Il governo Draghi: né migliore né peggiore dei suoi predecessori
8 min letturaAnche il Governo Draghi è arrivato al capolinea. I malumori interni al Movimento 5 Stelle, sprigionati dopo l’uscita del ministro Di Maio e dei suoi, si sono fatti sempre più pressanti e l’assenza al Senato durante la fiducia per il DL Aiuti ha spinto il Presidente del Consiglio Mario Draghi a rassegnare le dimissioni, poi respinte da Sergio Mattarella. Prima della crisi di governo che ha portato allo scioglimento delle Camere e al voto il prossimo 25 settembre.
Fino a ridosso del suo insediamento, data la caratura del personaggio e il difficile momento politico (si era nel pieno dell’emergenza pandemica), la nomina di Draghi ha suscitato forti reazioni nella stampa. Da un lato l’adorazione a tratti eccessiva del Presidente del Consiglio da parte dell’intellighenzia liberale del paese, con in prima fila giornali come Il Foglio e Linkiesta: basti pensare all’appellativo Governo dei Migliori. Dall’altro, il governo di Mario Draghi è stato accusato di essere un governo che porta il paese sulla strada della rovina, un liberista spietato.
Entrambe queste visioni in realtà non fanno altro che sposare una linea drammatica rispetto al governo Draghi, un governo della provvidenza, in un caso distruttivo, nell’altro rigenerativo. La verità, ben più banale, è che il Governo Draghi è stato né più o meno alla pari dei suoi predecessori.
Quando Draghi è stato convocato da Mattarella per ricevere l’incarico a seguito della caduta del Conte II, buona parte del paese nutriva speranze nei confronti del Presidente del Consiglio. D’altronde Draghi è stato il più importante banchiere centrale dell’epoca moderna, in grado di imporre la sua linea sul Quantitative Easing ai falchi tedeschi, riuscendo così a salvare l’Euro come dimostra lo spread italiano- nonostante i lati oscuri riguardo la Grecia.
Nel periodo pandemico, inoltre, Draghi aveva sostenuto un deciso cambio di rotta rispetto alle sue posizioni precedenti, spesso moderate sul fronte politico. In un editoriale sul Financial Times, nei mesi più duri della pandemia, aveva invitato a una mobilitazione massiccia sia a livello fiscale sia monetario e nel suo discorso al meeting di Comunione e Liberazione aveva illustrato le sue idee circa il debito pubblico, sostanzialmente diverse rispetto al feticcio per l’austerità.
Dalla speranza alla delusione
La speranza era quindi un governo di unità nazionale, in cui la classe politica italiana metteva da parte i propri interessi elettorali e grazie a tecnici di valore attaccava senza tregua le problematiche del nostro paese.
Questa speranza si è però rivelata un’illusione: come tutti i governi anche quello Draghi si è ritrovato a mediare tra partiti estremamente diversi tra di loro, rappresentanti di istanze e interessi diversi, non con politici illuminati. Proprio per venire incontro alle diverse anime del governo i provvedimenti principali si sono rivelati aggiustamenti minimi e strettamente tecnici. Nonché un record di questioni di fiducia.
Tre sono gli esempi più paradigmatici di questa caratteristica generale del governo Draghi, tra le riforme o in cantiere o approvate: balneari, catasto, riforma IRPEF.
Il caso dei balneari è stato a lungo rimandato dalla politica: la direttiva Bolkestein per la messa in gara delle concessioni balneari è del 2006. Per anni la politica ha tergiversato, cercando di prolungarle: ultimo il Governo Conte I che aveva cercato di spostare l’attuazione della direttiva al 2033, provvedimento poi bocciato dal Consiglio di Stato.
In un paese in cui il turismo e il suo indotto pesano sul 13% del Prodotto Interno Lordo, la questione concessioni balneari è di grande importanza per le casse statali: la relazione tecnica del Decreto Agosto 2020 stima un incasso per le concessioni di 115 milioni a fronte di un giro d’affari di 15 miliardi l’anno, con storie di canoni coperti dall’affitto di un singolo ombrellone per una giornata.
Il governo Draghi è effettivamente intervenuto su questo tema urgente, essendo fissata la scadenza al 2023 dal Consiglio di Stato. Ma a mettere i bastoni tra le ruote del governo sono stati i partiti della sua stessa maggioranza, quelli di centrodestra che, ancora elettoralmente legati al partito d’opposizione Fratelli d’Italia, hanno denunciato la svendita delle spiagge italiane alle grandi imprese straniere. Per calmierare i malumori interni alla maggioranza il governo ha quindi disposto lauti indennizzi per chi perde la concessione da definire con un decreto.
Anche il catasto è uno dei problemi che il paese si trascina da anni. Nonostante i tentativi di riforma, il sistema del catasto è rimasto pressoché quello dal tempo della sua istituzione nel 1939, salvo parziali modifiche, fino all’approvazione a giugno della riforma alla camera. L’urgenza di questa riforma è stata illustrata anche dal ministro Renato Brunetta, membro governista di Forza Italia, che a Il Foglio ha dichiarato i vari intenti della riforma:
- Attualizzare un catasto vecchio di 83 anni, superando l’obsolescenza della definizione delle categorie catastali, che è tra i principali fattori che condizionano la rappresentatività dell’attuale sistema;
- Realizzare la mappatura degli immobili, che “non ci serve per aumentare le tasse, ma per capire lo stato del patrimonio immobiliare”;
- Individuare le “case fantasma” (cioè non accatastate) ovvero quelle per le quali i proprietari non pagano alcuna tassa;
- Combattere l’evasione di gettito che deriva dalle migliaia di immobili e terreni abusivi.
La riforma, come ripetuto dallo stesso Brunetta, non avrebbe portato a un aumento delle tasse sulla casa per gli italiani, tema da sempre sensibile per il centrodestra. Anche il Presidente del Consiglio Draghi sul tema ha dichiarato che la riforma è una mera “operazione di trasparenza”.
Il provvedimento, quindi, per sedare i malumori interni alla maggioranza si è ridotto a una serie di minuzie tecniche, senza veri cambiamenti circa la tassazione sui patrimoni nel nostro paese. Ciò, tra l’altro, non ha fermato la corrente meno centrista di Forza Italia e i salviniani della Lega, che sulla questione catasto hanno costretto il governo a un passo indietro. Il leader della Lega Matteo Salvini ha cantato vittoria: grazie alla Lega e al centrodestra si è sventata la possibilità di un aumento delle tasse, eliminando il valore patrimoniale dalla riforma del catasto.
Infine la questione IRPEF. Argomento caldo nel corso dell’inverno del 2021, l’IRPEF divide i partiti della maggioranza: da una parte il centrodestra che alle elezioni del 2018 ha sostenuto l’introduzione di una flat tax, dall’altra i partiti più a sinistra che sostengono l’esecutivo che chiedevano una maggior equità.
In un primo momento la riforma è stata presentata da parte dei suoi sostenitori, tra cui il più accanito il deputato di Italia Viva Luigi Marattin, come un provvedimento a favore dei lavoratori dipendenti e pensionati, andando a concentrare la maggior parte delle risorse sulle fasce più deboli. Si andava in particolare a ridurre il numero di aliquote, scendendo da 5 a 4, riducendo quella del secondo scaglione e alzando quella successiva. La CGIL però ha obiettato che a conti fatti la riforma va a beneficiare le fasce medio ricche della popolazione. Incalzato sul tema da un giornalista de Il Fatto Quotidiano durante la tradizionale conferenza stampa di fine anno il Presidente del Consiglio l’ha apostrofato con “lei dice cose non vere”.
Successive analisi hanno confermato i vantaggi ai più abbienti della riforma: assieme al Superbonus il valore medio di risparmi – e qui la discussione sarebbe tecnica sull’utilità di un euro aggiuntivo rispetto alle fasce di reddito – andava crescendo, con un picco per la riforma IRPEF tra i 40 e i 60 mila euro.
La riforma era stata un lavoro strettamente tecnico, preferendo l’efficienza all’equità secondo gli esperti. Quello che doveva essere il primo passo di una riforma necessaria si è in realtà trasformato in un saggio lavoro di dettagli tecnici senza avere un’idea di paese dietro. Eppure la tassazione sulle persone fisiche è un problema di non poco conto nel nostro paese: nata come imposta progressiva su tutte i redditi, è stata via via svuotata, con vari redditi come quello da rendite finanziarie assoggettate a tassazione non progressiva, andando ad acuire le disuguaglianze nel nostro paese.
Pandemia, Lavoro e Futuro
Oltre a quelli già citati, nel suo anno e mezzo di governo Draghi ha visto altri temi scaldare l’opinione pubblica.
Ovviamente si è trovato anche a fronteggiare la pandemia, non ancora conclusa. La speranza, nel febbraio del 2021, era che la campagna vaccinale avrebbe riportato una situazione di normalità. Dopo l’ondata di Alpha che ha colpito il nostro paese nella primavera del 2021, riportando gran parte dell’Italia a restrizioni alla mobilità, le vaccinazioni avevano raggiunto un livello tale che ci si aspettava un’estate tranquilla sul fronte COVID. Così però non è stato, con l’arrivo della variante Delta.
Per contenerla, si è limitato all’istituzione del Green Pass, misura utile ma che non ha comunque impedito la diffusione del virus. In inverno, poi, si è assistito prima a una recrudescenza dell’ondata di Delta e all’arrivo di Omicron durante le vacanze di natale che ha costretto milioni di italiani in casa. Abdicando alla definizione stessa di salute pubblica, il governo Draghi si è limitato a irrigidire le norme sul green pass, lasciando alla responsabilità individuale la gestione della pandemia.
Ancora oggi il nostro paese vive una nuova ondata, dovuta alla diffusione delle nuove varianti di Omicron. E anche in questo caso il governo non ha preso misure di contenimento – non tanto il lockdown, quanto mascherine al chiuso e distanziamento –, anzi: non è ancora chiaro quale sia il piano per l’autunno quando è probabile che si assista a una recrudescenza ancora più feroce, rispetto a quella estiva, della pandemia.
Il tema del lavoro, uno dei problemi più sentiti nell’unico paese che ha visto i salari reali calare negli ultimi trent’anni in Europa, è stato uno dei grandi assenti nell’azione di governo. I suoi sostenitori hanno evidenziato come con Draghi i posti di lavoro siano cresciuti maggiormente rispetto ai precedenti governi. La situazione, al solito, è un po’ più complessa. In parte l’occupazione è dovuta al rimbalzo economico avvenuto dopo il 2020, ovvero l’anno più nefasto per la diffusione del virus. Non è quindi merito di Draghi, ma di fattori esterni.
Questa ripresa, tra l’altro, è stata caratterizzata da lavori precari e mini contratti, come ha certificato l’ISTAT. Non si sono viste manovre per risolvere il problema.
Anche istruzione e sanità sono state le grandi assenti. Il governo su questo fronte intende agire attraverso il PNRR, ma, come spiega all’Espresso Elena Granaglia:
Il Pnrr investe soprattutto nelle dotazioni fisiche, mentre servirebbero più risorse per migliorare la qualità e la quantità dei servizi, per sanità, scuola e trasporti. Secondo il governo, gli investimenti del Pnrr garantiranno dei risparmi tali da coprire le maggiori risorse necessarie per il welfare e i servizi, ma non c’è alcuno studio o documento a supporto di tale affermazione.
Il governo Draghi, con la sua finanziaria, ha invece puntato di più sulla spesa corrente, sia attraverso bonus sia attraverso taglio delle tasse. Interventi fatti proprio per tenere assieme la sua maggioranza, senza cambiare il futuro del paese.
Veniamo infine al tema PNRR. Sicuramente il Governo Draghi ha svolto i compiti a casa per potere ottenere i fondi, ma la sua attuazione lascia spazio a interrogativi. Affinché la spesa sia ben indirizzata, infatti, è necessaria una pubblica amministrazione funzionante e rinnovata: abbiamo d’altronde la Pubblica Amministrazione più anziana tra i paesi OCSE, con problemi legati alla digitalizzazione e ai compensi squilibrati tra dirigenti e non.
I tentativi del Ministro Brunetta e dei suoi predecessori di rimpolpare la pubblica amministrazione, con forze giovani e capacità anche al di fuori del diritto, non sono andati a buon fine.
Sulla transizione ecologica, tassello fondamentale del PNRR, il Governo Draghi non ha brillato, con il ministro Cingolani più impegnato a castigare i giovani “ambientalisti radical chic” che a sbloccare la burocrazia dietro le rinnovabili: nonostante un aumento del ritmo delle autorizzazioni per i progetti rispetto al 2013-2019, non è abbastanza in un periodo di guerra e crisi climatica, tanto che gli esperti del settore chiedono di accelerare. Secondo i calcoli dell’Università di Firenze uno snellimento delle regole porterebbe un incremento medio del 29% di potenza di rinnovabili installata.
Sembra anzi che, da prima dell’invasione russa, il governo Draghi abbia spinto per un maggior utilizzo del gas italiano, nonostante i limiti odierni e futuri di una strategia di questo tipo.
Il problema, ancora una volta, è l’enfasi su un approccio tecnico relegato all’amministrazione dell’esistente, piuttosto che un modello di paese sul lungo periodo. In linea con quanto detto prima: con una maggioranza così larga, con diverse visioni di paese, ci si riduce alle virgole.
La tecnica non è la soluzione
Questo è il motivo per cui il governo Draghi, mediocre nella pratica, non poteva funzionare nemmeno nella teoria, ovvero con partiti più responsabili: perché la politica non è riconducibile alla mera tecnica.
In Italia da ormai trent’anni vi è questa fascinazione per il tecnico della Provvidenza in grado di invertire la rotta votata al disastro del nostro paese. La storia comincia con Ciampi e poi in qualche modo Dini, Monti e infine Draghi. Tecnici, lontani dalla politica meramente partitica e quindi, secondo la narrazione, poco interessati alle manovre puramente elettorali.
Dietro questa fascinazione per la tecnica, oltre appunto a una quantomeno irrazionale speranza nell’uomo della provvidenza, vi è l’idea che il nostro paese sia una gigantesca macchina che, ormai da trent’anni, si è inceppata. Per aggiustarla servirebbe una sorta di Politico-Idraulico, consapevole del funzionamento meramente tecnico della macchina, in grado di aggiustarla.
Una visione che, quando non giustifica interventi a favore dei soliti interessi, pecca almeno di ingenuità, cadendo in una fascinazione per il Politicante Illuminato.
Il fondamento delle democrazie liberali, almeno anche qui nella versione ingenua e teorica, è sostanzialmente diverso. Non è possibile né che una singola persona né un insieme di persone riescano a comprendere appieno il funzionamento del sistema economico e sociale del paese, riuscendo a intervenire chirurgicamente laddove vi è bisogno, tesi tra l’altro confermata anche dalle scienze più pure.
In mancanza di un manuale delle istruzioni le democrazie hanno invece preferito affidare la scelta alla competizione elettorale. I partiti, rappresentati di diverse istanze e interessi tra di loro conflittuali, si sfidano nell’agone pubblico cercando di attrarre i voti necessari per governare.
La politica non solo non deve ma non può essere mera ingegneria economica e sociale, ridotta all’amministrazione dell’esistente: la politica è una precisa scelta di campo, vidimata dal consenso democratico, per cui un partito o una coalizione sono tenuti a mettere in campo quelle politiche che ritengono giuste rispetto all’idea di paese che hanno. Queste politiche, ovviamente, scontentano qualcuno: chi ci perde e chi ci vince, questa dovrebbe essere la domanda politica di riferimento.
Per questo le richieste tanto della Lega quanto di Forza Italia e del Movimento 5 Stelle sono legittime, anche se almeno chi scrive ne condivide pochissime. Si tratta di istanze politiche, afferenti a diversi bacini elettorali, da soddisfare. Il problema del governo Draghi è invece quello di tentare di non scontentare nessuno. D’altronde il Presidente del Consiglio lo aveva dichiarato fin dall’inizio nel suo discorso:
Non c’è nulla che faccia pensare che possa far bene senza il sostegno convinto di questo Parlamento. È un sostegno che non poggia su alchimie politiche ma sullo spirito di sacrificio con cui donne e uomini hanno affrontato l’ultimo anno, sul loro vibrante desiderio di rinascere, di tornare più forti e sull’entusiasmo dei giovani che vogliono un Paese capace di realizzare i loro sogni. Oggi, l’unità non è un’opzione, l’unità è un dovere. Ma è un dovere guidato da ciò che son certo ci unisce tutti: l’amore per l’Italia.
Eppure l’Italia non è un corpo omogeneo. C’è chi in questi anni ha potuto godere di benefici e privilegi e chi ha visto il proprio reddito e patrimonio erosi. Ci sono giovani nati in famiglie meno abbienti che faranno fatica a trovare quella stabilità e sicurezza che i loro genitori e nonni hanno avuto. Ci sono uomini e donne che non hanno un lavoro, che fanno fatica a saltarci fuori con le spese. Ci sono immigrati costretti a vivere nell’emarginazione. Ci sono persone LGBTQI+ che ancora oggi soffrono discriminazione e violenza.
A tutte queste categorie che compongono la nostra società il governo Draghi non ha dato alcuna risposta, preferendo una mera amministrazione dell’esistente per sedare il caos di una maggioranza con obiettivi e interessi differenti.
Il problema è che se il paese è l’Italia, un paese che non cresce da trent’anni e con condizioni di vita e lavoro impietose, l’amministrazione dell’esistente ridotta a mera tecnica, ad aggiustamenti infinitesimi, porta in maniera inconsapevole o meno alla salvaguardia degli interessi e privilegi dei soliti noti.
Questo non vuol dire che Mario Draghi non sia persona degna di stima e ammirazione: in pochi mettono in dubbio la sua importanza nel corso dei giorni più difficili dell’Europa.
Il punto è che Draghi non è abbastanza: non basta un singolo uomo a salvare un paese. Serve invece una politica in grado di prendersi sulle spalle la responsabilità della situazione. E, quindi, in grado di scontentare qualcuno. A giudicare il loro operato non saranno fantomatici competenti – laddove la competenza è negli amici di chi parla – quanto le urne.
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