L’assurda petizione per ‘difendere’ la lingua italiana
8 min letturaAggiornamento 10 febbraio 2022: Sul sito del Corriere, nella sezione La 27esima Ora, è stata pubblicata oggi la risposta di Maurizio Decastri alla petizione contro lo scevà. Decastri, ordinario di Organizzazione Aziendale presso l'Università di Roma Tor Vergata, è l'autore e firmatario dei verbali di commissione menzionati nella petizione. Scrive Decastri:
La lingua evolve secondo processi storici: se nel tempo lo schwa diventerà o meno di uso comune - «a dispetto dì tutti i linguai, cominciando da me… che accetto ogni nuova parola che la mia lingua non mi può dare, per significare qualcosa di nuovo», citando il filologo Rigutini che lo scrisse nel 1886 - lo decideranno non un gruppo di intellettuali con le petizioni, ma la società che avanza, che sceglie a chi e cosa dare spazio e rappresentazione e, soprattutto, le giovani generazioni che leggeranno in quella ə un «disturbo molesto» o un’iniziativa di accoglienza e cambiamento.
Il 5 febbraio viene lanciata una petizione sul sito Change.org dal titolo “Lo schwa (ə)? No, grazie. Pro lingua nostra”. La petizione è promossa da Massimo Arcangeli, importante linguista e professore ordinario all’Università di Cagliari. Tra i primi firmatari, direttamente nel testo della petizione, si possono leggere molti nomi di prestigio, in particolare del mondo accademico, culturale e artistico. Tra questi, Claudio Marazzini, presidente dell’Accademia della Crusca, Luca Serianni, Gian Luigi Beccaria, Massimo Cacciari e Ascanio Celestini. L’occasione da cui muove il testo sarebbero i verbali di un concorso per “l’abilitazione scientifica nazionale alle funzioni di professore universitario di prima e seconda fascia”, dove si può riscontrare per l’appunto il ricorso allo scevà. Non è il primo caso in cui l’utilizzo di linguaggio inclusivo nel mondo accademico desta polemiche. Nello scorso dicembre, ad esempio, una campagna promossa dall’Università di Udine aveva visto opporsi un intellettuale come Giordano Bruno Guerri, e a stretto giro politici del centro-destra.
Si legge nella petizione:
Siamo di fronte a una pericolosa deriva, spacciata per anelito d'inclusività da incompetenti in materia linguistica, che vorrebbe riformare l'italiano a suon di schwa. I promotori dell'ennesima follia, bandita sotto le insegne del politicamente corretto, pur consapevoli che l'uso della "e" rovesciata" [sic] non si potrebbe mai applicare alla lingua italiana in modo sistematico, predicano regole inaccettabili, col rischio di arrecare seri danni anche a carico di chi soffre di dislessia e di altre patologie neuroatipiche.
Lo schwa e altri simboli (slash, asterischi, chioccioline, ecc.), oppure specifici suoni (come la "u" in "Caru tuttu", per "Cari tutti, care tutte"), che si vorrebbe introdurre a modificare l'uso linguistico italiano corrente, non sono motivati da reali richieste di cambiamento. Sono invece il frutto di un perbenismo, superficiale e modaiolo, intenzionato ad azzerare secoli e secoli di evoluzione linguistica e culturale con la scusa dell'inclusività. [...] Peculiare di diversi dialetti italiani, e molto familiare alla lingua inglese, lo schwa, stante la limitazione posta al suo utilizzo (la posizione finale), trasformerebbe l'intera penisola, se lo adottassimo, in una terra di mezzo compresa pressappoco fra l'Abruzzo, il Lazio meridionale e il calabrese dell'area di Cosenza.
In questa sede offriamo un umile contributo al dibattito, partendo da un primo giudizio: che la petizione sia stata scritta da accademici rattrista e deprime, tanto più se si guarda agli elevati pulpiti da cui proviene. Davvero una lingua ha bisogno di essere “difesa” a mezzo petizione? Davvero le massime vette nello studio della nostra lingua non sanno scrivere, sostenere di meglio? Un tono rancoroso e sprezzante, una specie di sbrocco che pare scritto in mezz’ora, un rimasuglio reazionario che ha assorbito con un ritardo di almeno 30 anni tutta la polemica americana sul “politicamente corretto” vista da destra, con annessa una serie di giudizi squalificanti e gratuiti.
Una polemica che cade a sproposito in Italia, paese dove abbiamo casomai problemi di “cattolicamente corretto” e “patriotticamente corretto”, dove si fa la morale a Black Lives Matter senza che il passato coloniale sia mai stato seriamente affrontato, a partire dalla toponomastica, e senza saper introdurre una doverosa riforma della cittadinanza; dove abbiamo senatori che festeggiano neanche l’affossamento di leggi contro le discriminazioni, ma il loro boicottaggio tecnico a mezzo voto segreto.
Non si sa neanche da dove partire nello spiegare quanto ci sia di sbagliato nella petizione. Perché, per esempio, si possono sciacquare i panni in Arno ma non si può scendere sotto la Piana del Fucino? Perché usare dislessia e “patologie neuroatipiche” (sic) come foglia di fico, facendo evidente cherry picking? Inoltre, benché nel documento oggetto della contesa lo scevà sia stato usato in modo improprio, viene da dire che il problema non sembra davvero quello, se non nel classico rapporto che lega le gocce ai vasi traboccanti. Si può pure essere contrari all’uso del linguaggio inclusivo in documenti ufficiali, anche solo per ragioni burocratiche, ma la chiamata “Pro lingua nostra” è in sostanza una chiamata contro qualunque utilizzo, e quindi una chiamata “contro” delle scelte linguistiche e, soprattutto, contro chi le promuove.
Diciamo ciò in modo netto e a scanso di equivoci, avendo seguito nei giorni il dibattito che ha preso vita su varie bacheche e sui quotidiani. Dove abbiamo purtroppo constatato l’impoverimento del dibattito culturale sul tema, la sontuosa accademia che si fa bega da condominio senza nemmeno sfiorare l'invettiva, e chiede persino aiuto al giornalismo, trovando naturalmente pieno soccorso, complicità tra sodali. Tutto un fiorire di stereotipi da conservatori (il “perbenismo superficiale e modaiolo”), un repertorio che ricorda decenni di triti e ritriti editoriali, da Libero a Il Giornale.
Eppure, nel momento in cui una petizione non dichiara nessun obiettivo diretto, come invece vorrebbero le linee guida di Change.org, nella sua ricezione si palesa lo scopo effettivo: fare ammuina, serrare i ranghi attorno al "o con noi o contro di noi". Da una parte i Prefetti della lingua italiana, dall’altra i Barbari e i loro scadenti intellettuali. Poiché i Prefetti sono depositari della purezza della lingua, delle sue leggi e dell'ordine che ne deriva, ecco che instaurano con i barbari un rapporto all’insegna della validazione o del rifiuto, sempre e comunque dall'alto verso il basso. E, quindi, in sostanza, un rapporto sbirresco con le norme linguistiche e con chi le agisce. Avevamo capito che fosse il parlante a far la lingua, così come i centri culturali; che le grammatiche arrivassero dopo, ma evidentemente ci sbagliavamo. Chi dice che una lingua non si può cambiare dall’alto, ecco che raccoglie firme per andare verso l’alto - invocando l'intervento del Ministero - per fermare l’avanzata dei Barbari nell’accademia. Non ci è dato sapere perché, a livello più generale, l'uso di forme inclusive attesti una volontà di prevaricazione, perché sia sintomo di una civiltà che rischia di scomparire e non una variante, un fenomeno sociolinguistico da studiare. Viene da pensare che il problema sia proprio l'intolleranza verso i Barbari. Che sì, la lingua la faccia il parlante purché non si superi una certa linea.
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A questo punto, allora, pretendiamo dai Prefetti della lingua italiana che chiami a gran voce i capi Barbari, i loro “scadenti” linguisti. Si facciano i nomi dei corruttori! Certo, qualche anima bella potrà tacciare gli eroici Prefetti di stilare liste di proscrizione, ma capiamoci: se nel ricorrere a una petizione, a un certo tipo di toni e di commenti si è scelto di rinunciare a qualunque dibattito, se nell’autorevolezza dei firmatari la prima intenzione che si scorge è quella di serrare le fila, non sfugge il disegno, la sua metafisica. Che è, grossomodo, quella del mastino che marca il territorio - coi mezzi che sa - pronto a ringhiare se qualche randagio o altezzoso barboncino si avvicina ad annusare. Se c’è una volontà di imporre gerarchie, insomma, e per tono e per argomenti la si può scorgere nella petizione e chi la promuove, e non da oggi. Si petiziona a nuora perché suocera precaria con l’assegno di ricerca in scadenza intenda.
Ma davvero, a questo punto si ricorra non al ministro, ma ai tribunali, alla carte bollate. Scendano in campo giudici e avvocati fingendo che il problema siano solo dei verbali. Se non altro per dar lavoro ai linguisti dei secoli a venire, che potranno così avere i loro placiti campani, e potranno meglio attestare la questione della lingua ad altezza XXI secolo: non più se sia meglio il volgare o il latino, non più quale volgare per la nostra letteratura, non più l’utilità delle traduzioni rispetto al classicismo, ma la rappresentazione linguistica della non binarietà. Perché è questo che prima di tutto ci stanno dicendo comunità di parlanti di diversa estrazione sociale in varie parti del mondo, dagli Stati Uniti alla Gran Bretagna, passando per Spagna, Francia e Norvegia, e così via. L’allontanamento della norma linguistica, che in Italia ha preso varie forme (tra cui l’asterisco, la “u” o lo scevà) non corrisponde a una condizione psichica del singolo, quanto piuttosto a un fatto sociale e politico. Ed è al fondo di tutto questo il terreno della contesa.
Possiamo nasconderci dietro le grammatiche, possiamo fare battaglie culturali sul pericolo che espressioni come “persone con cervice” siano l’araldo della cancellazione delle donne (peccato che in Scozia espressioni di questo tipo abbiano caratterizzato una campagna politica tutta al femminile, ossia l’accesso a prodotti mestruali gratuiti), ma ci sono alcuni dati di fatto che chiamano in causa anche le questioni linguistiche, e riguardano soggettività non binarie, l’idea di inclusione sociale, il superamento del binarismo di genere; la pensabilità di forme e idee attraverso le parole. Possiamo innalzare muri attraverso le norme e le sue codifiche, possiamo serrare i ranghi e arroccarci. Ma lontano dai Prefetti c’è un proliferare di narrazioni legate ai generi non conformi, al pensiero non binario: nei film, nelle serie, nei videogame, nei fumetti, nei romanzi. È e sarà sempre più una questione legata a traduttori e a poeti; a chi la lingua la traghetta da una sponda all’altra, o la crea come il vero legislatore che rimane nel tempo. Cosa vogliono fare di fronte a ciò i Prefetti, lanciare strali contro l’arte dei Barbari? Denunciare il pericolo insito nei loro costumi corrotti? E a chi gioverebbe, di grazia?
Il terrore di essere cancellati, sostituiti, la prospettiva di chi è sotto assedio pur essendo in posizione di forza; lo stimare i cambiamenti come decadenza, corruzione; la rabbiosa sbarratura di strade a soggettività percepite come non conformi, i deliri vittimisti dove ci si mette nella parte del popolo “colonizzato”; il feticismo con cui si insiste a voler usare insulti verso neri od omosessali (n...o, f...o) dietro la scusa della provocazione o della libertà, reiterando storiche prevaricazioni, compiendo abusi; l’idea grossolana che lo stato dei diritti LGBTQ+ sia rappresentato dai palinsesti o dai bilanci di aziende come Netflix, il conseguente riduzionismo nella (non) critica al capitalismo; la non consapevolezza (o la tacita compiacenza) che in paesi come il Regno Unito l'odio verso persone LGBTQ+ avanza a livelli preoccupanti, e che in atenei come Cambridge scompaiono bandiere in nome della “neutralità politica”; il ridicolo evocare a sproposito totalitarismi LGBTQ+ quando, nella stessa altezza cronologica, esistono dittature che perseguitano e reprimono persone LGBTQ+; la filigrana di angoscia sessuale percepibile in controluce. Questa che, nel complesso, è la multiforme cultura di chi concepisce la vita e il potere come spazi fissi, e teme che possano essere sottratti se si abbassa la guardia, se si apre un varco, è il male che non chiamiamo mai abbastanza per nome, intanto che strepita o piagnucola o fa la voce grossa, intanto che schiaccia il difforme sotto le suole.
(immagine anteprima via Wikimedia Commons)