vengono utilizzati in pazienti non ospedalizzati dall’inizio del 2022, ma lo sono ancora troppo poco, a detta di entrambi gli esperti. L’Italia ne ha acquistati una gran quantità soprattutto antivirali che verso fine anno scadranno. Monoclonali e antivirali non vengono proposti a tutti, a causa di un certo timore in parte ingiustificato degli effetti avversi o, nel caso dei monoclonali, della complessità di somministrazione. «Gli antivirali, in particolare gli inibitori delle proteasi somministrati per 5 giorni a ridosso dell’infezione sono estremamente efficaci nel ridurre l’ospedalizzazione e complessivamente ben tollerati. Le interazioni farmacologiche infatti sono legate all’ attività inibitoria del ritonavir che però difficilmente compaiono in pochi giorni di terapia», spiega Giaquinto. «Quindi, speriamo che gli antivirali vengano prescritti il più largamente possibile almeno alle persone oltre i 60 anni». 

Immagine in anteprima via Public Health John Hopkins

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