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Trent’anni senza Eternit, ma di amianto ci si ammala ancora

16 Agosto 2022 9 min lettura

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Trent’anni senza Eternit, ma di amianto ci si ammala ancora

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di Raffaella Tallarico

Processo Eternit bis, l’industriale svizzero Stephan Schmidheiny condannato a 12 anni per omicidio colposo aggravato

Aggiornamento 8 giugno 2023: L'industriale svizzero Stephan Schmidheiny è stato condannato dalla Corte d’Assise di Novara a 12 anni di carcere per la morte di 392 persone decedute a causa dell'amianto a Casale Monferrato e nelle zone limitrofe. L'imprenditore aveva gestito lo stabilimento Eternit di Casale dal 1976 al 1986, anno in cui l'impianto venne chiuso. Schmidheiny è stato condannato anche a pagare 50 milioni di euro di risarcimento al Comune di Casale, 30 milioni allo Stato italiano e centinaia di milioni ai familiari delle vittime.

Nei confronti dell’imprenditore svizzero i pubblici ministeri Gianfranco Colace e Mariagiovanna Compare avevano chiesto l’ergastolo. Gli avvocati della difesa, Astolfo Di Amato e Guido Carlo Alleva, avevano chiesto l’assoluzione “perché il fatto non sussiste, per mancanza di prova sul nesso di causalità”, e in seconda battuta “perché il fatto non costituisce reato”.

Già nel 2012 Schmidheiny era stato condannato dal tribunale di Torino a 16 anni di carcere insieme al barone belga Louis de Cartier, anche lui imputato per disastro ambientale e omissione volontaria delle cautele antinfortunistiche negli stabilimenti della multinazionale dell'amianto. La condanna fu confermata in appello, nel giugno 2013, a 18 anni per Schmidheiny mentre il barone era morto poco prima. Nel 2014 però la Cassazione aveva annullato senza rinvio la sentenza di condanna dichiarando prescritti i reati. Poco dopo il pronunciamento della suprema corte, dalla procura di Torino era partita un nuovo filone d'indagine, detto appunto Eternit bis.

«Sicuramente la condanna a 12 anni di carcere non soddisfa appieno la sete di giustizia di un territorio e di una comunità che dopo anni continua a soffrire a causa delle conseguenze di quelle azioni commesse da chi ha anche avuto la responsabilità di fuggire da Casale abbandonando uno stabilimento nel territorio cittadino che era una vera e propria bomba nociva per la salute», ha commentato il sindaco di Casale Monferrato, Federico Riboldi. La comunità cittadina di Casale Monferrato non è ancora al riparo dall’insorgenza del tumore. Il periodo di latenza può raggiungere più di 40 anni e, attualmente, a Casale vengono diagnosticati 50 casi di mesotelioma pleurico all’anno. In pratica, uno ogni settimana.

Fino a poco tempo fa, Casale Monferrato era nota come “la città dai tetti bianchi”. E non per la neve, ma per la polvere di amianto che si posava sopra le case. Lo racconta Daniela Zanier, una donna di 61 anni che abita lì vicino, a Rosignano, e alla quale nel 2019 è stato diagnosticato un mesotelioma pleurico. È il tumore causato dall’esposizione alle fibre di amianto che, di solito, colpisce la membrana che riveste i polmoni. «Qui viviamo da decenni con questa spada di Damocle sulla testa» racconta Daniela a Valigia Blu. «Quando l’ho scoperto mi sono arrabbiata, non riuscivo ad accettarlo. La sentenza è arrivata, ma i medici mi hanno anche detto che sono fortunata: il mio tumore è maligno solo per il 30%». Come Daniela, tutti i casalesi hanno il terrore di ricevere una diagnosi che suona come una condanna, visto che l’aspettativa media di vita è di un anno e mezzo dalla scoperta e solo il 15% sopravvive oltre. Il periodo di latenza può raggiungere più di 40 anni e, attualmente, a Casale vengono diagnosticati 50 casi di mesotelioma all’anno. In pratica, uno ogni settimana. 

L’incidenza di questo tipo di tumore si concentra in quelle aree italiane dove l’industria impiegava l’amianto in modo massiccio, prevalentemente nei settori edile e navale. Secondo il settimo rapporto Re.na.m. tenuto dall’Inail, tra il 1993 e il 2018 sono stati diagnosticati 31.572 casi di mesotelioma maligno. Il 56% dei malati risiede in Lombardia, Piemonte, Liguria ed Emilia-Romagna. Casale Monferrato, che si estende tra le province di Asti e Alessandria, conta circa 32mila abitanti. La sua storia si lega a doppio filo con quella della multinazionale Eternit, scrive l’Osservatorio Nazionale Amianto (ONA), associazione rappresentativa delle vittime dell’amianto: per 79 anni ha ospitato lo stabilimento per la lavorazione del cemento-amianto più grande in Italia. Nel 1986 l’azienda fallisce, e proprio grazie alla lotta partita dal territorio di Casale, la sostanza viene bandita con la legge 257 del 1992. Ma trent’anni non sono bastati per mettere al riparo la comunità dall’insorgenza del tumore. 

È il 1943 quando viene scoperto il primo caso di asbestosi: l’inalazione di milioni di fibre di amianto determina una progressiva atrofizzazione dei polmoni, finché respirare diventa impossibile. Nei decenni successivi i casi tra i lavoratori della fabbrica si moltiplicano. «È brutale dirlo, ma quando riguardava solo gli operai non si aveva alcuna coscienza del problema», dice a Valigia Blu Bruno Pesce, ex responsabile della camera del Lavoro locale che ha promosso e seguito l’intera vertenza Eternit. «Era il rischio che comportava lavorare in fabbrica. Si pensava: “Sono impiegati lì, si sono beccati l’asbestosi e se muoiono, pazienza”». Ma negli anni la malattia inizia a colpire i familiari degli operai, e poi persone che nulla hanno a che fare con lo stabilimento. «Ricordo che mi fermò per strada un mio amico che insegnava a scuola», racconta Pesce. «Aveva perso entrambi i genitori a causa del mesotelioma. Tutto d’un tratto mi chiede: “Cosa aspettate a far chiudere l’Eternit?”. Ma allora - parlo degli anni ’70 - era impossibile». Un ostacolo importante era anzitutto il ritorno occupazionale dell’area: nel picco massimo, tra il 1950 e il 1960, Eternit contava circa 2mila dipendenti. «L’operaio ha il vizio che la busta paga la vuole anche il mese dopo», ironizza Pesce. «Era impensabile che fossero solo i lavoratori a fare la guerra. Bisognava aprire un dibattito pubblico, che coinvolgesse le istituzioni e che facesse luce sulla gravità del problema». 

Qualcosa si muove nel 1981, quando inizia la catena di ricorsi giudiziari per denunciare la mancanza di misure per proteggere gli operai dal rischio amianto e le relative malattie professionali. Ma è con lo scoppio dei casi di mesotelioma che l’inquinamento da eternit assume una considerazione diversa. «Ho respirato l’aria di Casale, questa è la causa del mio tumore», racconta Daniela Zanier. «Io non ho mai lavorato in fabbrica né ho avuto familiari che lavoravano lì. Ero impiegata in un centro diurno per disabili». L’esposizione all’amianto risale all’infanzia: «Da piccola abitavo vicino alla ferrovia e molto spesso io e mia madre andavamo sul Po a passeggiare. C’erano alcuni nostri amici, alle baracche sul fiume. Lì si coltivavano gli orti o ci si trovava per giocare o per fare grigliate. Ecco, quelle baracche erano fatte di eternit». Non solo. Lì vicino c’era una fabbrica di lavorazione del ferro, con i tetti in amianto. E poi la “spiaggetta”, come la chiamano i casalesi: un posto sempre in riva al fiume fatto con un battuto di amianto.

Ammalarsi di mesotelioma a causa dell’aria contaminata ha avuto un impatto sociale notevole nel Monferrato. Il clima è di costante timore: ogni volta che viene scoperto un nuovo caso, ne soffre l’intera comunità. Daniela Degiovanni, che è stata medica del lavoro e oncologa nell’ospedale di Casale, è testimone diretta di questo clima: «Quello che mi ha sempre sorpreso è che la diagnosi di mesotelioma scatena una rabbia incontrollabile, a differenza di altri tipi di tumore che colpiscono sempre i polmoni e sono ugualmente severi», spiega a Valigia Blu. Non ci sono né accettazione, né rassegnazione, soprattutto da quando hanno iniziato ad ammalarsi cittadini comuni: «Sono sempre più giovani, persone tra i 40 e i 70 anni», prosegue Degiovanni. «E 50 casi ogni anno sono ancora troppi. Secondo le stime epidemiologiche, dovremmo avere un caso tra gli uomini e 0,1 tra le donne». La rabbia ha il sapore dell’ingiustizia subita passivamente, soprattutto perché l’inquinamento dell’aria è proseguito anche dopo la chiusura di Eternit. «I mesoteliomi diagnosticati oggi sono causati dal fatto che lo stabilimento, dopo il fallimento dell’azienda, è stato lasciato in totale abbandono. Vetri, tonnellate di sacchi, coperture: materiali tutti fatti d’amianto sono stati lasciati lì e i vertici dell’azienda non si sono interessati allo smaltimento». In effetti, quando il Comune ha acquistato l'area nel 1995 per avviare le procedure di bonifica ha constatato che l'ex insediamento produttivo era "ormai in stato di abbandono e possibile fonte di inquinamento atmosferico" (qui le foto del sopralluogo). 

Sulla diffusione del mesotelioma e le relative morti, un nome risuona tra i casalesi: “Lo svizzero”. Si riferiscono a Stephan Schmidheiny,  amministratore delegato di Eternit dal 1976 fino al 1986. Proprio con il suo arrivo, dice Bruno Pesce, è stata inaugurata una pratica che ha contribuito al notevole inquinamento dell’aria: la frantumazione a cielo aperto degli scarti di lavorazione. «Ogni giorno c’era un viavai di camion scoperti che trasportavano lastre e tubi non commerciabili perché difettosi» racconta Bruno Pesce. «Li portavano su una piattaforma di fronte allo stabilimento e li frantumavano con un cingolato. Poi quello stesso materiale veniva polverizzato in una sorta di mulino dentro la fabbrica e riciclato. In giornate di vento l’aria era infestata». Non solo: quello scarto - il cosiddetto “polverino” - veniva rivenduto a comuni cittadini per fare i lavori in casa. «Un utilizzo improprio, si approfittava del fatto che costasse poco. Ad esempio si usava molto per i sottotetti come coibentante. A Casale veniva impiegato anche negli oratori come battuto per i cortili, dove giocavano i bambini», continua Pesce. Daniela Zanier riporta le voci sul campo da pallone elastico di Rosignano: «Questo purtroppo l’ho saputo dopo, ma il polverino era stato usato come compattante del terreno». E poi i cortili, le vie che collegano le case alla strada principale, le aiuole: l’amianto, mescolato con il cemento o anche con la ghiaia, era ovunque.

La vicenda giudiziaria per fare luce sulle responsabilità è intricata. Il primo processo di Torino, iniziato nel 2009, naufraga con una sentenza della corte di Cassazione del 2014 che dichiara prescritto il reato di disastro ambientale, determinando il proscioglimento di Schmidheiny. Il coimputato - il belga Louis De Cartier, amministratore delegato prima del magnate svizzero - muore nel 2013. Sono in corso i processi Eternit bis per omicidio, con competenza territoriale delle corti d’Assise dove c’erano le sedi di Eternit: Napoli per la fabbrica di Bagnoli, Novara per quella di Casale, Torino per Cavagnolo e Reggio Emilia per Rubiera. Il 6 aprile di quest’anno, i giudici di Napoli condannano Schmidheiny a tre anni e sei mesi di carcere per omicidio colposo di un operaio di Bagnoli: l’accusa aveva chiesto poco meno di 24 anni, per il decesso di altre 6 persone e per omicidio intenzionale. Per le morti nel Monferrato, nel giugno 2021 inizia il processo della corte d’Assise di Novara. L’accusa ritiene Schmidheiny responsabile di omicidio volontario plurimo aggravato, per i decessi di 62 tra i lavoratori e 330 tra i cittadini dell’area. 

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Ostacoli giudiziari a parte, le comunità del Monferrato sono un esempio di mobilitazione, e la battaglia ha dato qualche frutto, sia sul fronte sindacale che ambientale. «È stato molto difficile, perché il fibrocemento era una materia prima», dice Bruno Pesce. «Dopo tre anni di sit-in - ricordo che andavo giù a Roma con i disoccupati di Eternit - abbiamo ottenuto che la legge del ’92 riconoscesse una maggiorazione dell’anzianità contributiva per fini pensionistici. Gli ultimi dipendenti disoccupati erano 350, la maggior parte anziani e malati di asbestosi. Quasi tutti poterono andare in pensione, del resto non avrebbero più potuto lavorare». Nel 1998 l’area di Casale e di altri 47 comuni è stata dichiarata Sito di interesse nazionale (S.I.N.). Con questo atto formale hanno avuto inizio imponenti bonifiche del territorio. «Abbiamo potuto godere di contributi e finanziamenti che nessun’altra area italiana ha», continua Pesce. «Tutti gli edifici pubblici sono stati bonificati, mentre per quelli privati siamo circa all’80%, e 200 siti dove c’era il ‘polverino’. Il problema è che molti luoghi sono coperti dalla vegetazione». La sinergia tra cittadini, associazioni e istituzioni non è così scontata. A Broni, nella provincia di Pavia, fino al 1985 era operativa la Fibronit, un’altra fabbrica di lavorazione dell’amianto. «Lì l’incidenza dei casi di mesotelioma è maggiore rispetto a Casale», sostiene Pesce. «Io ci sono andato e guai a parlarne. Lì coltivano viti e producono vino, non si fa emergere il problema per evitare che ne risenta il commercio».  Il rapporto dell’A.t.s. di Pavia, ente che collabora nel monitoraggio del registro dei mesoteliomi per la Lombardia, evidenzia che il primato di morti per questo tumore, in regione, è localizzato proprio a Broni, dove “l’incidenza di questa malattia è più alta che a Casale Monferrato”. 

Oltre alle bonifiche, alcuni segnali di speranza provengono dalla risposta alle cure. L’ospedale di Casale è considerato all’avanguardia e l’esperienza di Daniela Zanier lo dimostra: «Subito dopo la diagnosi ho iniziato sei cicli di chemioterapia, poi ho fatto un anno di immunoterapia, che è ormai diventata la prima soluzione. Ho fatto una tac, ed effettivamente il tumore si è ridotto. Per me è una grande conquista». Sull’incidenza del tumore, secondo Daniela Degiovanni «il picco è stato raggiunto: non saliamo né scendiamo oltre i 50 casi all’anno da circa 8 anni. Auspichiamo che la curva cominci a discendere, ma dobbiamo capire la risposta ai farmaci immunoterapici, che sono stati introdotti in via sperimentale». La ricerca medica e la bonifica, attualmente, rappresentano le uniche, importanti misure per reagire alle conseguenze dell’inquinamento da amianto. Per quanto riguarda la giustizia, il Monferrato attende ancora risposte.

Immagine in anteprima via Avvenire

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