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L’Afghanistan dopo il ritorno dei talebani: senza cibo e senza diritti

29 Marzo 2022 8 min lettura

L’Afghanistan dopo il ritorno dei talebani: senza cibo e senza diritti

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“Non credo la mia vita abbia più alcun senso. Vorrei morire e lasciare questo mondo che è tanto ingiusto con noi donne. Non potete capire cosa significhi, essere ridotte a un pezzo di carne. Macchine per fare figli, senza sentimenti, senza volontà, senza sogni”, ci dice Amaal (non è il suo vero nome), via whatsapp, mercoledì poche ore dopo che i talebani hanno aperto e richiuso le scuole superiori per le ragazze afghane. Non è neanche stata data una chiara spiegazione per la chiusura dell’ultimo minuto, anche se secondo alcune fonti, ci sarebbe stata una riunione della leadership dove si sono scontrati sia sulle uniformi necessarie perché le ragazze vadano a scuola, sia sul rifiuto per alcuni della necessità di un’istruzione per le ragazze adolescenti. Ad oggi a scuola possono andare solo le bambine fino ai 12 anni, e quelle che stanno finendo l’università.

“I miei genitori vogliono che mi sposi, non importa con chi, basta che porti un po’ di soldi in casa, meglio che abbia un lavoro, non importa se è vecchio o analfabeta”, dice una disperata Amaal che ha 16 anni e fino all’agosto scorso pensava che avrebbe finito le scuole superiori, sarebbe andata all’università e sarebbe diventata una dottoressa.

“Se mi costringono a sposarmi, mi uccido, non ho paura di morire, ho paura di vivere. Voglio venire via dall’Afghanistan questo posto non è più per noi”. Amaal è solo una delle centinaia di migliaia di adolescenti afghane intrappolate nella peggiore crisi umanitaria, sociale ed economica del mondo. Una ragazza che fino a sette mesi fa sognava e sperava, che si faceva i selfie ritoccati per Instagram e studiava per diventare una donna indipendente nella misura in cui lo si poteva diventare in un paese che è sempre stato rigido, conservatore e faticoso per una donna che voleva emanciparsi.

Ma neanche nelle peggiori previsioni, avevano immaginato che potesse diventare la tomba di un genere. “La maggior parte dei miei pazienti sono donne, e soffrono tutte di depressione acuta come non ne ho mai viste nella mia carriera”, ci dice un noto psicologo, che preferisce restare anonimo perché come molte persone, ammette che non sa cosa sia più lecito dire ai giornalisti, in un paese dove il dissenso si paga con vessazioni, sparizioni, il carcere e anche la morte. L’ultima testata giornalistica a venir chiusa è Voice of the Nation a Kandahar con i suoi giornalisti in stato di fermo. Ma almeno 253 media outlet, secondo  Reporters Senza Frontiere, sono stati chiusi, circa il 40%, mentre quelli rimasti aperti si autocensurano e sono costretti a non criticare i talebani. Non solo, nelle ultime ore la programmazione televisiva della BBC è stata interrotta in Afghanistan, dopo che i talebani hanno ordinato ai canali locali di non trasmettere contenuti di partner internazionali. Lo stesso sta accadendo a Voice of America e DW.

Alcune donne riescono ancora a trovare le forze di scendere in piazza, ma con loro non ci sono gli uomini perché sarebbero doppiamente presi di mira dai talebani e in molti pensano che sia permesso loro di sfilare nelle strade delle principali città afghane solo perché i talebani possano dire all’occidente che in fondo le donne sono libere di dissentire. Ma se una ventina di ragazze hanno manifestato, migliaia restano chiuse in casa, alle prese con divieti come quello di lavorare, che impedisce alle donne vedove di mantenere i propri figli, o quello di fare oltre 70 km di strada da sole. Oltre a non andare a scuola, a non fare sport, a non potersi truccare, indossare profumi. A non poter recitare, ballare, continuare a fare le giornaliste o postare video divertenti su Tiktok.

I centri antiviolenza sono stati chiusi. Le ONG di donne smantellate, anche se alcune stanno timidamente riaprendo adattando uffici e progetti alle rigide direttiva talebani. I ristoranti per sole donne non hanno riaperto. E da qualche giorno le donne non possono neanche salire su aereo da sole se non hanno un tutore maschio: secondo una nuova direttiva, non confermata dal ministero degli Interni, ma mostrata con tanto di lettera dall'Ariana, una delle due compagnie aeree afghane che volano da Kabul a Islamabad e Dubai, le donne non possono salire a bordo da sole. E quelle che lo fanno con un tutore devono attenersi a un rigido sistema di abbigliamento. Nel fine settimana perfino un’afghana con passaporto americano non è riuscita a partire.

Una prigione. Colpevoli di essere donne. Ma la cosa peggiore per tutte, è non poter più scegliere per loro stesse. Eterne bambine, dipendenti dalle decisioni dei padri, dei fratelli, dei mariti e dallo Stato. Secondo alcune, i talebani hanno più paura di una donna istruita che dell’intero esercito americano. Lo pensa, soprattutto, la comunità sciita afghana, gli Hazara, detti anche il “popolo gentile” che negli ultimi 20 anni ha investito più nell’istruzione che in qualsiasi altro progetto – non a caso la maggior parte delle donne portate via durante l’evacuazione dello scorso agosto, quando in due settimane sono andate via 150 mila persone, era hazara.

“Quanto la fate lunga voi occidentali, con questa storia della scuola per le donne – ci disse il vice capo della commissione cultura del governo qualche mese fa a Kabul – non vedete dove siamo arrivati noi senza andare all’università?”. Nel frattempo si abbassa l’età dei matrimoni, aumentano quelli combinati, i parti precoci e la vendita di bambini piccoli per poter sfamare i fratelli.

Intanto i talebani incontrano l’Occidente e usano la crisi economica afghana per cercare di avere soldi, i diritti delle donne spesso diventano ago della bilancia delle trattative, un ago che pende sempre dalla parte sbagliata. Ma d’altra parte quando 10 milioni di bambini rischiano di morir di fame, quando l’elettricità è razionata, quando non c’è lavoro, il diritto di studiare sembra effimero di fronte al diritto di sopravvivere.

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Gli americani hanno fatto saltare i colloqui che si sarebbero dovuti tenere il 26 e 27 marzo a Doha in Qatar: si sarebbero dovute affrontare questioni economiche ma un portavoce del Dipartimento di Stato americano ha detto che “la decisione di impedire alle ragazze di frequentare le scuole superiori è stata un’inversione profondamente deludente e inspiegabile degli impegni nei confronti del popolo afghano, in primo luogo, e anche verso la comunità internazionale”.

Tutti sono rimasti sorpresi per quello che è accaduto la settimana scorsa. Prima un annuncio del ministero dell’Istruzione che diceva che dopo la pausa estiva le scuole avrebbero riaperto per tutti, maschi e femmine, in tutte le province tranne quelle meridionali come Kandahar, storica roccaforte dei talebani. E poi, l’eccitazione smisurata delle ragazze che si sono precipitate a scuola per scoprire poche ore dopo che avrebbero dovuto tornarsene a casa. Dalla gioia sono passate alle lacrime, lanciando i quaderni a terra e guardando al loro futuro senza speranza. In realtà secondo molti, il disguido scuole aperte – scuole chiuse, racconta delle divisioni interne all’interno della leadership con una frangia se non più moderata, ma più consapevole che il percorso degli anni ’90 non è più percorribile se si vuole uscire dalla politica dell’isolamento e l’altra altamente rigida che vede nel tenere le donne a casa, il baluardo di un Islam dei tempi passati che non era affatto come se lo raccontano loro.

E così le trattative si sospendono, gli Stati Uniti – che hanno abbandonato e per gli afghani, tradito il paese – cercano di mandare un messaggio forte ai talebani che vogliono essere riconosciuti. Ma basterà nel momento in cui il viceministro degli interni talebano Abdul Ghani Baradar, parla di un Afghanistan che deve diventare autosufficiente per non dipendere da nessuno? Ad oggi è impossibile in un paese dove 23 dei 37 milioni di abitanti soffrono di fame acuta e il 95% della popolazione non mangia abbastanza, secondo le Nazioni Unite, dove il 97% della popolazione è al di sotto della soglia di povertà. E 3,4 milioni sono sfollati interni (UNHCR). Dove secondo la Banca Centrale afghana servono almeno 10 miliardi per gestire in modo basico lo Stato e i talebani non arrivano ad un terzo con i soldi che ricavano dalle miniere (in parte affidate alla Cina) e dai proventi dell’eroina l’unico mercato che non ha perso un colpo dalla crisi che ha colpito il paese.

Tutto il resto è un vero e proprio sfacelo, tanto che l’Afghanistan nell’index dei paesi più felici al mondo, è per il terzo anno consecutivo all’ultimo posto. Infelici e affamati: il World Food Program (WFP) ha messo in guardia che, se non arriveranno i fondi che servono dai paesi donatori, dovranno interrompere le operazioni in Afghanistan. Intanto l’Emirato islamico continua a ripetere che la distribuzione degli aiuti dovrebbe passare attraverso le istituzioni nazionali per garantirne la trasparenza, ma le sanzioni, l’impossibilità delle banche di fare transazioni e la paura occidentale che questo possa significare per loro una sorta di riconoscimento internazionale, fa sì che gli aiuti arrivino fisicamente a mano, ma non abbastanza.

“Oltre la metà di tutti gli afgani - 23 milioni di persone - ha bisogno di assistenza alimentare di emergenza. Eppure la mancanza di fondi minaccia di fermare le operazioni”, ha affermato WFP su Twitter. Nell'ultimo mese sono stati forniti materiali alimentari a circa 12 milioni di afghani. Servono 1,6 miliardi di dollari per continuare a fornire aiuti alle persone bisognose in Afghanistan.

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Altro problema non indifferente, sono gli interessi internazionali che rappresenta l’Afghanistan, con una forte presenza dell’Isis, nemico dei talebani che cerca di perseguire il suo desiderio di emirato internazionale, a cui si aggiunge una Cina e una Russia noti per il loro disinteresse nei diritti umani, e che invece aspirano a un passaggio attraverso l’Asia Centrale e chiedono il controllo di alcuni gruppi terroristici, frange dell’Isis ma anche militanze più autoctone, che la Cina teme molto. E poi, da una parte il Pakistan, ritenuto il burattinaio dei talebani, e dall'altra, un Iran preoccupato per l’allargamento del divario religioso, (non solo le donne sono escluse dalla vita sociale e politica del paese ma anche gli sciiti e altre minoranze). Gli iraniani temono anche l’aumento del traffico di droga e la promozione dell’ideologia salafita.

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Shukria Barakzai, femminista, musulmana e politica che, come molte, ha dovuto ripiegare all’estero dopo che i talebani avevano tentato di ucciderla prima e dopo la presa del potere da parte dei fondamentalisti islamici, aveva predetto che ci sarebbe stato un barlume di sicurezza in Afghanistan. L’intensità della guerra che ha attanagliato l’Afghanistan negli ultimi 20, a parte gli attentati dell’Isis contro i talebani e gli hazara, la comunità sciita, è diminuita, ci si muove nel paese, e potrebbe significare che è esplosa la pace anche se traboccante di difetti, ma per i giornalisti, gli attivisti, politici, ex membri del governo o dell’esercito e soprattutto, per le donne una pace senza diritti non è un’opzione: “Dove non c’è inclusione, uguaglianza, rispetto e diritti, è solo una prigione, è solo un altro regime, non è pace”, ha concluso con amarezza Barakzai.

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