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Come nutrire un pianeta sempre più caldo, affamato e messo in pericolo da guerre e pandemie?

13 Giugno 2022 13 min lettura

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Come nutrire un pianeta sempre più caldo, affamato e messo in pericolo da guerre e pandemie?

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Il round-up settimanale sulla crisi climatica e i dati sui livelli di anidride carbonica nell'atmosfera.

Come nutrire un pianeta sempre più caldo, affamato e messo in pericolo da guerre e pandemie? È quel che si chiede la giornalista esperta di clima Somini Sengupta in un articolo sul New York Times

Attualmente, scrive Sengupta, produciamo più cibo di quanto ne abbiamo bisogno (secondo la FAO, la produzione di colture primarie - principalmente canna da zucchero, mais, grano e riso - è aumentata del 52% tra il 2000 e il 2020, raggiungendo la cifra record di 9,3 miliardi di tonnellate metriche nel 2019), eppure milioni di persone muoiono di fame (nel 2021 quasi 193 milioni di persone erano “insicure dal punto di vista alimentare”, 40 milioni in più rispetto al 2020). Il mondo, ha detto il segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, sta affrontando “un’ondata di fame e indigenza senza precedenti”.

Come è possibile? Conflitti, pandemia e intoppi nella catena di approvvigionamento hanno portato a un aumento del numero delle persone sottonutrite. I prezzi degli alimenti sono aumentati e con essi la fame. L’invasione russa in Ucraina è stata l’ultima scossa di terremoto che ha colpito le filiere del cibo con l’impennata ulteriore dei prezzi del cibo e dei fertilizzanti.

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Su tutto questo poi incombe il cambiamento climatico. Giorni e notti più caldi, inondazioni e siccità estreme possono far andare in malora i raccolti, bloccare il trasporto di cibo e rendere i cereali meno nutrienti. Le piogge irregolari rendono molto più difficile il sostentamento di agricoltori e pastori. Basta guardare cosa è accaduto in India, dove un’ondata di caldo estrema, amplificata dal cambiamento climatico, ha compromesso il raccolto del grano in alcune aree del paese e ha spinto i funzionari indiani a vietare le esportazioni di grano e a limitare quelle di canna da zucchero. Con effetti a cascata sulle filiere globali, considerato che molti governi contavano sul grano indiano per supplire alla carenza di offerta ucraina per il blocco del mar Nero. Questa decisione ha fatto temere che potesse riguardare il riso, riporta Reuters, anche se l'India ha dichiarato di non avere in programma nulla del genere.

Secondo Sengupta nei prossimi mesi sentiremo parlare di autosufficienza alimentare, aumento della produzione, maggiore varietà delle colture e trasferimento dei fondi verso chi è in difficoltà. 

  1. Autosufficienza

Il caso dell’India potrebbe non essere isolato ed essere il primo di una lunga serie di paesi che cercheranno di perseguire una strategia di autosufficienza alimentare: produrre e immagazzinare una quantità di grano sufficiente per sfamare la popolazione per evitare le carestie del passato. La Cina, ad esempio, sta cercando di garantire che “i piatti cinesi siano riempiti principalmente da cibo cinese”, come ha recentemente affermato il presidente Xi Jinping. Singapore punta a produrre il 30% del suo cibo entro il 2030, osserva Sengupta. E anche il presidente della Banca africana di sviluppo, Akinwumi Adesina, ha parlato degli sforzi per promuovere l'autosufficienza alimentare nel continente, con un piano da 1,5 miliardi di dollari per fornire sementi a 20 milioni di piccoli agricoltori.

  1. Aumento della produzione

Il cambiamento climatico influisce sulla produttività, come mostrato da uno studio pubblicato nel 2017. Ogni aumento di un grado delle temperature medie globali potrebbe ridurre la resa del mais del 7,4%. Un altro studio ha rilevato che le giornate e le notti più calde hanno già ridotto leggermente la resa dei raccolti in alcuni paesi con alti tassi di malnutrizione infantile.

“Molti ricercatori stanno cercando di sviluppare sementi in grado di sopravvivere alle nuove condizioni climatiche: riso in grado di crescere in acque più saline, mais in grado di resistere alla siccità e così via”, scrive Sengputa. Poi, c’è chi chiede di aiutare i piccoli agricoltori, soprattutto in Asia e in Africa, ad aumentare la resa dei raccolti con nuove tecniche agricole o un maggiore accesso al credito, col rischio però di ridurre la diversità delle colture e rendere gli agricoltori dipendenti dalle sementi e dai fertilizzanti chimici venduti dalle grandi aziende agricole.

  1. Finanziare i paesi più vulnerabili

Trasferire denaro può migliorare la quantità e la qualità dell’alimentazione, stando almeno a quanto emerso da uno studio sui programmi di trasferimento di denaro gestiti dai governi in quattro paesi africani. Un altro studio ha rilevato che i trasferimenti di denaro in Brasile hanno aiutato le famiglie a migliorare la propria sicurezza alimentare. Nel Messico rurale, le rimesse, soprattutto quelle provenienti dall'estero, sono una “strategia fondamentale per far fronte all'insicurezza alimentare”. Nel 2021, i migranti hanno inviato a casa quasi 590 miliardi di dollari, rispetto ai 100 miliardi di dollari di finanziamenti annuali per il clima che i paesi ricchi hanno promesso di condividere con i paesi poveri.

  1. Varietà delle colture

Un’altra strada perseguibile è la variazione della nostra alimentazione puntando su colture che resistono meglio a condizioni climatiche estreme e sono più nutrienti. Le rese del sorgo stanno aumentando nell'Africa subsahariana. La FAO sta promuovendo il miglio, tra cui il teff in Etiopia e il fonio in Senegal. Alcune varietà tradizionali di patata dolce crescono bene in condizioni di caldo estremo. 

Da questo punto di vista, una soluzione potrebbero essere le banche dei semi, sempre più considerate una risorsa inestimabile che un giorno potrebbe prevenire una crisi alimentare mondiale. In tutto il mondo sono circa 1.700: ospitano collezioni di specie vegetali preziose per la ricerca scientifica, l'istruzione, la conservazione delle specie e la salvaguardia delle colture indigene. In questo approfondimento sul Guardian, ne vengono presentate alcune, dall'Artico al Libano, che cercano di salvaguardare la biodiversità.

La più grande collezione di diversità delle colture al mondo è il Global Seed Vault in Norvegia. “Milioni di piccoli granelli provenienti da più di 930.000 varietà di colture alimentari sono conservati a Spitsbergen, parte dell'arcipelago norvegese delle Svalbard. Un'enorme cassetta di sicurezza che contiene la più grande collezione di biodiversità. Lo scopo del caveau è conservare i duplicati (backup) dei campioni di semi delle collezioni mondiali di colture”, scrive Sara Manisera del collettivo FADA. “La diversità genetica contenuta nel caveau potrebbe fornire i tratti di DNA necessari per sviluppare nuovi ceppi per qualsiasi sfida che il mondo o una particolare regione dovrà affrontare in futuro”.

Un altro centro importante, l’ICARDA, si trova nella valle della Bekaa, tra le montagne al confine tra Libano e Siria, dove “un gruppo di ricercatori studia e conserva i semi locali del Mediterraneo e della Mezzaluna fertile, un patrimonio che sta scomparendo con gli anni, sostituito dalle varietà ibride importate utilizzate nelle monoculture”, raccontano Manisera e Arianna Poletti in un servizio per la Radiotelevisione Svizzera. Centinaia di varietà e di genomi sono studiati, duplicati e poi trasferiti proprio alla Banca dei semi delle isole Svalbard, in Norvegia, “garante della preservazione della diversità delle colture nel mondo”.

Nei semi “si trovano le fondamenta della nostra futura sicurezza alimentare e nutrizionale, e la possibilità di un mondo senza fame”, afferma al Guardian Stefan Schmitz, direttore esecutivo del Global Crop Diversity Trust, un'organizzazione dedicata alla conservazione della diversità delle colture per la sicurezza alimentare. “Banche dei semi ben finanziate e ben mantenute sono fondamentali per ridurre l'impatto negativo della crisi climatica sulla nostra agricoltura a livello globale”.

“Negare, distrarre, ritardare”. Come cambiano le tattiche di disinformazione sul clima

“Nega, inganna, ritarda”. Secondo uno studio pubblicato dall’Institute for Strategic Dialogue e dalla coalizione Climate Action Against Disinformation, le campagne di negazione e di scetticismo sul clima hanno cambiato le loro tattiche di disinformazione plasmando le discussioni sulla crisi climatica sulla scia delle cosiddette “guerre culturali”  che ora dominano la politica occidentale. In altre parole, le discussioni sul clima vengono (con)fuse con altre questioni (e relative polemiche) fortemente divisive, come i diritti LGBT+, il razzismo, l’accesso all’aborto, i vaccini. Se non si riesce a fermare queste campagne, avvertono gli autori della ricerca, si rischia di spaccare ulteriormente l'unità ai colloqui sul clima del prossimo novembre in Egitto e di mettere a repentaglio uno sforzo globale che negli ultimi trent’anni (dal vertice di Rio nel 1992 in poi) ha faticato a ridurre le emissioni che riscaldano il pianeta.

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Lo studio, che ha analizzato centinaia di migliaia di post sui social media negli ultimi 18 mesi, ha rilevato che l’obiettivo di gran parte della disinformazione sul cambiamento climatico è ora quello di distrarre e ritardare: “Considerato che la finestra per agire è breve e si sta rapidamente chiudendo, questo approccio potrebbe avere conseguenze devastanti".

L’analisi dei post ha consentito di individuare alcune particolari tipologie di narrazioni di “distrazione e ritardo”, tra cui, riporta il Guardian:

  • Elitismo e ipocrisia: questi post si sono concentrati sulla presunta ricchezza e sui due pesi e due misure di coloro che chiedono l'azione per il clima; in alcuni casi sono stati fatti riferimenti a cospirazioni più ampie sul globalismo o sul “Nuovo Ordine Mondiale”.
  • Assoluzione: sono stati individuati 6.262 post su Facebook e 72.356 tweet nel periodo della COP26 che assolvevano un paese da qualsiasi obbligo di agire sul clima incolpandone un altro. Nei Paesi occidentali sviluppati ciò si è spesso concentrato sulle carenze percepite della Cina e, in misura minore, dell'India, sostenendo che non stavano facendo abbastanza e che quindi non aveva senso che qualcuno agisse.
  • Rinnovabili inaffidabili: in un periodo più lungo - dal 1° gennaio al 19 novembre 2021 - lo studio ha rilevato che sono stati condivisi 115.830 tweet o retweet, oltre a 15.443 post su Facebook, che mettevano in dubbio la fattibilità e l'efficacia delle fonti di energia rinnovabili.

Lo studio ha rilevato che a fare disinformazione era una manciata di opinionisti influenti, molti dei quali con account verificati sui social, provenienti da ambienti accademici o scientifici e con un passato ambientalista. Questo ha permesso loro di presentarsi come ambientalisti “razionalisti” e di rivendicare maggiore credibilità per le loro tesi. Ciò ha dato loro un notevole appeal online e il potenziale per galvanizzare un pubblico molto più ampio, dal momento che sono spesso invitati dai media conservatori come 'esperti del clima', scrivono gli autori della ricerca.

“Tra i profili più attivi e seguiti, in questa rete – osserva Antonio Scalari su Twitter – ci sono quelli dei soliti Shellenberger, Lomborg, Moore, ma anche Alex Epstein, autore di libri pro-fossili che in occasione della COP26 ha ribadito che abbandonare i combustibili fossili causerebbe un genocidio”.


“L'11 novembre 2021 Michael Shellenberger ha pubblicato su twitter una “tassonomia” della "religione woke" (termine usato negli USA per etichettare le posizioni "politicamente corrette", liberal-progressiste, etc.). In questa "tassonomia" ci sono anche i "miti" sul climate change. La posizione di Shellenberger, "ex ambientalista" che si definisce oggi "ecomodernista", è un esempio di "lukewarmerism": ammette che esiste il climate change, ma lo minimizza, ne enfatizza presunti benefici e sostiene che le politiche per fermarlo siano dispendiose o dannose”.

Per arginare gli effetti di queste subdole campagne di disinformazione, gli autori del rapporto chiedono ai governi e agli organismi internazionali una definizione formale, concordata a livello internazionale, di disinformazione e di informazione sul clima. E hanno invitato le aziende tecnologiche a limitare la pubblicità a pagamento e i contenuti sponsorizzati delle aziende produttrici di combustibili fossili.

L’azione delle lobby contro il taglio delle emissioni nell'Unione Europea


La scorsa settimana è stato dato molto risalto al voto del Parlamento Europeo per ridurre del 100% le emissioni del settore dei trasporti, in attesa della decisione definitiva degli Stati membri nel Consiglio d’Europa. È passato sottovoce, invece, il rifiuto da parte degli eurodeputati di adottare il testo sulla riforma del mercato del carbonio dell'Unione Europea, sull'introduzione di una tassa sulle emissioni di anidride carbonica e sull'istituzione di un Fondo sociale per il clima.

Con 340 voti contrari, 265 voti favorevoli e 34 astensioni, il Parlamento ha respinto la relazione finale del capogruppo Peter Liese sull'espansione e la revisione del sistema di scambio delle quote di emissione, una parte fondamentale del pacchetto legislativo sul clima della Commissione europea (Fit for 55).

La decisione di respingere l’intero pacchetto e rinviare il testo in commissione, insieme alle relazioni interconnesse sulla carbon border tax e sul Fondo sociale per il clima, è arrivata dopo l’approvazione di alcuni emendamenti, promossi dal Partito Popolare Europeo di centro-destra e dai suoi alleati, che avrebbero comportato tagli alle emissioni più deboli rispetto a quelli proposti dalla commissione per l'ambiente il mese scorso e avrebbero ritardato l'eliminazione graduale dei crediti di carbonio gratuiti. I partiti progressisti hanno deciso di votare contro l'intera relazione piuttosto che far passare una versione indebolita.

Il voto “ha messo a nudo una spaccatura fondamentale tra gli schieramenti politici: da una parte i conservatori che stanno cercando di proteggere l'industria da misure climatiche significativamente più severe, dall’altro un blocco di sinistra che si oppone alla dilatazione dei tempi della decarbonizzazione”, scrive Politico. Secondo i parlamentari a favore della proposta, dietro la saldatura tra PPE e altri partiti più conservatori ci sarebbe l’intensa azione di lobbying dell'industria pesante. 

Il sistema di scambio di quote di emissione dell’UE funziona generalmente come un sistema “cap-and-trade”: chi produce emissioni deve acquistare un credito per ogni tonnellata di anidride carbonica emessa. I crediti possono essere scambiati e la quantità complessiva disponibile sul mercato viene gradualmente ridotta, limitando così le emissioni. Ma per proteggere l'industria pesante europea dalla concorrenza dei paesi che non applicano il carbon pricing, questi settori ad alta intensità energetica ricevono attualmente la maggior parte dei crediti gratuitamente. Si tratta, di fatto, di un sussidio all'inquinamento. E così, mentre le emissioni di quei settori energetici che non ricevono crediti gratuiti sono diminuite, le emissioni industriali sono rimaste sostanzialmente invariate nell'ultimo decennio. 

L'UE sta pianificando l'introduzione di un'imposta sulle emissioni di anidride carbonica, tassando le importazioni da quei paesi che non applicano una tassazione delle emissioni di anidride carbonica, e vuole eliminare gradualmente questi aiuti gratuiti. Ma gran parte dell'industria pesante europea preferirebbe mantenere i permessi gratuiti il più a lungo possibile. 

Gli Stati insulari chiedono inderogabilmente l’istituzione del fondo per le vittime dei disastri climatici alla prossima Conferenza sul Clima in Egitto

Durante l’ultima COP di Glasgow, i paesi più fragili ed esposti agli effetti del cambiamento climatico avevano chiesto la creazione di un fondo per i danni e le vittime dei disastri climatici. Di fronte all'opposizione degli Stati Uniti e dell'Unione Europea, si era trovato un compromesso nell’apertura di una serie di colloqui, co-presieduto dagli USA e da Singapore, che avrebbe dovuto portare a una decisione entro giugno 2024.

Nel corso del primo incontro a Bonn, lo scorso 7 giugno, gli Stati insulari hanno affermato che aspettare il 2024 è troppo in là per iniziare a destinare fondi alle comunità in prima linea contro gli impatti climatici e hanno chiesto inderogabilmente l’istituzione del fondo alla prossima COP in Egitto. “Non ci sono finanziamenti chiari per le perdite e i danni che in questo momento stanno minando i diritti umani fondamentali nella nostra regione. Questo è essenziale”, ha dichiarato Kathy Jetn̄il-Kijiner, inviata per il clima delle Isole Marshall. Nessun finanziamento per il clima, né gli aiuti umanitari né i fondi per l'adattamento, “si avvicina minimamente all'entità delle risorse necessarie”, ha aggiunto Jetn̄il-Kijiner.

“Se i paesi ricchi non inseriranno il finanziamento delle perdite e dei danni nell'agenda formale, significa chiaramente che non hanno intenzione di aiutare le persone sul campo... che stanno soffrendo in questo momento”, ha commentato Harjeet Singh, consulente senior sugli impatti climatici presso il Climate Action Network (CAN) International.

Sono 31 anni che gli Stati insulari chiedono l’istituzione di un fondo per le vittime del previsto innalzamento del livello, ma i loro appelli sono rimasti senza risposta.

Trent’anni di Conferenze Mondiali sul clima: dove ci hanno portato?

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Sono passati 30 anni dal vertice di Rio, quando è stato istituito un sistema globale che avrebbe riunito regolarmente i Paesi per cercare di risolvere la crisi climatica. Quali sono stati i risultati finora ottenuti? Il Guardian ha evidenziato dieci momenti salienti con fughe in avanti e passaggi a vuoto. Tra questi, la Conferenza di Berlino (1995) in cui è stato definito il format delle COP; il Protocollo di Kyoto (1997), che per la prima volta ha fissato un obiettivo di riduzione delle emissioni di gas serra (di circa il 5% rispetto ai livelli del 1990, entro il 2012, con tutti i paesi sviluppati che si sarebbero assunti degli obiettivi nazionali, mentre ai paesi in via di sviluppo sarebbe stato consentito di continuare ad aumentare le proprie emissioni), entrato in vigore solo sette anni dopo, poco prima della COP di Buenos Aires del 2004, grazie alla sorprendente ratifica della Russia, che ha offerto la ratifica del protocollo come contropartita del suo ingresso nell’Organizzazione Mondiale del Commercio (tuttavia, l’effetto del protocollo è stato limitato vista la mancata ratifica di Stati Uniti e Cina, che hanno continuato a incrementare le emissioni); nel 2010, a Cancún, in Messico, si arriva finalmente a formalizzazione giuridica degli obiettivi nazionali che ogni Stato deve raggiungere per ridurre le emissioni; ma bisogna aspettare cinque anni, il 2015, a Parigi, per arrivare a un accordo vincolante (in cui sono inseriti gli obiettivi – non vincolanti – nazionali di riduzione delle emissioni) che fissa il limite di aumento delle temperature tra 1,5 e 2°C; nel 2022, a Glasgow, i paesi hanno concordato dal 2022 in poi piani nazionali più severi sui tagli alle emissioni.

Andamento emissioni dal 1992 a oggi

La prossima COP in Egitto si prospetta piuttosto complicata considerati gli scenari internazionali dopo la guerra in Ucraina. L'aumento dei prezzi dell'energia e dei generi alimentari comportano una crisi del costo della vita e della sicurezza energetica, col concreto rischio di derogare e procrastinare la decarbonizzazione dell’economia mondiale. Tuttavia, scrive il Guardian, la guerra in Ucraina potrebbe essere la leva per accelerare la transizione energetica verso le energie rinnovabili e fonti energetiche pulite e sostenibili.

Immagine in anteprima via Svalbard Global Seed Vault

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