L’amica geniale: andare oltre l’idea del ‘romanzo rosa’
8 min lettura
Qualche mese fa, mi sono ritrovata a chiacchierare di libri con una ragazza, una studentessa di Letteratura scozzese. Quando ha capito che venivo dalle zone de L’amica geniale, la sua prima domanda è stata: «Tu che sei di lì, puoi dirmi se la gente ama Elena Ferrante?». Di certo non potevo parlare per tutti, mi sono venute in mente un po’ di persone e ho risposto sì, posso rispondere solo per chi conosco, le ho detto, ma Elena Ferrante tendenzialmente piace molto. A quel punto il suo viso si è aperto, rilassato. È stato come se il suo amore per l’autrice potesse finalmente schiudersi. E mi ha detto: «Sai, siccome sono di Glasgow, so bene che rischio c’è quando luoghi difficili come i nostri vengono scritti, magari da chi non li conosce. Perché succede che poi, chi nei luoghi ci vive davvero, finisce per odiare quell’autore per averli maltrattati e tu non puoi fare nulla per difenderli».
Il suo pensiero mi ha colpita così tanto che non ho avuto il coraggio di dirle quanto il successo di Elena Ferrante sia a volte fin troppo ingombrante per Napoli. Un ammasso di passioni gentrificanti che si traducono in furia turistica, rallentata solo temporaneamente dalla pandemia, più che nell’interesse di comprendere trame complesse. Le ho detto che Napoli non è la sua provincia, che conosco meglio, ma condivide con essa il senso sfuggente delle cose, che contrasta con quella smania di descrivere e congelare il Sud in una rappresentazione che proviene sempre dall’esterno. Un’altra domanda che la ragazza mi ha fatto è se la serie mi piaccia quanto il libro. Qui è più complicato: a me non piace la voce narrante, ad esempio, trovo sia forzata su una lingua totalmente diversa, ma la serie ha forse qualche possibilità in più di portare alla luce alcuni temi fondanti della tetralogia che, intrappolata nella reputazione di romanzo rosa, continuano a passare sottotraccia, di sicuro in Italia.
Che importa chi è Elena Ferrante?
Dall’uscita della serie tv L’amica geniale, mastodontica produzione italo-statunitense con la regia di Saverio Costanzo, Alice Rohrwacher e Daniele Luchetti, le polemiche sull’identità di Elena Ferrante si sono un po’ calmate. Di congetture se ne sono fatte molte, persino inchieste, a volte accompagnate da un inspiegabile rancore. Un’idea abbastanza popolare è che l’anonimato possa inficiare in qualche modo il senso di autenticità di un’opera di finzione. Poi se un’autrice è anonima, allora l’opera non vale niente e chi non si preoccupa di quell’anonimato è una persona che crede a tutto. Nella storia delle varie congetture che si sono diffuse negli anni, la più interessante è di sicuro quella che dice: Elena Ferrante è un uomo. E se Elena Ferrante fosse un uomo, tutto diventerebbe una truffa bella e buona. Personalmente, non credo che Ferrante sia un uomo, ma la verità è che non mi è mai interessato più di tanto. Per me è importante che la persona che ha scritto L’amica geniale sia riuscita a mettere a fuoco l’identità di alcune donne del Sud Italia – cosa che comprende anche tutte le loro sfocature o, per dirla con Ferrante, le “smarginature” - e di scomporre e ricomporre i contesti in cui le protagoniste nascono e crescono con un’accuratezza - l’universalità di dettagli in cui è possibile identificarsi - che non ha eguali. E non mi parrebbe uno scandalo, ma una conquista, anche se, per dire, a scrivere fosse stata una persona proveniente da altre geografie, fisiche e mentali.
Temo, tuttavia, che le ragioni per cui si dica che Elena Ferrante sia un uomo abbiano tutt’altre prospettive, come l’idea che una donna sia incapace di tali altezze letterarie. E questa è in fondo la dimostrazione di come non siano molti i privilegi dell’essere un’autrice. Ad esempio, proprio la difficoltà di non farsi relegare alla categoria di romanzetti rosa, alla quale non si concede mai nessuna dignità. Se Elena Ferrante fosse un uomo, se magari anche i protagonisti dei suoi romanzi fossero uomini, se le loro storie si dipanassero in decenni cruciali per l’Italia, dal Dopoguerra agli anni Settanta, attraversando il boom economico, le lotte operaie, quelle femministe, il lavoro, lo sfruttamento, la rivoluzione dei costumi, se tutto quello che è accaduto a Lila e Lenù durante i quattro libri fosse trasferibile nella storia di due amici, se tutto questo fosse finito in una produzione cinematografica internazionale, probabilmente parleremmo di una potentissima saga working class. Ma non è così. Ne L’amica geniale, sono diversi i temi che faticano a emergere, non solo quello della classe, nonostante la diffusione su larga scala. E trovo sia molto più utile parlare di questo: per chi scrive, la tetralogia è una delle descrizioni letterarie popolari più efficaci delle intersezioni tra classe, genere e questione meridionale in Italia.
Lila, l'operaia invisibile
Approfondire i numerosi spunti che riguardano il tema della classe ne L’amica geniale sarebbe lungo, quindi atteniamoci solo a qualche stralcio del personaggio di Lila, colei che rimane invischiata e avvinghiata al rione. La sua coscienza di classe non è un’identità solida, ma una continua contraddizione, fatta di sfumature, di fughe e ritorni, di improvvise epifanie, struggenti consapevolezze, ma anche di rabbia e vergogna difficili da esprimere. Quando si parla di classe lavoratrice in Italia, questa viene sempre incarnata dalla lunga e significativa cultura operaia che ha forgiato le passate generazioni di uomini. Ai margini di quella potente e bellissima rappresentazione, però, che non restituisce piena dignità nemmeno alla classe operaia contemporanea, c’è in realtà spazio per poco altro. Rimangono orfane tante soggettività, ne sfuggono molte che provengono dal Sud Italia deprivato e deindustrializzato, identità che sfuggono alle logiche più rappresentate. E diciamo anche che per guadagnare una sua dignità, oltre a essere scritto da un uomo, il personaggio di classe lavoratrice o povera, deve fare il suo dovere di bravo compagno. Il contrario di Lila Cerullo, che, prendendo a esempio solo le ultime vicende trattate nella serie tv, sfugge al sindacato e sfugge al richiamo dei suoi compagni, tanti figli di medici e insegnanti, che vogliono buttarla nella mischia chiedendole di mettere a servizio un’esperienza che in realtà non conoscono, a costo di sacrificare la sua salute. In altre parole, Ferrante evita a tutti i costi la romanticizzazione e i finali scontati e affida a Lila i tormenti di quell’operaia che la classe media, impegnata politicamente, idealizza o abbandona a seconda delle scelte che farà. Perché le scelte giuste sono sempre quelle riconoscibili da chi il privilegio della scelta ce l’ha.
Lila e Lenù in qualche modo descrivono quella coscienza di classe che manca di un orgoglio pacificato e di una vera collettività a sostenerle: il collettivo fa finta di ascoltare le loro storie, ma non riesce davvero a comprenderle. E Lila ritrova la cura nell’amicizia, nella sorellanza di Elena, e non tra i compagni. E questo è il suo peccato. Eppure, è proprio il racconto dell’esperienza che dimostra la loro appartenenza di classe con cui dover fare i conti in ogni fase della vita, di sicuro più solida dei compagni e delle compagne di famiglie ricche, che possono sempre decidere di cambiare strada. Le trappole e le reti delle condizioni materiali ti accompagnano per sempre, sotto forma di impedimenti materiali, ma anche di fantasmi mentali, paure e incertezze. La sindrome dell’impostora di Elena è vivida tanto quanto le macchie di sangue di animale macellato sulle mani di Lila. Tirarsi fuori dal rione è un’impresa impossibile.
Non solo Nino Sarratore
L’Amica geniale è una storia che parla di uomini altrettanto profondamente di quanto parli di donne. Lo spettro dei dolori in cui abitano Lila e Lenù è reso ancor più sfaccettato dalle personalità degli uomini coprotagonisti. Le manie di grandezza, dominio e sopraffazione, la fragilità che genera violenza, una tenerezza che deve nascondersi da tutto per esistere, il modo in cui le azioni ingabbiano o liberano - o danno l’illusione di farlo - le due giovani donne, ci raccontano proprio del ruolo degli uomini e dell’inizio di una crisi di identità non riconosciuta di cui oggi scontiamo ancora le conseguenze.
L’amica geniale, in quel successo che oggi si trasforma anche nelle forme dei social, fatto di meme e tormentoni, riconosce in Nino Sarratore il portatore di quella mascolinità detta tossica, il maschio da mettere alla gogna. Questa concentrazione di antipatia sul personaggio di Nino mi sembra molto indicativa. Sarratore è di sicuro una figura che in molte abbiamo in mente: il ragazzo colto, di classe media, di sinistra, che ci tiene sempre a dire di essere femminista, ed è invece completamente immerso in una cultura patriarcale che non sa riconoscere su di sé. Eppure, ne L’amica geniale ci sono descrizioni di violenza verbale e fisica, da parte di tanti uomini del rione, dal padre di Lila fino a suo marito, dai Solara ai padroni della fabbrica, ma loro non sono oggetto di slogan. Sarà forse perché parlano un’altra lingua, una meno intellettuale, sottile e psicologica, che veste i panni della classe povera, quindi da dare per scontata, come se fosse parte del paesaggio. Per molte donne del Sud la figura più familiare non è quella di Nino Sarratore, che risulta quasi mitologica. Ma sono quegli uomini che rappresentano non soltanto il guizzo caratteriale, ma che si diluiscono e nascondono in un sistema di potere pervasivo. La rete che cerca di annientare le donne: l’omertà e il giudizio della famiglia, il potere del sistema camorristico, lo sfruttamento specifico nei territori in cui vige il ricatto del lavoro sommerso. Sono i protagonisti di un’oppressione sistemica forse meno riconoscibile, difficile da incarnare in una sola persona, una difficoltà di emancipazione specifica su cui il femminismo mainstream ha sempre fatto fatica a sintonizzarsi. E che parla anche di questione meridionale.
Femminismo a Sud
Per quanto le vicende di Lila e Lenù siano riuscite a toccare il cuore di tante donne, mi viene spesso da domandarmi se dai loro personaggi ci si ritrovi più a prendere che a ricevere. Le due ragazze sono diventate qualcuno per cui tifare o da buttare giù per le loro scelte giuste e sbagliate, secondo un programma di condotta che spesso rispecchia i dettami del femminismo che si è imposto a livello mediatico negli ultimi anni, quello che riconosce un soggetto donna universale il cui obiettivo è conquistare il potere degli uomini. Questa visione a volte riesce ad appiattire anche la storia. A farsi un giro tra i commenti e le considerazioni più comuni rispetto alle personagge, a volte ci sembra di dimenticare che Lila e Lenù siano due giovani donne nate negli anni ’40 in un rione deprivato di Napoli. Nonostante Ferrante prima e i registi poi, siano riusciti a trasporre le loro vicende in ambientazioni che ce lo dimostrano alla perfezione, pieno di dettagli, usando una lingua ibrida e senza rinunciare alla complessità, il tipo di lettura che si impone sulla storia è quello che riduce le protagoniste a figurine tra cui scegliere. È difficile comunicare l’esperienza di una donna del Sud Italia di quegli anni, incastrata tra cambiamenti di cui non potrà mai godere, se non per momenti brevi e illusori. Le scelte di Elena appariranno mille volte sbagliate agli occhi di molte donne di oggi, quelle di Lila anche, ma di nuovo, le scelte giuste sono molto spesso un privilegio.
Guardare L’amica geniale può anche essere la possibilità di sperimentare per qualche minuto, per chi non le ha mai vissute, le infinite contraddizioni di chi vive in territori emotivi e materiali, in cui o si “fugge” o si “resta”, e non si può mai esistere e basta. E non sarà facile scioglierle se non uscendo dalla finzione che per molte è sempre stata la realtà, fin dall’inizio di questa storia.