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Ragioni e torti del professor Barbero, o dell’invisibilità della questione di genere

23 Ottobre 2021 8 min lettura

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Ragioni e torti del professor Barbero, o dell’invisibilità della questione di genere

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di Giulia Blasi

Ultimamente, quando devo spiegare qualcosa della società italiana noto che mi torna utile fare riferimento a Un posto al sole. Le puntate più recenti hanno visto il ritorno di Speranza, la bellissima ragazza di campagna che si è iscritta alla facoltà di Veterinaria contro il parere dei genitori, e a casa ha detto che studia Scienze dell’Educazione. Speranza nutre il sogno di prendere in carico l’azienda lattiero-casearia di famiglia: vuole curare le bufale, insomma, e per questo sta studiando. E invece la famiglia – che da questa dedizione avrebbe solo da guadagnare – si oppone, vuole che lei faccia la maestra, ché le bufale sono roba da uomini. Che nel 2021 questa sottotrama della più longeva soap italiana sia ancora considerata verosimile e immediatamente comprensibile al pubblico generalista la dice lunga sulle sacche di maschilismo che resistono nella nostra società, che ancora divide tutto in “per maschi” e “per femmine”. 

Ma veniamo al motivo per cui siamo qui, che – come si sarà capito dal titolo – è l’intervista che Alessandro Barbero, ottimo storico e grande divulgatore (sia detto senza ironia: le sue lezioni sono strepitose per chiarezza, comprensibilità e senso dell’umorismo) ha rilasciato a La Stampa in occasione di una serie tre lezioni che ha tenuto a Torino in questi giorni, intitolate “Donne nella storia: il coraggio di rompere le regole”. La parola “coraggio” non è irrilevante, soprattutto alla luce di quello che Barbero dice nell’intervista, e che gli sta attirando molte critiche oltre alla solita, noiosissima e inutile serie di insulti e aggressioni, che arrivano fino alla richiesta insensata di rimuoverlo da tutte le trasmissioni televisive avanzata su Twitter da Michele Anzaldi, deputato di Italia Viva in servizio nella Commissione parlamentare per l'indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi.

Cosa ha detto Barbero di tanto volgare e orrendo da dover essere oggetto di una simile richiesta? Ha pasticciato una risposta a una domanda che per le autrici e le attiviste femministe è un evergreen, vale a dire “Come mai ci sono ancora così poche donne al potere?”. Barbero prima chiarisce di essere “uno storico” e non un esperto del tema, ma poi ci prova, e come molti uomini digiuni dell'argomento finisce per confondere causa ed effetto. Cito integralmente:

Di fronte all’enorme cambiamento di costume degli ultimi cinquant’anni, viene da chiedersi come mai non si sia più avanti in questa direzione. Ci sono donne chirurgo, altre ingegnere e via dicendo, ma a livello generale, siamo lontani da un’effettiva parità in campo professionale. Rischio di dire una cosa impopolare, lo so, ma vale la pena di chiedersi se non ci siano differenze strutturali fra uomo e donna che rendono a quest’ultima più difficile avere successo in certi campi. È possibile che, in media, le donne manchino di quella aggressività, spavalderia e sicurezza di sé che aiutano ad affermarsi? Credo sia interessante rispondere a questa domanda. Non ci si deve scandalizzare per questa ipotesi, nella vita quotidiana si rimarcano spesso differenze fra i sessi. E c’è chi dice: “Se più donne facessero politica, la politica sarebbe migliore”. Ecco, secondo me proprio per questa diversità fra i due generi.

Partiamo dal presupposto che il professor Barbero sia uno che sceglie le parole con cura, proprio perché è un divulgatore e conosce il valore della chiarezza, e teniamo presente che lo stesso Barbero si sarebbe espresso in maniera molto simile in altri contesti, come racconta Bianca Maria Esposito (qui il video). A fronte di queste premesse, è difficile vedere in questa frase una solida affermazione di istanze femministe o un pensiero chiaro su quello che causa lo sbilanciamento fra uomini e donne in posizioni apicali, e non piuttosto la solita impermeabilità degli uomini di una certa età e classe sociale rispetto a studio e pensiero femminile. I “cambiamenti di costume” avvenuti in particolare dal Dopoguerra in poi non sono avvenuti da soli, ma a seguito della spinta e dell’incessante azione delle donne per conquistare diritti e spazio in società. Una lotta costante e faticosa condotta con ben più che “aggressività e spavalderia”, e che ha avuto costi enormi per le donne che vi sono state coinvolte. Essere femministe è difficile in ogni epoca: anche delle suffragiste si diceva che erano donne brutte e arrabbiate che volevano opprimere gli uomini, riducendoli alla schiavitù domestica. Una ragazza che lotta per i suoi diritti viene vista come antipatica e sgradevole anche oggi, figuriamoci nei decenni precedenti: “femminista” viene utilizzato come insulto, e nella maggioranza dei contesti è difficile esserlo senza mettere a rischio la propria vita affettiva e relazionale. Gli uomini che cercano di affermare sé stessi in campo professionale o politico lo hanno fatto per secoli senza dover superare anche questo ostacolo: è un fatto che nessuno può seriamente mettere in discussione.

Ho detto “femminista” perché chi si illude che la donna sola possa ottenere qualcosa per tutte non ha la più pallida idea della differenza che intercorre fra farcela per sé e farcela insieme a tutte le altre. Anche Giorgia Meloni o Marine Le Pen (per citare solo le vive) ce la fanno per sé, ma si inseriscono in maniera pulita e poco disturbante nel sistema: da conservatrici quali sono, possono usare l’essere donne come medaglia senza migliorare di una virgola la vita delle altre donne, cosa che è alla base dei famosi cambiamenti sociali. E qui veniamo al secondo problema dell’affermazione di Barbero, che come molte persone digiune di teoria femminista – da sempre esclusa dai percorsi accademici e molto di rado studiata dagli uomini: il pensiero delle donne viene svalutato, ridotto ad “attivismo”, considerato minore e non al pari della produzione maschile – ignora completamente i cinquant’anni di risposte date dalle studiose e filosofe alla domanda “Perché le donne faticano ad affermarsi?” e si butta su un essenzialismo di genere tanto abborracciato (“differenze fra i sessi”) quanto non rispondente al vero. Non ne sa niente: è lui il primo ad affermarlo. Perché pur essendo uno storico, ha studiato la storia scritta da altri storici, una storia in cui le donne sono inesistenti, irrilevanti, vittime collaterali, quasi mai alla base di una spinta decisiva verso il cambiamento. Filosofe, pensatrici, combattenti, attiviste: tutte sparite, consegnate all’oblio dagli studiosi incaricati di ricostruire le vicende umane per consegnarle alla memoria collettiva.

“Se più donne facessero politica, la politica sarebbe migliore”, oltre a essere un concetto vago e improntato a un evidente sessismo benevolo (quali donne? Una politica piena di Meloni o Santanchè sarebbe una politica migliore, o sarebbe comunque una politica urlata e improntata a valori di estrema destra conservatrice con zero spazio per la solidarietà? Sono domande retoriche di cui conosciamo la risposta), non tiene conto del fatto che le donne fanno politica, la fanno eccome, ma quasi sempre questa azione politica si svolge all’interno di partiti governati da cupole di maschi anziani chiuse ed esclusive, che quando si tratta di scegliere chi sostenere per una candidatura di prestigio si orientano quasi sempre verso i loro simili. Alle donne tocca scegliere fra la ribellione, che non è senza conseguenze, e il basso profilo nella speranza di cambiare le cose dall’interno (ne avevo già parlato qui). Ne hanno parlato apertamente in tempi recenti Chiara Gribaudo e Giuditta Pini, entrambe elette con il Partito Democratico: non sono discorsi semplici da sostenere, perché anche i gesti di riparazione (sempre insufficienti, comunque inefficaci, come testimoniano anche le ultime amministrative) vanno incontro all’ostilità degli uomini di potere, la cui rinuncia a un incarico in nome di una maggiore rappresentazione di genere viene descritta come una “resa”. Le parole sono importanti.

Che le donne possano mancare di “sicurezza di sé” è quindi fisiologico, considerato quanto poco si vedono rappresentate e quello che devono patire se davvero provano a farsi largo in un sistema che non è pensato per loro, e che è disposto a premiare solo quelle che sanno riprodurre in maniera efficace le dinamiche di aggressione e dominanza consolidate dalla cultura maschile, che essendo – appunto – dominante viene scambiata come neutra, inevitabile, impossibile da aggirare. Qui si pongono due problemi: quello della cosiddetta “socializzazione di genere” (vale a dire il complesso di comportamenti, prescrizioni e istruzioni che vengono impartite a bambini e bambine, e che a dispetto dei famosi cambiamenti sociali non sono poi mutate granché nel corso dei secoli) e quello delle difficoltà strutturali, che esistono, ma non sono certo biologiche. O meglio: lo sono nella misura in cui la biologia femminile paga pegno in una società pensata per venire incontro soltanto a quella maschile. Il recente annuncio dell'abbassamento dell’IVA sui prodotti igienici femminili – dal 22%, tassa sui beni di lusso, al 10%, ben lontano dal 4% dei beni essenziali – è la rappresentazione numerica ed economica di come le esigenze delle donne siano considerate secondarie, un retropensiero, qualcosa a cui ci si adatta con fatica. La pandemia, che avrebbe dovuto far scoppiare il bubbone sulla disparità di carico domestico e di cura fra uomini e donne, ha finito per consolidare lo squilibrio: moltissime donne sono state costrette a dare le dimissioni per poter seguire i figli bloccati a casa dalle misure restrittive. Queste sono davvero differenze “strutturali”, che però Barbero non sembra aver mai preso in considerazione, tanto che nell’intervista, alla domanda di Silvia Francia che cerca di spingerlo verso un riconoscimento del problema a livello sistemico, risponde con “Se è così”. Professore, con rispetto: sì, è così, lo diciamo da cinquant’anni, no, da settanta e rotti, lo diceva pure Simone De Beauvoir, e il compito di allevare uomini meno oppressivi e sordi è in capo ai padri, prima ancora che alle madri. È da voi che imparano a dare per scontato che una scelta condivisa come un figlio debba ricadere per lo più sulle donne: la legge sul congedo di paternità obbligatorio di 90 giorni (con l’obiettivo di estenderlo a 120) è depositata da tempo. Non si sono certo visti grandi movimenti di piazza di uomini giovani determinati ad assicurarsi quello che sulla carta sarebbe un loro diritto, ma che a quanto pare vivono solo come un dovere al quale è facile sfuggire. Basta fare gli gnorri. Se qualcosa non è un tuo problema, dopotutto, non è un problema.

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In sintesi: alle donne prima viene insegnato che essere gregarie, gentili e premurose è preferibile a essere “aggressive, spavalde e sicure di sé”, un’educazione che avviene sia in famiglia che nel mondo esterno. A questo si aggiungono le penalità legate alla maternità, la disparità salariale (la legge che dovrebbe porre fine a questa discriminazione è passata alla Camera pochi giorni fa, con relatrice proprio Gribaudo: è il 2021 e veniamo ancora pagate meno a parità di mansioni), la sottovalutazione (“Le donne non sono in grado di [inserisci compito di leadership, prestigio o visibilità]”) e infine questo simpaticissimo essenzialismo su cui ancora ci si interroga come se davvero “maschio” e “femmina” fosse una personalità, Judith Butler non fosse mai esistita, e non avessimo mai parlato dell’esistenza di altri generi al di fuori di quello binario. Un pastrocchio, professore: e no, per affermarsi non basta il “coraggio”, di coraggiose ne abbiamo perse tante, soffocate dalla damnatio memoriae quando non direttamente uccise per aver osato essere “spavalde”. Non erano forse regine o sante, non erano politiche brillanti in partiti che mal tolleravano la leadership femminile, ma sono esistite: e chissà quale potenziale non sono riuscite a esprimere.

Immagine anteprima: Alessio Jacona, Festival della Comunicazione, CC BY-SA 2.0, via Wikimedia Commons

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