‘L’autocensura porta all’impotenza’ – Doxa, la rivista studentesca russa condannata per attivismo
7 min letturadi Meduza
Il 1° aprile, un tribunale di Mosca ha discusso il caso che vede imputati quattro redattori della rivista studentesca Doxa. I quattro sono accusati di aver incitato dei minori a partecipare a delle proteste. Il motivo per cui Armen Aramyan, Alla Gutnikova, Natalia Tyshkevich e Vladimir Metelkin - questi i nomi dei redattori - sono finiti a processo è la pubblicazione di un video nel gennaio 2021, in cui chiedevano agli amministratori universitari di smetterla con le minacce agli studenti che partecipavano alle manifestazioni a sostegno del leader dell'opposizione Alexey Navalny. All'udienza del 1° aprile, il procuratore ha chiesto che gli accusati siano condannati a due anni di lavori forzati. Durante l’udienza gli imputati hanno anche rilasciato le loro dichiarazioni finali. Il 12 aprile, ai 4 è stata inflitta la condanna chiesta dall'accusa: due anni di lavori forzati per aver "istigato dei minori a commettere azioni illegali", oltre al divieto per tre anni di gestire siti web. Il giorno prima della sentenza, il sito russo di informazione indipendente Meduza ha pubblicato la dichiarazione finale del caporedattore di Doxa, Armen Aramyan.
Onorevole corte!
Non sono molti, ormai, i posti in Russia dove oggi posso parlare liberamente di quanto sta accadendo nel paese. Vorrei perciò cogliere l'opportunità per dire qualche parola in questa pubblica udienza. Un mese fa, la Russia ha lanciato la sua cosiddetta "operazione militare speciale" in Ucraina. Migliaia di civili sono morti a causa dei conflitti che sono scaturiti; secondo i dati preliminari, nella sola Mariupol hanno perso la vita 5000 persone. Prima di andare avanti con la mia dichiarazione finale, vorrei osservare un momento di silenzio in memoria di coloro che sono morti in questa guerra. Credo che ogni evento pubblico in Russia oggi dovrebbe iniziare con un momento di silenzio.
Onorevole corte!
Siamo già al dodicesimo mese di arresti domiciliari de facto per me e i miei amici. Le irruzioni compiute nei nostri appartamenti alle sei del mattino del 14 aprile 2021 hanno separato le nostre vite in un prima e in un poi.
Per un intero anno non abbiamo potuto studiare, lavorare, incontrare gli amici o vivere le nostre normali vite. Oltre a non poter lavorare alla nostra rivista, non ho potuto fare le mie ricerche e, soprattutto, vedere la mia ragazza, che nelle ultime settimane è stata costretta a evacuare la sua famiglia da Kyiv.
Alla e Volodya hanno dovuto abbandonare il loro ultimo anno di università. Natasha ha perso il lavoro. Perché tutto questo?
La risposta è un breve video che abbiamo pubblicato nel gennaio 2021. Un video dove ci siamo limitati a lanciare un appello alle autorità, così come alle scuole e alle università: smettere di intimidire gli studenti, smettere di minacciare l’espulsione in caso di partecipazione alle proteste. Abbiamo anche offerto parole di sostegno agli studenti universitari e alle scolaresche che, per varie settimane, sono stati intimiditi dalle autorità e dalle amministrazioni.
Ho 24 anni. Ho conseguito solo di recente la laurea e poi la specializzazione. So come funzionano le università russe, conosco il clima di paura e autocensura che le pervade. Anche nelle università più coraggiose e libere, i giovani sono indottrinati con questa mentalità: "Sei ancora giovane, non esporti, non rischiare la vita, ti butteremo fuori e ti rovineremo la vita". Ho visto coi miei occhi il modo in cui queste minacce così eccessive e assurde colpiscono i giovani. Ci rubano la libertà e la sensazione di poter cambiare qualcosa.
Oramai paura e autocensura sono i pilastri di questo regime. Ogni volta che le persone cominciano a radunarsi attorno a obiettivi comuni, ogni volta che sentono che è in loro potere cambiare qualcosa, lo Stato riconosce immediatamente la minaccia. Sì, ogni opportunità per le persone di associarsi liberamente costituisce una minaccia per il regime, perché il regime non può governare una società, può solo controllare una manciata di individui. Le autorità reprimono immediatamente qualsiasi tentativo di unirsi. L'obiettivo principale della loro repressione è, ovviamente, la paura.
Ma perché proprio la paura? Perché è uno strumento efficace. La paura funziona perché ci divide. Quando ci uniamo con persone che la pensano come noi, sentiamo che insieme siamo più potenti, non siamo più solo individui e possiamo ottenere molto di più. Ma la paura ci fa sentire di nuovo soli. La paura ci separa gli uni dagli altri, ci fa guardare il prossimo con sospetto. Quando lo Stato ci intimidisce - sia che ci chiami nell'ufficio del preside per minacciare l'espulsione o che ci picchi in una stazione di polizia per ottenere le password dei nostri telefoni - il governo sta facendo tutto ciò che è in suo potere per farci sentire sempre soli.
E la paura significa davvero che siamo sempre soli. Non c'è società, non ci sono interessi comuni, non puoi conseguire alcun risultato insieme agli altri. La paura ti fa valutare minuziosamente i rischi personali, ti fa pensare: potrei essere messo in prigione, potrei essere picchiato, potrei essere licenziato o espulso, potrebbero fare qualcosa alla mia famiglia. È come se lo Stato dicesse: "Sono solo i tuoi problemi personali, i tuoi rischi personali, le tue conquiste personali. Se tu abbassi la testa e ti concentri sui tuoi problemi personali, forse non interferiremo con la tua piccola vita. Ma se decidi che sei capace di qualcosa di più grande, se unisci le forze con altre persone, ti distruggeremo all'istante". Quando il regime di Putin distrugge le ultime vestigia dei media indipendenti, dichiara le maggiori organizzazioni politiche come estremiste, compie un attacco contro qualsiasi libera associazione di persone.
Il terrore che il nostro Stato mette in atto fa solo finta di essere razionale. Lo stato, e anche noi, spesso giustifica le sue repressioni. Diciamo, beh, sì, non avremmo dovuto essere così radicali, non c'era bisogno di parlare così duramente, non ha senso lottare per persone che sono già state arrestate, sapevano a cosa andavano incontro. Ma questa razionalità è un'illusione. L'obiettivo del terrore di Stato è quello di intimidire tutti noi in modo che ci sentiamo sempre minacciati, in modo che diventiamo i nostri stessi censori, soppesando costantemente le nostre azioni.
L'autocensura non è semplicemente una direttiva imposta dall'alto dagli amministratori dell'università. L'autocensura è qualcosa che facciamo noi, non loro. È il nostro modo di reagire alla paura. Il terrore politico è efficace solo se accettiamo queste regole del gioco, solo se abbiamo veramente paura. Lo Stato non può reprimere tutti noi, ha bisogno di persone di cui fare esempi.
L'unica difesa della società di fronte a questa paura consiste nella solidarietà. La misteriosa e altrettanto irrazionale sensazione di non essere soli. Anche quando agiamo individualmente, migliaia di persone che la pensano come noi sono con noi. Credono che questa sia una causa comune, che saranno sostenuti anche se espulsi, anche se torchiati, o se saranno rapiti e torturati dalla polizia.
Solidarietà - questo era precisamente il punto del nostro video. In cui non abbiamo certo invitato ad alcun raduno. Volevamo semplicemente che altri studenti universitari e in età scolastica sentissero di non essere soli, di avere sostegno e supporto. Volevamo fare in modo che le minacce delle amministrazioni scolastiche e universitarie non piantassero in loro il seme distruttivo dell'autocensura.
La nostra rivista non si è mai autocensurata né è scesa a compromessi. Questo perché, in definitiva, l'autocensura porta all'impotenza. Per paura irrazionale voi stessi rinunciate ad agire e ad avere un impatto. Quando si scende costantemente a compromessi con un avversario potente, ci si ritira poco a poco, finché alla fine ci si ritrova sull'orlo di un precipizio. Allora, alla fine, non c'è altra via d'uscita - puoi saltarci tu stesso o aspettare di essere spinto.
Abbiamo imparato molto negli ultimi dodici mesi. Grazie al comitato d’inchiesta che ha preparato il caso contro di noi, stiamo finalmente vedendo la vera portata del giro di vite sui giovani nel nostro paese. Stiamo vedendo che non sono semplicemente singole università o scuole a minacciare i propri studenti, c'è invece un sistema statale di terrore che ha preso di mira i giovani. "Conversazioni preventive" sui raduni, lezioni propagandistiche sulla guerra, convocazione in ufficio di studenti che partecipano a manifestazioni - nelle università, nelle scuole russe, tutto questo è stato a lungo consegnato da un nastro trasportatore, la cui portata non possiamo immaginare. Come abbiamo detto nel nostro video: "Le autorità hanno davvero dichiarato guerra ai giovani".
E abbiamo inoltre imparato che, ancora una volta, non siamo soli. Che è nell'interesse delle autorità convincerci che siamo minoranza, che i manifestanti sono lontani dalla "gente comune". Questa convinzione è profondamente radicata tra molti, anche tra gli oppositori del governo. Ma i testimoni di questo processo, i giovani arrestati nelle proteste di gennaio, sono adolescenti comuni di famiglie comuni. Uno ha una madre che lavora all'ufficio postale, il padre di uno è un veterano, un altro è autista di autobus. Noi siamo la società. Le nostre azioni parlano per la nostra società, a differenza dei risultati dei sondaggi ottenuti puntando una pistola immaginaria alla tempia di chi risponde.
Dodici mesi di processo, arresti domiciliari, decine di interrogatori, dozzine di udienze, un atto d’accusa in 212 volumi che siamo stati costretti a leggere - tutto questo ha messo a dura prova il nostro concetto di solidarietà, l'idea che possiamo fare molto se stiamo insieme. E tuttavia penso che siamo stati all'altezza della sfida. Fin dal primo giorno, abbiamo visto centinaia di migliaia di persone ci sostengono. Nonostante le intimidazioni affrontate, studenti e insegnanti delle università russe sono venuti a sostenerci, mentre centinaia di persone continuano a venire alle nostre udienze un anno dopo la nostra prima detenzione. Siamo sopravvissuti, siamo rimasti sani di mente, non ci siamo arresi.
Potrei dirvi i miei pensieri sul nostro caso. Che ciò di cui siamo accusati non ha senso, che teoricamente è impossibile da provare. L'accusa non ha trovato un solo adolescente che abbia visto il nostro video, sia andato a una manifestazione, abbia preso il coronavirus e sia morto, perché non ne esistono. Ma non mi è mai stato chiaro cosa potrei dire in quest'aula per avere la possibilità di essere ascoltato.
E così, a prescindere dal verdetto, mi rivolgo ai giovani di tutto il paese con un appello, lo stesso appello che un esperto dell'accusa ha ritenuto un invito a partecipare a raduni specifici. Non abbiate paura e non restate in disparte. La paura è l'unica cosa che permette loro di dividerci. Nelle ultime settimane, abbiamo visto molti esempi di eroismo: giovani, spesso giovani donne, che continuano a scendere per strada e protestano contro la guerra, nonostante decine di migliaia di arresti e perquisizioni. Persone torturate nelle nostre stazioni di polizia, ma che non si arrendono e continuano a lottare. Oggi non abbiamo il diritto morale di fermarci, né di arrenderci, né di avere paura. Ogni parola deve essere abbastanza forte da fermare le pallottole.
La questione fondamentale della nostra generazione non è solo come rimanere persone dignitose sotto il fascismo. Come fare le cose giuste e non quelle sbagliate. Dobbiamo chiederci come faremo a costruire solidarietà, a unirci in una società che è stata spietatamente distrutta nel corso di diversi decenni. "I giovani - quelli siamo noi, e vinceremo sicuramente" - queste parole risuonano alla fine del nostro video. E davvero: se non noi, allora chi?
Articolo originale pubblicato sul sito indipendente russo Meduza - per sostenere il sito si può donare tramite questa pagina.