È stata la mano di Sorrentino
10 min letturaPiù che inventarla, una storia la si tira sempre un po' fuori dal proprio vivere e sentire. La mia personale narrazione di È stata la mano di Dio, ultimo film di Paolo Sorrentino, tra i 15 titoli in gara per l'Oscar come miglior pellicola internazionale – sapremo domani se è ufficialmente in nomination – comincia con una goccia d'acqua che, dal soffitto della sala cinematografica in cui sono seduta, atterra ai miei piedi. Il film non è ancora cominciato, mi volto a guardare la platea: al primo spettacolo di un giorno lavorativo in cui diluvia così tanto che la pioggia s'è fatta strada anche al chiuso, assistono per lo più anziani. Un paio di file dietro di me, invece, un'attrice di mezza età, abbastanza nota. I nostri sguardi si sono incrociati all'uscita. Mascherina abbassata, sigaretta nella mano, diceva – non a me – delle sue impressioni sulla pellicola: «M'ha deluso!». Ma cos'era, quella? Un'opinione sfavorevole o un gran complimento con tanto di citazione dal film che avevamo appena visto?
Quando il film è arrivato su Netflix mi è sembrato che al regista napoletano potesse esser già conferito un riconoscimento: il premio per la tipizzazione del commento tranchant sui social network. Qualsiasi parere, entusiasta o insoddisfatto, critico o incompetente, sostenuto da riferimenti alti e bassi, da rimandi a Fellini, a Troisi, a Tornatore e finanche a Tony Tammaro, m'ha ricordato qualcosa. Il sorriso dolce e ironico di mamma Maria (Teresa Saponangelo) quando dice: «Inedito slancio poetico». Il tono perentorio di papà Saverio (Tony Servillo) quando afferma: «È brutto come la merda!». La signora Gentile che si astiene dal partecipare al pranzo di famiglia allargata – la discussione sui social – ma trova comunque il modo di esprimere il suo pensiero. Antonio Capuano interpretato da Ciro Capano che chiede al protagonista Fabietto Schisa (Filippo Scotti): «'A tien' 'na cosa 'a dicere?». Noi sì, noi tutti. E, come da titolo dell'esordio letterario di Paolo Sorrentino, abbiamo tutti ragione. Siamo il pubblico. Scriveva Pierre Sorlin nella Sociologia del Cinema che uno spettatore “vede ciò che può vedere” e un film, operando per immagini, se va tutto bene amplia “i confini del visibile”. A più di due mesi dall'uscita di È stata la mano di Dio, senza più temere di fare spoiler, ora che anche Robert De Niro ha espresso la sua opinione, possiamo finalmente chiederci, semplicemente, ma che cosa abbiamo visto?
Una famiglia, felice a modo suo. Nella peculiarità non solo partenopea ma italiana, i nuclei familiari sono allargati, conflittuali, chiassosi. Non vi è quasi mai protezione quanto prova del fuoco. Il nucleo umano rappresentato da Sorrentino – quello che all'estero faticano a credere reale – sembra mettersi d'impegno per confermare questo principio e insieme ribaltare l'incipit di Anna Karenina. Nel romanzo di Tolstoj “tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a suo modo”; in È stata la mano di Dio i motivi di disperazione e tristezza, le ragioni per schifarsi reciprocamente tra coniugi, parenti, vicini e affini, sono presenti sin dall'inizio del racconto e ci dicono di incomprensioni, tradimenti, solitudini, maternità negate, depressioni, squilibri, rancori, mazzate e imbrogli. Tutto comunissimo, tutto riconoscibile in cento altre storie rappresentate o vissute, basta accendere la tv un sabato sera su C'è posta per te. Come si può essere felici così? Chi può esserlo senza risultare anche cieco o stupido o conformista?
È nella dialettica senza esclusione di colpi che si compie il piccolo miracolo di Schisa & co. La famiglia è palcoscenico e si va tutti in scena, donne e uomini, adulti e bambini: si ride di quasi tutto e quasi tutti, si spettegola senza nasconderlo, a turno si è presi di mira e a turno si può rispondere. Unica regola, pegno dell'accoglienza: non ci si può sottrarre. Famiglia è restare, malgrado tutto, in comunicazione, una fatica che acquista senso a posteriori, quando si cercano ricordi. Cerco io stessa, frugo, e nella mia memoria – in barba a chi non crede che sia possibile nella realtà qualcosa di simile a quanto visto al cinema – prende forma un pranzo di Ferragosto degli anni Novanta, lunga tavolata sotto il sole: parente porta con sé un nuovo amico. E l'amico, per mettere subito in chiaro eventuali imbarazzi, per dire “affrontiamo subito, qui e ora, le possibili resistenze”, reca in dono alla padrona di casa un vassoio di insalata russa a forma di pesce, preparata con le sue mani. Risulterà ottima.
Sorrentino ci ha preparato a questa morale sin dal monologo di Jep Gambardella ne La grande bellezza: «Siamo tutti sull'orlo della disperazione, non abbiamo altro rimedio che guardarci in faccia, farci compagnia, pigliarci un poco in giro... O no?». Nel corso del 2021 sono arrivati al cinema e in tv due diversi film sul teatro napoletano e la famiglia più nota di tutte – la famiglia Scarpetta, da cui I fratelli De Filippo – ma la vera famiglia teatrale, non solo in senso metaforico, è quella portata in scena da Sorrentino: la prossemica e la cinesica nella scena del pranzo in Costiera è frutto di un equilibrio rintracciabile tra sceneggiatura, regia e preparazione degli attori, non solo Tony Servillo, Renato Carpentieri e Teresa Saponangelo, ma Roberto De Francesco, Massimiliano Gallo, Luisa Ranieri, Monica Nappo.
La regola del “tienimi che ti tengo”. Si tratta di un approccio e di un modo di dire abbastanza diffuso a Napoli, lo si usa in maniera ironica per evidenziare una situazione precaria in cui il pericolo di venire meno è comune e l'unico possibile sostegno per mantenersi saldi è quello reciproco. L'appoggio, è bene chiarirlo, non tende al miglioramento ma solo al perdurare di una qualche stabilità. Sempre per evitare crolli, frammentazioni e distruzioni, il napoletano “téne 'o carro p' 'a scesa” – letteralmente si sforza di trattenere un carico pesante dal precipitare lungo una discesa impervia – o anche “téne ‘mmano” – tiene in mano – e cioè si astiene da una decisione d'impulso per portare in palmo l'attesa di un'evoluzione. Se e quando riceve ricompensa per tutta questa fatica, spesso tramite le vie insondabili del caso, allora egli può dire a sé stesso o agli altri “tutto si tiene” e cioè si è ricomposta una materia frantumata, è tornato, come una folata di vento, uno slancio che credevo andato, ho perso e adesso ricevo. Ero solo un pezzetto, una scheggia piccola e dimenticata, e adesso vivo un momentaneo tutto: mi sono riunito.
«Non ti disunire». Anche chi non ha visto il film sa che questa è una delle frasi culto, mutata in meme, didascalia di foto e status. La pronuncia il personaggio di Antonio Capuano; non è un invito, non è un consiglio, ma un imperativo. Poiché Antonio Capuano esiste sul serio – primo merito della pellicola è l’aver permesso al mondo di scoprire un regista che, come lui stesso ammette in un'intervista rilasciata a la Repubblica, è stato vittima del suo “brutto carattere” – sappiamo che questa frase la si usava giocando a calcio: il significato è dunque meno criptico e forse anche meno poetico, ma ha sempre a che fare con l'impegno a esser parte di un gruppo. Cosa succede, però, quando il gruppo non esiste più, quando ti lascia solo lui per primo, quando un momento c'era e quello dopo, puff, sparito? Paolo Sorrentino ha raccontato di aver pensato che, facendo un film sui suoi problemi, questi cadessero in parte nell'oblio, ma stava incontrando una difficoltà: adesso, alla fine della proiezione, gli toccava ascoltare le storie di sconosciuti che avevano subito un lutto. Nel mio caso, al Sorrentino immaginario che adesso abbiamo tutti in mente e che si chiama Fabietto avrei confessato: “Mio padre me l'hanno fatto vedere eccome, ma mi pare che faccia male uguale”. Davanti al dolore, alla memoria di com'era prima impastata allo smarrimento del non essere più dopo, forniti o meno di visione, siamo tutti come la piccola Eugenia, protagonista di uno dei più bei racconti di Anna Maria Ortese: increduli, bramiamo Un paio di occhiali, vogliamo inforcarli, vogliamo guardare, crediamo che così, finalmente e improvvisamente, capiremo e smetteremo di soffrire.
Il dolore come punteggiatura di vita. Quando si soffre, anche se non sembra, si può sempre scegliere qualcosa: continuare la propria storia sullo stesso rigo come se niente fosse, andare appena a capo sullo stesso foglio, o voltare pagina. In È stata la mano di Dio, Fabietto recalcitra, dolce di una sofferenza che non ha quasi parole né lacrime. Ma sono proprio gli squarci, le rotture, le spaccature – figurate e non – a far procedere la narrazione. Il segreto che il mondo dimentica, come dice il personaggio di Aldo Cavallo, è il setaccio: una maglia a rete fitta che disgrega e separa i grumi, ma consente la lievitazione e la crescita. La partenza di Fabio da Napoli non è allora fuga quanto ricerca di un punto di vista per guardarsi alle spalle. E mentre poggia la testa contro il finestrino del treno – quel treno per Roma che segnava tutte le tappe dell'allontanamento, oggi quasi impercettibili grazie o a causa dell'alta velocità – rincalza le cuffiette sulle orecchie: ascolta e ascoltiamo Napule è solo ora che Napoli non è più.
Napoli da lontano. C'è un libro pubblicato nel 1981 dalla Società Editrice Napoletana che si chiama proprio così. In copertina, un'immagine che sembra un fotogramma di È stata la mano di Dio: la città vista dal mare. Il volume raccoglie interviste e riflessioni su napoletani famosi che hanno lasciato la città, da Luciano De Crescenzo a Massimo Troisi a Eduardo De Filippo che del suo andarsene aveva fatto monito per chi restava: “fujitevenne”, scappate anche voi. Eppure tutte queste personalità fuoriuscite dal margine urbano, continuano (ancora oggi) a incarnare Napoli agli occhi del mondo. Non l'hanno rinnegata, ma non sono tornati neppure a viverla. Come in un teorema di Gödel, sono stati però capaci di guardare al suo sistema con maggiore chiarezza di chi sta dentro per ricavarne se non un senso, quanto meno una storia. Raccontarla significa essere consapevoli che l'insieme città è per sua stessa struttura, storia e quotidiano, scomposto. Rimescola carte, vite, esistenze a cambiare quartiere, tempo atmosferico o solo affaccio da un balcone, al punto che la scena più plausibile di È stata la mano di Dio, fatto ricorrente nella vita di un cittadino napoletano, è l'incontro e l'improvvisa confidenza con qualcuno che, apparentemente, è lontanissimo da lui.
Ma per comprendere narrazioni come quella di Sorrentino, dobbiamo prendere a mo’ di riferimento non solo la distanza, ma anche una tecnica utilizzata di solito in ambito pittorico: quella del punto di vista fittizio. Un esempio è la Tavola Strozzi, veduta della città, sempre dal mare. Molto famosa, oggetto di controversie e dibattiti, il panorama dipinto è in parte reale, in parte illusorio, ingannando non solo gli occhi di chi lo guarda, ma la logica e il tempo: l'autore ha rappresentato il passato della città, ricreandolo però a partire da una prospettiva possibile solo nel presente. In È stata la mano di Dio, Napoli è bellissima anche quando buia, sicura anche se appare pericolosa, con piazza del Plebiscito parcheggio di automobili e Armando il contrabbandiere che sogna di fare il pilota di offshore. C'è una piccola borghesia che non è, semplicemente, esibizione di possibilità economiche, ma capacità di dirsi fuori dalla domanda “cosa siamo disposti a fare pur di vivere secondo i dettami della società occidentale?” Ma quanto, di tutto questo, ha attinenza con la realtà? Lo stesso quartiere Vomero, isola felice della famiglia Schisa, per lungo tempo punto d'onore residenziale – sta venendo meno oggi in cui la zona collinare risulta più abbordabile del centro storico turistificato – nello stesso periodo in cui è ambientato il film è scenario di un omicidio terribile e che pure ha visto il racconto cinematografico: quello di Giancarlo Siani, giornalista 26enne ucciso sotto casa sua dalla camorra.
Gli anni Ottanta a Napoli. Li hanno definiti opachi e, forse, per lo sforzo di ripulirne la superficie, ce li abbiamo ancora negli occhi. Scrive Antonio Ghirelli che in questo periodo la città passa da “un’arretratezza tradizionale e quindi tendenzialmente immobilistica ad un sottosviluppo di tipo capitalistico e quindi tendenzialmente dinamico”. Nella pellicola di Sorrentino, la giovinezza del protagonista ci impedisce di vedere il terremoto “freddo”, la Nuova Camorra Organizzata e la faida con la Nuova Famiglia – tra il 1980 e il 1987, circa 800 morti – la diffusione tentacolare dell'illegalità e dell'eroina, la crisi delle amministrazioni di sinistra, i politici a fare da viceré di altri potenti e le tante, grandi fabbriche poco prima della crisi e della dismissione. Eppure, nel film, il decennio funziona quasi da indicatore rispetto al concetto generale di città, attivo ancora oggi. Napoli misto di una speranza e di un orgoglio che ha del miracoloso, con Diego Armando Maradona santo laico incoronato sin dall'arrivo e tre anni prima dell'effettivo scudetto, portatore di una notizia bellissima mentre va tutto male. Come non volergli bene per sempre?
Il finale oltre lo schermo. Ma del film di cui è si detto e analizzato tutto, io mi sono sorpresa a conoscerne un pezzo di epilogo diverso. Prima che È stata la mano di Dio mi si palesasse sul grande schermo di un vecchio cinema napoletano in un pomeriggio di pioggia, dietro di me una nota attrice assai delusa, sapevo già quale sarebbe stato il futuro di Fabietto Schisa. Era custodito in poche righe dattiloscritte, reperto esposto in una bellissima mostra dedicata a Massimo Troisi a 25 anni dalla sua scomparsa, vista in un tempo non pandemico che oggi pare lontanissimo, la primavera del 2019 a Roma. L'esposizione raccontava l'infanzia del regista-attore nella provincia napoletana, la passione per il teatro, il successo televisivo con il trio La Smorfia, la carriera cinematografica da Ricomincio da tre a Il postino. E tra scatti privati, immagini d’archivio e locandine, una lettera ricevuta dall'artista probabilmente tra il 1991 e il 1992, mittente un ventunenne napoletano residente nel quartiere Vomero.
Ho fatto il liceo classico e studio Economia e Commercio. Mi piace l'economia teorica ma allo stesso tempo sono un appassionato di cinema [...]. Ero andato a Roma con molto entusiasmo, ma poi sono rimasto abbastanza sconcertato per il clima di freddezza e non-umanità che c'era sul set. Forse la colpa è stata anche della mia riservatezza e della mia timidezza, ma ad ogni modo sono tornato a Napoli.
La missiva proseguiva con esperienze, studi, aspettative. Il ragazzo si augurava “di poter fare cinema piuttosto che lavorare in qualsiasi altro campo” e si proponeva a Troisi come aiuto o assistente per il prossimo film. Non sappiamo se ha ricevuto risposta, non c'è traccia di collaborazioni avvenute, ma ci è noto che quel ventunenne ha perseverato ed è riuscito nel suo intento: il sogno si è realizzato, la mano che ha scritto la lettera è quella di Paolo Sorrentino. Fabietto, andato via da Napoli, è tornato ancora e ancora. A questa città, in fondo, non chiediamo altro: partenza e ritorno. Non ci delude mai. Prima vera disunita, capace di accoglierci tutti e di darci continuamente e in egual misura, motivi per andarcene, motivi per restare, qualcosa - finalmente - da raccontare.