Sciopero generale Cgil e Uil: ma davvero è così sorprendente?
1 min letturadi Fabio Mangiafico - dirigente Fiom Bergamo
Il 16 dicembre ci sarà lo sciopero generale indetto da Cgil e Uil. La proclamazione dello sciopero è stata accolta con stupore dal governo e dai media che lo sostengono. In attesa di sapere se la data sarà confermata (ndr l'Authority ha chiesto di riprogrammarla perché violerebbe il periodo di franchigia, ma i sindacati confermano per quella data) è utile rispondere a una domanda: davvero quella dello sciopero generale è una decisione così sorprendente?
Se si considerano i dati di lungo periodo su salari e occupazione, per esempio, si potrebbe piuttosto restare sorpresi dall'attenuazione del conflitto sociale nel nostro paese. Sui salari infatti - con buona pace di chi considera salari "medi", quelli attorno ai 75.000 euro - è di pochi giorni fa una ricerca di Openpolis che colloca il valore medio dei salari italiani a 32.700 euro, al tredicesimo posto tra i paesi dell'Unione europea, con una perdita, dal 1990 ad oggi, del 2.9% in valore assoluto.
L'Italia è l'unico paese europeo OCSE in cui negli ultimi 30 anni i salari medi annuali sono diminuiti.
Secondo stime della Cgil su dati Eurostat e OCSE, la quota di posti di lavoro a basso reddito è invece superiore alle medie europee, con una incidenza di contratti precari negli avviamenti dei rapporti di lavoro che, nonostante la ripresa economica in corso, resta altissima. Ma anche analizzando le tendenze e le linee di intervento governative più recenti su lavoro e welfare, la ripresa del conflitto sociale pare non solo legittima - lo sciopero è un diritto costituzionale delle lavoratrici e dei lavoratori - ma del tutto prevedibile.
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Una delle prime decisioni prese dal neonato governo Draghi (con il plauso entusiasta di Confindustria) è stata di eliminare, seppure gradualmente tra settore industriale e settore commercio e servizi, il blocco dei licenziamenti, introdotto dal governo Conte per preservare i posti di lavoro dagli effetti economici della pandemia.
Il governo Draghi però si era impegnato, nel comunicare questa decisione lo scorso maggio, per una riforma strutturale degli ammortizzatori sociali, al fine di aumentare coperture e garanzie per i lavoratori coinvolti dalle crisi industriali. Una riforma già attesa e richiesta dalle organizzazioni sindacali, che dal giro di vite impresso prima dal pacchetto Fornero e poi dal jobs act in poi hanno più volte lamentato la mancanza di strumenti di tutela adeguati. Allo stato attuale il solo intervento definito dal Governo Draghi è un ritocco all'importo della indennità di disoccupazione, e a quella di cassa integrazione ordinaria. Certamente utile, ma ben lontano da un complessivo ridisegno degli ammortizzatori che permetta, per esempio, in caso di progetti di riconversione industriale a seguito di crisi, di garantire i redditi dei lavoratori fino al riavvio di nuove attività.
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Nel frattempo, dopo lo sblocco dei licenziamenti di fine giugno alcune grandi aziende hanno dichiarato la cessazione di attività, per trasferirle in paesi a più basso costo: Timken, GKN e Whirlpool, solo per citare le più note. A fronte di questa situazione, il ministro del lavoro Andrea Orlando annunciava di essere al lavoro su una legge per contrastare le delocalizzazioni. Nelle premesse dichiarate, la legge doveva contenere sia sanzioni a chi cessa le attività per delocalizzare, sia una serie di nuovi obblighi e procedure di negoziazione da applicare.
Le sanzioni dovevano basarsi sulla restituzione di eventuali contributi pubblici percepiti da quelle imprese. Prendendo a riferimento la legislazione sulle crisi industriali francese, gli obblighi prevedevano un piano sociale per la ricollocazione dei lavoratori licenziati, da contrattare con le organizzazioni sindacali, e la disponibilità a cedere le attività oggetto di chiusura a eventuali compratori.
Ma anche questa ipotesi, via via indebolita nel dibattito interno alla maggioranza di governo nonché dalla dura opposizione di Confindustria, non ha superato l'estate. Allo stato non esiste alcuna iniziativa governativa o dei partiti componenti la maggioranza di governo in tal senso. La sola iniziativa parlamentare sul tema, con primi firmatari Yana Ehm del gruppo misto e Nicola Fratoianni di Sinistra italiana, ha portato alla discussione alle Camere la proposta di legge elaborata dai lavoratori di GKN in collaborazione con alcuni giuristi.
Altri temi che, secondo le promesse del governo in carica, avrebbero dovuto essere oggetto di confronto con le organizzazioni sindacali nell'autunno di quest'anno sono riforma delle pensioni e del fisco. Sulle pensioni, il governo prevede che, scaduta quota 100, si torni con un biennio di progressione graduale (quota 102 nel 2022, 104 nel 2023) alla mera applicazione della legge Fornero. Legge che, va ricordato, colloca l'eta pensionabile ai livelli più alti in Unione Europea, come rilevato recentemente dall'OCSE nel rapporto, pubblicato lo scorso 8 dicembre, "Pensions at a glance 2021". L’Italia, si legge nel rapporto, “figura tra i sette paesi dell’OCSE che collegano l’età pensionabile prevista per legge alla speranza di vita. In un regime Ndc (Notional Defined Contribution, vale a dire il sistema contributivo) tale legame non è necessario per migliorare le finanze pensionistiche, ma mira a evitare che le persone vadano in pensione troppo presto con pensioni troppo basse e a promuovere l’occupazione in età più avanzata. In Italia, il requisito di futura età pensionabile ‘normale' è tra i più elevati con 71 anni di età, come la Danimarca (74 anni), l’Estonia (71 anni) e i Paesi Bassi (71 anni), contro una media OCSE di 66 anni per la generazione che accede adesso al mercato del lavoro”.
Le organizzazioni sindacali chiedevano invece, in base a una piattaforma approvata da milioni di lavoratrici e lavoratori, di portare l'eta di pensionamento di anzianità a 41. Soprattutto, chiedevano di costituire un fondo di garanzia per incrementare le pensioni contributive che, con l'attuale diffusione dei contratti precari che riducono il versamento di contributi pensionistici, servirebbe a evitare di confrontarci tra qualche anno con una massa di persone che avranno pensioni inferiori al 60% del salario percepito. Un salario già decisamente basso, come riportato in precedenza. Ecco qualcosa di cui stupirsi: la compatta reazione negativa dei media al dissenso del sindacato sul tema delle pensioni, motivata brandendo il tema delle giovani generazioni ben rappresentata dalla lettera di Elsa Fornero a Landini, pubblicata da La Stampa. Peccato che è proprio il sindacato ad aver proposto una soluzione per garantirne le future pensioni, senza ricevere alcuna controproposta.
Sulla revisione delle aliquote fiscali, infine, appare evidente come le risorse siano concentrate sui redditi medio-alti. Le detrazioni verranno riviste per integrarvi gli attuali bonus, che la riforma cancella: nel migliore dei casi mantenendo gli stessi importi attuali, sotto forma diversa. Non cambia quindi il fatto che gli addensamenti dei vantaggi fiscali determinati dalla revisione delle aliquote hanno le caratteristiche riportate. Anche su questo hanno pesato le dinamiche interne alla maggioranza di governo. La maggioranza, infatti, è stata capace di smentire lo stesso presidente Draghi su una proposta appena rivolta al sindacato per dilazionare i tempi di attuazione del taglio fiscale sui redditi sopra i 75mila euro, che avrebbe fornito un sopporto ai redditi più bassi nel far fronte agli aumenti di elettricità e gas di questi mesi.
Quanto esposto finora è avvenuto e avviene all'ombra di un PNRR le cui priorità di investimento non sono state oggetto di alcun dibattito pubblico; nemmeno di una banale campagna di comunicazione. Eppure quelle del PNRR sono risorse economiche in parte concesse a debito, e dovranno quindi essere restituite dalla collettività nei prossimi anni.
Da funzionario sindacale a contatto diretto e quotidiano con lavoratori e lavoratrici, ritengo utile riportare una sensazione frutto della mia esperienza, benché difficile da misurare con dati e numeri. È noto a tutti che durante il lockdown questo paese è stato tenuto insieme con un enorme contributo da parte di alcuni settori cruciali: sanità, distribuzione organizzata e industria non si sono mai fermate, garantendo la produzione di beni e servizi essenziali a tutti. Mentre fino a qualche mese fa vedevo in chi lavora in questi settori difficoltà, fatica, ma anche orgoglio e speranza di un ritrovato riconoscimento del proprio ruolo sociale, ora prevalgono rabbia, scoramento e delusione per la mancanza di interventi che riequilibrino le evidenti iniquità sistemiche che li danneggiano. Tutto ciò in un paese dove, secondo i dati dell'INAIL, al mese di novembre 21 si contano 1017 morti sul lavoro.
Che dire allora delle manifestazioni di sorpresa governative e giornalistiche? Che di certo manifestano una preoccupante distanza dalle condizioni sociali diffuse nel paese. Ma anche che, con un minimo di umiltà, chi si dichiara sorpreso dovrebbe piuttosto chiedersi cosa non ha capito, e perché.
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