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Perché la retorica sui giovani ha fatto il suo tempo

16 Febbraio 2022 8 min lettura

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Perché la retorica sui giovani ha fatto il suo tempo

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Uno dei leitmotiv di una classe politica il cui orizzonte temporale arriva al massimo alle prossime elezioni è stato il costante richiamo ai giovani. Frasi come “ce lo chiedono i nostri giovani” o “dobbiamo farlo per le prossime generazioni” hanno trasceso le divisioni politiche e sono diventati una sorta di lessico bipartisan buono per ogni occasione.

Tra "Nessuno pensa ai giovani!" e i "bamboccioni"

Un autorevole esempio recente ce lo ha offerto il Presidente del Consiglio Mario Draghi, in occasione del suo discorso di insediamento. Tra molte parole austere, Draghi ha dichiarato che alle future generazioni non dobbiamo lasciare solo una “buona moneta”, ma anche un “buon pianeta”. D’altronde la crisi climatica è forse l’argomento più sentito dai giovani, mentre coloro che oggi dovrebbero compiere le scelte necessarie per contenere l’aumento di temperatura entro i due gradi centigradi non vivranno abbastanza a lungo per vederne, eventualmente, i frutti.

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Negli anni passati, invece, parlando di giovani ha trovato spazio nel dibattito pubblico una retorica di segno opposto: quella dei giovani “choosy dell’ex ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali Elsa Fornero, o i “bamboccioni” di Padoa-Schioppa. I giovani sarebbero sfaticati e viziati – sdraiati per usare un termine reso celebre da Michele Serra. Attaccati al loro telefono e coccolati, non conoscono i sacrifici del lavoro e della vita.

Interessante che anche il governo attuale, quello del “ce lo chiedono i giovani”, abbia fornito esempi nello stigmatizzare i giovani. Nell’agosto del 2021, per esempio, il Ministro della Transizione Ecologica ha definito i giovani attivisti per il clima degli “idealisti, incapaci di comprendere la difficoltà nelle scelte per affrontare la crisi climatica. Qualche mese più tardi sempre Cingolani ha chiesto all'attivista Greta Thunberg di non focalizzarsi soltanto sulla protesta, ma anche sulle soluzioni-che tecnicamente dovrebbero essere il suo lavoro.

In effetti, queste due narrazioni - quella del “ce lo chiedono i giovani” e quella dei giovani choosy - (schizzinosi verso il mondo del lavoro, ma anche verso le soluzioni pratiche della vita) non sono affatto antitetiche come potrebbe sembrare. Sbocciano entrambe da un atteggiamento paternalista, che da una parte inquadra i giovani come depositari del futuro per conferire il giusto pathos al presente, e dall’altra è pronto a castigarli quando sembrano deviare dalla strada voluta per loro. Riguardo a questa tendenza possiamo andare ancora più indietro nel tempo. l’espediente retorico delle nuove generazioni non e’ solo un vezzo degli ultimi anni. Non erano proprio i giovani quei non tutelati di cui parlava D’Alema alla fine degli anni Novanta? Dobbiamo tutelare meno per tutelare più persone, così diceva il futuro Presidente del Consiglio davanti a un attonito Sergio Cofferati, al tempo Segretario della CGIL.

Venendo al terreno dei temi specifici, quello delle pensioni è uno di quelli che più si son prestati alla banalizzazione e riduzione dei problemi in termini di conflitto generazionale, esemplificata poi da proposte discutibili come la riduzione delle aliquote IRPEF. Spesso queste proposte sono condite da frasi fatte come «il nostro debito pubblico peserà sulle spalle dei più giovani». Su questo, almeno a parole, ha già risposto proprio Mario Draghi dal palco di Comunione e Liberazione: il debito di per sé non è un male; è un problema se è improduttivo - e nel caso italiano lo è. Una posizione maturata negli ultimi anni, specie a partire dalla crisi del 2008, negli ambienti più alti della accademia, ad esempio da Daron Acemoglu del Massachusetts Institute of Technology.

Non mancano poi le proposte maldestre per garantire un futuro di crescita ai nostri giovani, come quella avanzata da Azione e Carlo Calenda di esentare dalle tasse i giovani lavoratori fino a 30 anni. La proposta non presenta solo dubbi di costituzionalità, ma appare altresì risibile in un paese con una disoccupazione giovanile al 28% (benché in lieve calo), che ovviamente non comprende tutti i giovani.

Né mancano quelle condite con paroloni alla moda. Alle origini dell’ascesa politica che l’avrebbe portato a Palazzo Chigi, Matteo Renzi aveva usato proprio la retorica giovanilista per la scalata al Partito Democratico, con la Rottamazione. Mentre la scorsa estate, nell’ambito della sua campagna contro il Reddito di Cittadinanza, ha parlato proprio del futuro che ci attende: «il mondo» ha dichiarato, «va verso le nanotecnologie e investe sui Big Data, internet of things, artificial intelligence» quindi «ai ragazzi va detto studiate, provate, mettetevi in gioco se fallite vi diamo una mano». Una serie di altisonanti termini inglesi che si riducono a una patina cool e tech su un messaggio tipicamente meritocratico.

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I problemi strutturali oltre le facili retoriche

La vera questione, come in parte si evince da queste premesse, è che nonostante la politica parli dei giovani, difficilmente parla coi giovani, come dimostrano anche le recenti proteste studentesche e la repressione che le ha colpite. Se lo facesse, infatti, scoprirebbe che una narrazione solamente verticale non coglie le differenze intrinseche alla società. Quando infatti analizziamo un fenomeno, non possiamo limitarci a prendere in considerazione un solo piano - quello generazionale in questo caso - è necessario cogliere le sfumature che rispecchiano la complessità sociale e i conflitti in essere.

Una suddivisione giovani vs anziani, ad esempio, non è in grado di affrontare nemmeno superficialmente la realtà della nostra società. Dentro a una categoria come giovani si trovano i pariolini di 18 anni, i giovani dei centri sociali di Bologna, quelli con l’Audemars Piguet al polso e quelli che devono lavorare di notte per poter sostenere la famiglia. È invece proprio all’intersezione tra la questione generazionale e quella di classe che emergono i veri problemi dei giovani in Italia e non solo. Si tratta infatti di un problema che non riguarda soltanto l’Italia, anzi.

A fotografarlo fu, negli Stati Uniti, il compianto economista Alan Krueger. Consigliere di Obama, nel 2012 suggerì una relazione tra la mobilità sociale e le disuguaglianze. Questa relazione va sotto il nome di Curva del Grande Gatsby: all’aumentare delle disuguaglianze, la scala sociale si irrigidisce. Chi nasce povero, vive da povero e muore povero.

Questo va in netto contrasto con la narrazione della meritocrazia, legata al successo come affermazione individualistica dell'individuo. Non è una sorpresa: l’idea di meritocrazia - basata su una visione moralista dell’essere umano - sottovaluta effetti sociali ed economici. Anzi, a voler pensare male la meritocrazia è proprio un modo per nascondere le iniquità insite nel sistema, giustificando quindi lo stato delle cose come naturale e auspicabile: una narrazione, insomma, una “storia”, o addirittura un'ideologia, come sostiene tra gli altri Thomas Piketty in Capitale e ideologia, per giustificare lo stato delle cose.

D’altronde anche nel nostro paese, come il resto del mondo occidentale, le disuguaglianze sono aumentate. I dati pre-covid mostrano un coefficiente di Gini ( l’indice che misura la distanza fra la vera distribuzione dei redditi e quella di perfetta uguaglianza) più alto rispetto ai partner europei di riferimento. La pandemia ha sicuramente peggiorato la situazione.

Abbiamo inoltre assistito, nel corso degli ultimi quarant’anni, all’inversione delle fortune: il 10% più ricco della popolazione possiede più patrimonio del 50% più povero. E sono proprio i giovani a pagarne le conseguenze, perché all’aumento delle disuguaglianze coincide un irrigidimento della mobilità sociale. La maggior parte dei giovani non può che essere dalla parte del lavoro nella sua lotta con la rendita: a eccezione degli ereditieri, le fortune delle nuove generazioni sono tutte da costruire.

Questa recrudescenza delle disuguaglianze, fotografata (ancora) da Thomas Piketty nel suo celebre Il Capitale nel XXI Secolo, non dipende soltanto da fattori strutturali o quasi “naturali” – le “leggi del capitalismo”, o il tipo di sviluppo tecnologico, ma è frutto di precise scelte politiche.

La prima di queste è la riduzione delle tasse sui ceti più ricchi. Come ha evidenziato una recente ricerca della London School of Economics il taglio non ha portato a benefici sul lato della crescita economica o della produttività, ma ha acuito, appunto, le disuguaglianze. Nel nostro paese, per fare un esempio pratico, l’aliquota IRPEF più alta nel 1972 era il 72%. Oggi è al 43%.

A peggiorare la situazione è stata la flessibilità introdotta nel mondo del lavoro. Fu il governo Prodi, con il famoso pacchetto Treu, a dare inizio al fenomeno del precariato nel nostro paese. Da quel momento in poi i governi di tutti i colori hanno proseguito sulla strada tracciata, riducendo sempre di più le tutele. Senza tuttavia incidere sulla disoccupazione giovanile.

I giovani sono quelli che più ne hanno subito le conseguenze: soffocati da una spirale di precarietà e bassi salari, quando va bene, perché quando va male sono lavori non retribuiti per fornire fantomatiche soft skills. Il nostro paese deve infatti fare i conti con un elevato numero di lavoratori poveri, persone il cui stipendio non permette una vita dignitosa.

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I dati fanno emergere una realtà sconfortante. L’incidenza dei NEET, giovani senza lavoro e non inseriti più in un percorso di formazione, è tra le più alte d’Europa, oltre ai già citati dati sulla disoccupazione giovanile, che vede l'Italia superata in Europa solo da Spagna e Grecia. Non sorprende quindi che sul fronte mobilità sociale l’Italia faccia peggio dei suoi partner europei.

I giovani abituati a vivere nella precarietà, con stipendi bassi e turni di lavoro massacranti, senza aspettative, non hanno bisogno di maggior flessibilità o di garantire meno tutele ai cosiddetti garantiti. La letteratura sembra infatti aver compreso che il problema del capitalismo odierno è proprio la carenza di Good Jobs: lavori ben retribuiti, stabili, in cui si investe sulla persona e sulle sue competenze. Questo richiede, come ha osservato l’economista Dani Rodrik, un nuovo intervento dello Stato, lontano dallo Stato carrozzone e compensatore di aziende decotte a cui siamo abituati. Poiché stato e mercato non sono antagonisti ma si intrecciano, sarebbe prima di tutto necessario nel nostro paese un piano di assunzioni di giovani nella Pubblica Amministrazione. Tra i paesi OCSE la nostra PA è quella più anziana.

 

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Così come è necessario un deciso cambio di passo nell’istruzione. Solo Romania, Bulgaria e Irlanda fanno peggio di noi in quanto a finanziamenti. Non servono programmi come l’Alternanza Scuola Lavoro, ma un ripensamento generale del sistema educativo italiano che magari intensifichi i rapporti tra mondo del lavoro e scuola, ma con metodo e non per partito preso.

Si tratta soltanto di una panoramica parziale e incompleta della situazione giovanile e del legame con le disuguaglianze. Ma aiuta a chiarire: non servono proposte strampalate, fatte per nascondere la polvere sotto al tappeto, quanto un piano ambizioso e sistemico per attaccare senza tregua le disuguaglianze. Questo sì, che lo chiedono i giovani.

Immagine in anteprima: proteste studentesche - foto di Matteo Oi

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