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Iperconnessi, soli e maleducati?

30 Marzo 2012 4 min lettura

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Iperconnessi, soli e maleducati?

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Dino Amenduni - @doonie
@valigiablu - riproduzione consigliata

Ho letto la bussola di Repubblica, a cura di Ilvo Diamanti, dal titolo La community degli individui che parlano da soli. Ed è una delle rarissime volte in cui sono in disaccordo con l'autore, che conosco personalmente e per cui nutro una profondissima stima personale e professionale. 
È praticamente impossibile contestare la fotografia presente nell'articolo, la descrizione di come gli esseri umani contemporanei, e i 'nativi digitali' in particolare, si comportano, parlano e passano il loro tempo nell'universo always on, sempre connesso. 
È vero: ascoltiamo musica nei mezzi pubblici senza rivolgere la parola a nessuno, camminiamo parlando al telefono, twittiamo in treno, usiamo il tablet mentre siamo al pub con gli amici, leggiamo i giornali online in coda dal medico e scattiamo foto da pubblicare su Facebook non appena ne abbiamo voglia, anche se questi gesti dovessero poi risultare inutili o ridondanti. 
Ciò che della descrizione di Diamanti non mi convince è la conclusione che ne ricava: l'utilizzo intensivo della tecnologia ci rende atomi, soli, scollegati con il mondo che ci circonda. A me pare l'esatto contrario. Non c'è un momento in cui, con un dispositivo collegato in Rete, qualcuno possa davvero sentirsi solo. A meno che non ne abbia voglia, naturalmente.

Ci sono le bacheche di Facebook, i flussi di Twitter, i messaggi di Whatsapp. Ci sono i giochi per smartphone, le mailing list che ci interessano, i quotidiani online. Ci sono i messaggi che scriviamo noi, che possiamo scrivere con estrema facilità e modificando persino le forme classiche del linguaggio (ibridando scritto e parlato in uno 'scritlato' che per molti è già il nuovo italiano, con buona pace dei puristi). E ci sono i commenti a ciò che scriviamo e pensiamo, prodotti con altrettanta facilità dai nostri amici e lettori. 

Chi intende la comunicazione sui social media per ciò che naturalmente dovrebbe essere, e cioè un rapporto realmente bidirezionale, soffre piuttosto del problema opposto: stare soli, oggi, è praticamente impossibile. Ci portiamo dietro il lavoro, il divertimento, le preoccupazioni. Avendo un accesso ipersemplificato alle informazioni, utilizziamo quella opportunità e questo rende assai difficile scollegarsi dal ritmo frenetico dell'attualità e della quotidianità. Ci portiamo i commenti, positivi e negativi, su ciò che siamo, diciamo, mostriamo online e c'è una costante, spesso inconsapevole, regolazione della nostra identità digitale sulla base di ciò che accade. E dobbiamo, nel limite del possibile, rispondere a tutti, perché una non-risposta è un gesto di disinteresse, o di poca cura.

Questo comporta un carico cognitivo mai conosciuto prima, anche perché non è necessario essere 'online' per essere 'connessi'. 

Lo dimostra, in piccolo, la gestazione di questo post. Ho letto l'articolo di Diamanti ieri sera intorno alle 22, in ufficio, mentre preparavo una presentazione. Ho subito condiviso il link sul mio profilo Facebook anticipando il mio punto di vista. Stamattina, sul tragitto aeroporto-stazione, ho acceso il tablet leggendo i primi commenti in Rete, a partire da quelli dei miei amici. E sto scrivendo il post in treno, continuando a tenere d'occhio i commenti, tutti preziosi perché mi permettono di mettere a fuoco il problema, isolare gli elementi determinanti, allargare lo spettro della mia riflessione. Riflessione che è proseguita in aereo, a computer spento, o nei tratti a piedi.

In tutti questi passaggi sono stato solo fisicamente, ma non sono mai stato realmente da solo, né tantomeno mi sono sentito solo.

Per essere soli, oggi, bisogna forse adottare un atteggiamento forte e per certi versi paradossale. Bisogna spegnere tutto. 

Diamanti ritiene che l'iperconnettività conduca alla solitudine. Io la penso esattamente all'opposto.

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Penso che in realtà ci sia un oggetto dell'analisi che esula dal confronto su cosa sia la solitudine oggi. Ed è legato al valore che oggi attribuiamo al tempo e alle relazioni. A mio avviso sta rapidamente precipitando una caratteristica della nostra società, che per alcuni è un valore, per me è una forma di ipocrisia: la condivisione della propria vita e dei propri pensieri per prossimità (parlo con le persone a me vicine fisicamente) sta lasciando spazio, nemmeno troppo lentamente, alla condivisione per affinità (parlo, cioè, con le persone con cui voglio davvero parlare).

Questo slittamento colpisce al cuore molte regole basilari di educazione, ad esempio quella per cui quando due o più persone sono nello stesso posto devono mostrare reciproca attenzione (mostrare, non avere), non devono distrarsi (apparentemente), devono ascoltare ciò che l'altro dice (almeno far finta). Non è infrequente che le persone iperconnesse (tra cui mi inserisco senza problemi, con gli annessi sfottò di amici e conoscenti e la generica accusa di sociopatia) non rispettino quelle regole, facendo semplicemente ciò che desiderano ed essendo accusate di maleducazione per questo. Quando una persona non è interessante, non fanno finta che lo sia; la ignorano e fanno altro.

Non ho ancora ascoltato due 'iperconnessi' accusarsi reciprocamente di mancanza di rispetto o di maleducazione. Né ho sentito questo tipo di interlocutori accusare l'altro di lasciarlo solo durante un momento di compagnia 'offline'. Al contrario, spesso è dal tablet, dal tweet, dalla foto su Facebook che può partire una discussione più interessante tra persone mentre sono insieme. 

Io definisco questo fenomeno 'coda lunga dell'interesse interpersonale'. Banalmente, se posso scegliere tra una compagnia di tre persone 'offline' e una compagnia di tre persone 'offline' più 400 'online', sceglierò una coerente combinazione delle due opportunità.

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719 Comments
  1. isabella

    Vi è una alterazione della percezione attraverso la rete, dell'altro e di se stessi. E questo si riflette nella organizzazione della identità propria dell'individuo e nel complesso dei rapporti sociali. Vi è una parzialità nella comunicazione, dovuta alla assenza fisica del mio interlocutore e di me stesso nella interlocuzione. Ci sono degli studi sul tema, che sarebbe stato interessante produrre in un eventuale risposta all'articolo di Repubblica. Il modo in cui si sta modificando la percezione del senso delle cose, di se stessi in rapporto alla realtà attraverso questa modalità, in cui tutto è immagine e parola scritta, è molto radicale e profonda. E produce paradossi. Omologare il senso della solitudine/non solitudine con la presenza/assenza sulla rete, - non sono solo perché sto in rete - è un modo di modificare il senso della condizione di solitudine/non solitudine, presenza/ assenza che si è già compiuto nella testa di chi scrive. e in questa risposta che vi è un sintomo di questa avvenuta inversione dei significati dopo la nascita e l'uso massiccio della comunicazione on line. Qui manca il tatto, la vista, l'olfatto. Non si può ignorare l'effetto prodotto dalla presenza / assenza fisica di una persona sulla mia percezione, sulla sfera cognitiva, appunto. Questa dinamica di relazione, produce un cambiamento che non si può ridurre a una opinione di tipo morale sul senso del social network.

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