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Cosa sta imparando la Cina dalla guerra in Ucraina

18 Maggio 2022 8 min lettura

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Cosa sta imparando la Cina dalla guerra in Ucraina

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A più di due mesi dall’inizio dell’invasione russa in Ucraina, la Cina continua a destreggiarsi nella sua posizione di equilibrista tra non compromettere i rapporti economici con l’Occidente e spalleggiare Mosca facendo da megafono alla propaganda del Cremlino. Che non sia una situazione di comodo per il presidente cinese lo ha detto anche il direttore della CIA, Bill Burns, durante il festival FT Weekend organizzato dal Financial Times a Washington. Xi Jinping è “turbato” dalla guerra in Ucraina – ha dichiarato Burns nel corso dell’evento –  e ha dimostrato che l’amicizia tra Pechino e Mosca ha dei limiti – al contrario di quanto scritto nel comunicato congiunto firmato il 4 febbraio – in un momento in cui gli Stati in Occidente sono più che mai compatti. Certo è che non è stata ben accolta la scelta della Cina di votare contro l’avvio di un’indagine dell’ONU sulle accuse di abusi da parte delle truppe russe in Ucraina, l’unica a votare contro insieme all’Eritrea. Ci si sarebbe aspettati un’astensione come nei voti precedenti ma – ha spiegato il portavoce del ministero degli Esteri, Zhao Lijian – la risoluzione approvata dal Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite per aprire un’inchiesta sui presunti crimini di guerra va nella direzione del “doppio standard” e sceglie di colpire alcuni paesi mentre ignora le guerre ingaggiate da altri. Una scelta, quindi, che sembra al tempo stesso un passo verso Mosca e un segnale da far arrivare dritto a Washington.

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A preoccupare Pechino ci sono poi le ripercussioni di eventuali sanzioni secondarie da parte dell’Occidente. Secondo un’esclusiva del Guardian, Pechino avrebbe commissionato  a diverse agenzie governative uno “stress test”, ovvero uno studio predittivo sugli scenari economici che si prospetterebbero di fronte a sanzioni simili a quelle imposte alla Russia. “Il punto di vista di Pechino è che se gli alleati a guida statunitense hanno preso questo tipo di misure contro Mosca, potrebbero fare lo stesso con la Cina. Di conseguenza, hanno bisogno di sapere fino a che punto il paese è resiliente”, ha spiegato al quotidiano britannico Tong Zhao, senior fellow al Carnegie Endowment for International Peace di Pechino.

I timori della dirigenza cinese trovano riscontro anche in un incontro di emergenza che si è tenuto il 22 aprile tra autorità regolatorie e istituti bancari. Al centro della discussione la protezione di asset nazionali e riserve finanziarie all’estero che ammontano a più di 3mila miliardi di dollari. Tra le proposte avanzate dai presenti e riportate dal Financial Times, alcuni rappresentanti bancari hanno suggerito alla banca centrale di richiedere agli esportatori di convertire i guadagni in valuta estera in renminbi [la moneta avente corso legale in Cina], in modo da aumentare la disponibilità di dollari onshore. Altri hanno proposto di tagliare significativamente la quota di 50.000 dollari che i cittadini cinesi possono spendere per acquisti, viaggi e spese scolastiche all’estero. Ad ogni modo, quando un funzionario ha chiesto ai rappresentanti bancari se fosse possibile diversificare gli asset e convertirli maggiormente in yen o euro, i presenti hanno sollevato diverse perplessità. Dubitano che Washington possa mai permettersi di tagliare i rapporti economici con la seconda potenza al mondo e un’economia di dieci volte superiore a quella della Russia. Anche perché vorrebbe dire andare a bloccare le catene di approvvigionamento vitali per l’occidente – dalla componentistica elettronica alla manifattura nel tessile – che fanno della Cina la fabbrica del mondo, rinunciando inoltre ai ricavi provenienti dall’export europeo di beni di lusso che ormai è superiore a quello negli Stati Uniti.  

A metà marzo, il Financial Times aveva reso noto come la Russia avesse avanzato alla Cina una richiesta di aiuto militare, secondo quanto rivelato da alcuni funzionari allo stesso giornale. Ad oggi non è stato confermato alcun supporto militare alla Russia, ma se Pechino sembra guardarsi bene dal sostenere attivamente Mosca nell’invasione dell’Ucraina, secondo numerosi analisti, l’Esercito Popolare di Liberazione cinese (PLA) sta osservando con attenzione la guerra in Ucraina e sta apprendendo diverse lezioni. L’operazione Desert Storm condotta dagli Stati Uniti durante la Prima guerra del Golfo, ha segnato un punto di svolta per la storia militare cinese. Il risultato è stato due decenni di riforme e una nuova concezione di una forza militare moderna con capacità operative congiunte sullo stile di quelle statunitensi, per quanto sempre con un forte stampo sovietico. Allo stesso modo, oggi il PLA segue le mosse dell’esercito russo e apprende soprattutto dai fallimenti – se così possiamo definirli – che stanno commettendo sul campo: dal non riuscire a colpire obiettivi strategici alle scarse capacità logistiche che lasciano interi convogli privi di carburante e rifornimenti. Ma uno dei più importanti insegnamenti che il PLA sta apprendendo, sottolinea un’analisi su DifenseOne, è quello dell’importanza delle operazioni congiunte tra le varie branche delle forze armate. L’esercito russo più volte non è stato in grado di utilizzare le forze aeree a supporto di quelle di terra. Come anche un altro problema che ha contribuito allo stallo militare è stato lo scarso livello di addestramento delle reclute e in generale il basso morale delle truppe. Tra l’altro, in Russia, il coinvolgimento di reclute con meno di quattro mesi di addestramento dovrebbe essere vietato in qualsiasi conflitto internazionale, secondo un decreto del 1999, eppure la loro presenza all’interno dell’esercito russo è emersa sin dai primi giorni della guerra. 

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L’Esercito Popolare di Liberazione finirebbe col trovarsi nella stessa situazione nel caso di un attacco a Taiwan?, si chiede Ying-Yu Lin, professore associato alla National Sun Yat-sen University di Taiwan, su The Diplomat. In caso di un conflitto armato tra le due sponde dello Stretto di Taiwan, gli Stati Uniti potrebbero direttamente schierare delle truppe, come fecero durante la crisi del 1996 quando inviarono due portaerei nelle acque vicino Taiwan, altrimenti – come sta avvenendo per la guerra in Ucraina – gli USA e gli alleati potrebbero anche non coinvolgere le proprie truppe e decidere piuttosto di rifornire con armi, intelligence, satelliti e altro tipo di supporto l’esercito di Taiwan. Rimane comunque una differenza sostanziale tra Taiwan e Ucraina, ovvero che la prima è un’isola distante circa 100 miglia nautiche dalla costa mentre la seconda è contigua territorialmente al confine russo. Per questo motivo l’aeronautica e la marina avrebbero un ruolo ancora più importante per Taiwan. In altre parole se avvenisse uno sbarco delle forze militari via terra, il PLA avrebbe già di fatto conquistato una supremazia aerea e marittima. 

Armare Taiwan sembra essere diventata una necessità ancora più urgente per Washington e Taipei da quando è scoppiata la guerra in Ucraina. L’amministrazione Biden sta facendo pressioni affinché il governo di Taiwan ordini armi di fabbricazione statunitense utili a respingere un’eventuale invasione marittima da parte della Cina piuttosto che armi progettate per la guerra cosiddetta convenzionale. E secondo quanto scrive il New York Times, alcuni funzionari statunitensi hanno avvertito gli omologhi taiwanesi che il Dipartimento di Stato si rifiuterà di vendere armamenti che non ritengono adatti a un conflitto militare contro l’esercito cinese. Come è successo, ad esempio, per gli elicotteri MH-60R Seahawk che il Pentagono sostiene “non rafforzeranno la capacità di Taiwan di scoraggiare le azioni aggressive [della Cina] e di difesa”, come riportato in una lettera inviata dalla vicesegretaria di Stato per l'Ufficio per gli affari politico-militari, Jessica Lewis, al viceministro Po Horng-Huei, pubblicata da Politico. A inizio maggio il ministro della Difesa di Taiwan ha riferito al Parlamento che il governo ha abbandonato il piano di acquisto degli elicotteri perché ritenuti troppo costosi. Nelle ultime settimane, inoltre, Taipei ha lamentato notevoli ritardi sulle consegne degli armamenti degli scorsi ordini a causa della forte richiesta proveniente dall’Ucraina. Finora l’amministrazione Biden ha approvato tre pacchetti di aiuti militari verso Taiwan, di cui l’ultimo da 95 milioni di dollari.

Le relazioni tra i due paesi sono regolate dal Taiwan Relations Act del 1979 che obbliga gli Stati Uniti a fornire armamenti di carattere difensivo, ma le amministrazioni americane hanno sempre mantenuto una politica “strategica ambigua” non dichiarando esplicitamente se gli Stati Uniti debbano intervenire militarmente in caso di attacco. La strategia che stanno adottando al momento è quella di trasformare Taiwan in un “porcospino”, ovvero armarla a tal punto da essere respingente a qualsiasi aggressione esterna. Yan Xuetong, professore e presidente dell’Istituto di relazioni internazionali alla Tsinghua University, ha scritto recentemente in un’analisi su Foreign Affairs che la Cina proseguirà su questa via nel mezzo fino alla fine della guerra in Ucraina. Solo una cosa potrebbe farle cambiare atteggiamento e spingerla al fianco della Russia: il rifornimento militare statunitense nel caso di una dichiarazione di indipendenza de jure di Taiwan. 

Lo scoppio della guerra in Ucraina ha sollevato non poche preoccupazioni tra i paesi alleati più vicini a Taiwan, in particolare il Giappone. Il primo ministro giapponese, Fumio Kishida, a seguito dell’incontro con Boris Johnson a Londra, ha dichiarato durante la conferenza stampa che “l’Asia orientale potrebbe diventare l’Ucraina di domani” e una “risposta decisa” in Ucraina contribuisce alla pace e alla stabilità anche nello Stretto di Taiwan. “Dobbiamo collaborare e non tollerare mai alcun tentativo unilaterale di cambiare con la forza i confini in Asia orientale”, ha aggiunto. Parole che hanno trovato poi riscontro nella dichiarazione congiunta tra Giappone ed Unione Europea nella quale viene espressa preoccupazione per la situazione nel Mar Cinese Meridionale e Orientale, si condanna ogni tentativo di cambiamento dello status quo e si sottolinea l’importanza di una risoluzione pacifica delle questione. Il ministero degli Affari Esteri di Taiwan ha accolto la notizia favorevolmente.  

È importante sottolineare come numerosi analisti della regione sostengono che non ci sia alcun segnale che la Cina stia preparando un attacco militare su vasta scala nel futuro prossimo, anche perché il presidente Xi Jinping è alle prese con questioni interne importanti. La città di Shanghai è ancora in lockdown dopo quasi due mesi (sebbene sembri prossima a venirne fuori) e anche la città di Pechino ha visto numerose attività chiudere, creando numerosi disagi alle persone che sono ormai esauste della strategia “zero-covid” fortemente perseguita da governo – come dimostrano i numerosi video di proteste e scontri girati sui social in queste settimane – ma anche ad aziende e fabbriche che hanno dovuto interrompere la produzione accumulando ritardi nelle consegne e ingenti perdite economiche. Pechino dovrà anche fare i conti con le stime di crescita inizialmente prevista al 5.5% e rivista ad aprile dal Fondo Monetario Internazionale al 4.4%. Ma prima di capire qualsiasi mossa futura del presidente Xi bisognerà aspettare il Congresso dell’autunno prossimo quando dovrebbe ottenere il terzo mandato.

Immagine in anteprima: Kremlin.ru, CC BY 4.0, via Wikimedia Commons

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