“Fuori dal buio”. La storia di Ibrahim Diabate: dalla rivolta di Rosarno all’impegno contro il caporalato e per un’agricoltura etica e sostenibile
7 min letturaPiango,
quando vedo i miei fratelli soffrire,
piango,
quando mi alzo alle 4 del mattino per andare incontro
alle mie illusioni
nelle piantagioni di arance e mandarini
per la modesta somma di 25 euro se non di meno,
piango,
quando vedo i miei fratelli che vivono nei ghetti
senza acqua e senza elettricità,
situazione quasi impossibile
e inaccettabile per l’umanità,
piango,
e mi fa male il cuore,
piango e soffro.
[tratto da Yen Fehi Bako, ‘Le lacrime di Ibrahim’, di Ibrahim Diabate]
Spesso di caporalato e sfruttamento agricolo si parla solo quando fa notizia. Quando muore un bracciante per le condizioni disumane di lavoro, quando si parla dello stato dei ghetti, dove queste persone vivono, per i casi di razzismo nei confronti degli immigrati che lavorano nei campi. L’attenzione dura il tempo della copertura mediatica. Poco sappiamo delle vite dei braccianti. E, insieme alle loro storie, ci perdiamo, quando ci sono, anche i loro percorsi di fuoriuscita dallo sfruttamento. Che non si concludono solo con il riscatto personale, ma sono a loro volta una leva di riscatto per altre persone finite nei gangli del caporalato. È questa la storia di Ibrahim Diabate e delle realtà che, in rete tra di loro, si battono in Calabria per il rispetto dei lavoratori, dei produttori e dell’ambiente.
L’arrivo in Italia e l’impegno per i diritti dei braccianti
"Quando ero in Africa, pensavo spesso a cosa ci fosse al di là della riva, in Europa. Adesso sono qui e c’è la mia terra dall’altra parte della riva. È lontana, ma sempre vicina nel cuore. Penso spesso alla mia terra quando scrivo. Scrivo poesie sin da bambino, quando ero piccolo sognavo di diventare un medico e un poeta. La scrittura è sempre stata per me una valvola di sfogo, uno strumento di denuncia e veicolo delle mie emozioni più intime. La mia è una denuncia in versi, un grido di rabbia e sofferenza per tutti i diritti negati. È una richiesta di umanità, espressione della mia lotta al fianco delle persone vulnerabili e discriminate, i cui diritti vengono violati. È poesia di sfruttamento, quello che i miei fratelli migranti vivono nelle campagne, quello che ho vissuto in prima persona nelle campagne di Taurianova. A sera, nel ghetto, stremato dopo una giornata nei campi per la raccolta degli agrumi, impugnavo una penna e scrivevo parole di denuncia: era la mia arma contro le ingiustizie. La frutta che portiamo sulle nostre tavole spesso proviene da circuiti di sfruttamento le cui vittime sono braccianti migranti che vivono in uno stato di deprivazione, costretti ad orari prolungati di lavoro a fronte di paghe irrisorie, senza nessuna tutela. Bisogna denunciare, bisogna agire".
Ibrahim Diabate, originario della Costa d’Avorio, arriva in Italia nel 2008, con un regolare visto. Atterrato a Fiumicino, parte per Treviso, dove trova lavoro in un’azienda agricola. A seguito del fallimento dell’azienda, trascorre un breve periodo a Roma, per poi trasferirsi in Piemonte, a Saluzzo, dove lavora nei campi per la raccolta della frutta - in nero. Non ha un posto dove stare e di notte trova riparo, con altri braccianti, in un vagone di un treno abbandonato su un binario della stazione. Qui entra in contatto con il comitato ‘Saluzzo anti-razzista’ e si fa portavoce dei diritti dei lavoratori. Al fianco del comitato anti-razzista si impegna a migliorare la condizione bracciantile.
Nel gennaio 2010, poco dopo la rivolta dei migranti reclutati dal sistema della ‘ndrangheta e del caporalato, Ibrahim decide di trasferirsi a Rosarno per supportarli e per mettersi a disposizione della comunità. Il 7 gennaio 2010 infatti due braccianti di origine africana al ritorno dai campi vengono feriti con colpi di arma da fuoco. Alla violenza e alla totale negazione dei propri diritti i braccianti reagiscono riversandosi nelle strade e sfogando la propria rabbia contro automobili e cassonetti. La popolazione locale risponde con due giorni di violenze e pestaggi che causano decide di feriti.
La rivolta di Rosarno fa emergere una realtà scomoda e umiliante e denota la condizione di sfruttamento che vivono i migranti che lavorano come braccianti nelle campagne della Piana.
Questo evento così drammatico spinge Ibrahim ad abbandonare Saluzzo e a raggiungere Rosarno.
La lotta a Rosarno e i progetti con SOS Rosarno
Una volta arrivato in Calabria, Ibrahim ha difficoltà a trovare un alloggio, così finisce nel ghetto di Taurianova: un microcosmo autoregolamentato costellato di abitazioni di fortuna assemblate con legno, amianto, teloni, plastica. L’odore dei rifiuti, addossati alle baracche, risale nelle narici. L’aria è irrespirabile e il caldo, nei mesi estivi, è insopportabile. Mancano i servizi igienici, l’energia elettrica è prodotta da qualche generatore a benzina. Le latrine a cielo aperto sorgono tra le abitazioni.
Il nucleo centrale del ghetto è La Fabbrica, un ex capannone industriale dove nella stagione della raccolta degli agrumi vivono circa cinquecento africani. Nell'area diffusa, intorno alla Fabbrica, sono invece circa duemila i migranti che vivono ammassati nelle baracche.
Tra le lamiere si nasconde l’umanità, uomini e donne che hanno fatto di quell’inferno una casa.
Ibrahim resta nella baraccopoli per sei mesi, poi risulta vincitore di una borsa di studio bandita dalla regione Calabria e diventa mediatore linguistico. Da quel momento la sua vita cambia.
Inizia infatti la sua collaborazione con SoS Rosarno, associazione che promuove un’agricoltura etica e pulita e che lotta in difesa dei diritti dei lavoratori, sostenendo non solo i braccianti ma anche i piccoli produttori che si impegnano per una agricoltura etica e sostenibile.
Si tratta di un progetto di produzione, attivismo e lavoro, nato a seguito della rivolta di Rosarno e che, come spiega il fondatore Peppe Pugliese, mette in contatto piccoli produttori e lavoratori cosicché lavorino in sinergia.
«Dopo i fatti di Rosarno eravamo disorientati. Fino ad allora non si era mai pensato di intervenire nel meccanismo della filiera del lavoro della piana di Gioia Tauro. La rivolta è stata un campanello d’allarme. Abbiamo creato un’alleanza tra lavoratori e produttori, abbiamo intercettato gruppi di produzione solidale e abbiamo cercato di tagliare le intermediazioni››, spiega Pugliese. ‹‹La nostra realtà si basa su tre principi fondamentali: il rispetto del lavoratore, quello del produttore e quello dell’ambiente. Inoltre ci impegniamo a portare supporto e assistenza laddove ci sia bisogno d’aiuto. L’anno scorso, ad esempio, abbiamo donato 50 tonnellate di arance a famiglie bisognose in tutta Italia. Da anni Ibrahim collabora attivamente con noi ed è una delle principali figure di riferimento per i braccianti della Piana».
Tramite SoS Rosarno, Ibrahim entra in contatto e collabora come operatore e mediatore sociale con Mediterranean Hope, programma rifugiati e migranti della Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia (FCEI), che dal 2019 fornisce sostegno, informazione, mediazione e supporto ai migranti impiegati come braccianti nei campi della piana di Gioia Tauro, tramite la collaborazione con le realtà locali e cooperative di produttori etici e biologici.
«La paga prevista per i braccianti è di 0,90 cent/ 1 euro a cassetta di agrumi. Parliamo di 2,50 euro all’ora, senza soste. Alcuni braccianti non mangiano, altri mangiano un panino con una mano, con l’altra continuano a raccogliere. I braccianti non sono consapevoli dei propri diritti e lavorano a qualunque costo», racconta Ibrahim. «Con Mediterranean Hope e SoS Rosarno, chiediamo condizioni di lavoro umane e condizioni di vita dignitose. I braccianti sono prima di tutto esseri umani e hanno dei bisogni: sanità, istruzione, contratti di lavoro, una casa. Da anni SoS Rosarno si impegna, grazie al sostegno di una rete di volontari, a organizzare corsi di alfabetizzazione, strumento di emancipazione per i migranti. La conoscenza della lingua è un primo passo verso l’indipendenza e l’inclusione», spiega Ibrahim.
«Nella primavera del 2018 il collettivo Mamadou di Bolzano, che da anni partecipa attivamente all’organizzazione dei corsi di lingua italiana con SoS Rosarno e Mediterranean Hope, ha realizzato per il ghetto di San Ferdinando l’Hospitality School», continua. Si tratta di una struttura in legno ricavato da materiale di recupero donato da un’azienda austriaca, destinata ad ospitare una scuola, un ambulatorio e un centro di assistenza legale. Un centro polifunzionale che è metafora di un processo necessario di inclusione e di emancipazione.
Oltre a questo, ci sono poi i progetti per migliorare le condizioni lavorative dei braccianti, come ‘Luci su Rosarno’. «Con Francesco Piobbichi, operatore di Mediterranean Hope, abbiamo distribuito luci e braccialetti catarifrangenti ai lavoratori, cosicché possano posizionarli sulle biciclette ed essere visibili all’alba o a sera, quando rientrano da lavoro», racconta ancora Ibrahim.
All’alba nella piana di Gioia Tauro, i braccianti raggiungono i campi di lavoro in sella a vecchie biciclette. Percorrono 10/20 chilometri, per cui sono costretti a partire in anticipo, quando le strade sono ancora buie. Macchine e camion in transito faticano ad accorgersi dei braccianti ai lati delle strade e, talvolta, si verificano incidenti.
Luci su Rosarno significa portare luce sia concretamente che metaforicamente: è un progetto che fa luce sulle strade buie e sul buio dei diritti negati, sul lavoro nero e sul lavoro grigio, ovvero quella condizione per cui ai braccianti vengono riconosciuti pochi giorni di lavoro a fronte delle effettive ore lavorative. Per questo progetto, Ibrahim e Mediterranean Hope hanno vinto il premio della giuria tecnica del contest narrativo “Oltre il Ghetto. Storie di libertà” del programma Su.Pr.Eme. Italia guidato dal Ministero del Lavoro e le Politiche Sociali, ideato per dare visibilità a storie di uscita dallo sfruttamento in agricoltura.
Inoltre è stato da poco avviato il progetto ‘Fuori dal Buio’, ideato e promosso da Mediterranean Hope, Cooperativa Eurocoop “Jungi Mundu” di Camini e SoS Rosarno.
«Abbiamo riflettuto sul tema dell’economia circolare: tutela dei braccianti che viaggiano di notte verso i campi attraverso il riciclaggio di giubbotti usati che vengono rigenerati e su cui vengono applicati catarifrangenti che mettono in sicurezza il lavoratore. Con il progetto ‘Fuori dal buio’, a partire da ottobre saranno distribuite 300/400 giacche a vento. Abbiamo deciso di chiedere il sostegno di una realtà virtuosa come quella di Camini, una piccola Riace, un borgo abbandonato che i migranti hanno ripopolato e dove, con il sostegno della cooperativa Jungi Mundi, fondata da Rosario Zurzolo, gestiscono piccole attività di artigianato. Abbiamo coinvolto una famiglia pakistana nella rigenerazione dei giubbotti e abbiamo attivato un crowdfunding per garantire loro un salario dignitoso».
Lo strumento del crowdfunding permette a chiunque di partecipare attivamente a questo progetto di solidarietà che si batte per la salvaguardia di alcuni diritti irrinunciabili, primo tra tutti quello alla vita.
Ibrahim accenna poi ai progetti in cantiere di Mediterranean Hope: l’allestimento di un ostello, rifugio per i lavoratori mobili che, con un contributo simbolico di 2-3 euro al giorno possono accedere a una serie di servizi. Si tratta di una soluzione alternativa a quella del ghetto.
«In Italia assistiamo a una degradazione persistente del lavoro bracciantile, bisogna restituire dignità ai lavoratori, bisogna che siano tutelati perché sono i pilastri della nostra economia agricola», aggiunge Francesco Piobbichi.
Nonostante la sordità di alcune parti politiche, c’è chi si impegna per avviare processi inclusivi, chi riconsidera gli spazi comunitari e li rende teatri di inclusione e crescita e conduce una battaglia culturale affermando il valore dell’uguaglianza e della solidarietà. SoS Rosarno, Coop. Jungi Mundi, Mediterranean Hope sono alcuni di questi.
Immagine in anteprima: frame video via Su.Pr.Eme Italia