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Il pasticcio all’italiana delle trivelle sospese ma anche no

20 Ottobre 2021 10 min lettura

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Il pasticcio all’italiana delle trivelle sospese ma anche no

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di Andrea Turco

Il blablabla di Greta Thunberg alla Youth4Climate di Milano di fine settembre è già diventato una maglietta e più in generale ha inondato, e inonderà, i discorsi attorno alla Cop26 che si terrà a novembre a Glasgow. L’attivista svedese ha avuto il merito di sintetizzare in maniera efficace gli impegni della politica attorno all’annoso tema del cambiamento climatico: annunci, appunto, che restano tali mentre il pianeta continua a collassare.

Che l’accusa di Greta Thunberg  sia stata lanciata in Italia è un fatto ancora più significativo perché, nell’era della crisi climatica, il nostro paese è ancora invischiato in un dibattito sulle trivelle che appare davvero fuori tempo massimo. Potremmo chiamarlo “il caso PiTESAI”: è lo strano strumento previsto dalla politica per cercare di regolamentare le attività delle aziende fossili, tra le principali responsabili del riscaldamento globale. Serve una exit strategy dalla triade carbone petrolio e gas, con date certe sulla dismissione e un piano di riconversione, così come indicato dall’ultimo report dell’IPCC e dall’Agenzia Internazionale dell’Energia? Il nostro paese, da quasi tre anni, è invece incagliato in un dibattito  che sembra volersi appellare alla sospensione dell’incredulità: trivelliamo, anzi no, anzi forse, solo fino a un determinato periodo di tempo che però non indichiamo. 

Per spiegare il caso PiTESAI serve andare a ritroso nel tempo. In contemporanea con la chiusura della Youth4Climate, il ministero della Transizione ecologica è particolarmente attivo. In un solo giorno, il 30 settembre, pubblica i tre decreti sull’economia circolare che stabiliscono i criteri per l’assegnazione di 2,6 miliardi del PNRR; lancia il Recer, il registro nazionale per la raccolta delle autorizzazioni al recupero dei rifiuti; diffonde le linee programmatiche in vista della consultazione sulla Strategia nazionale sull’economia circolare. Tutte buone intenzioni, evidentemente, che il ministro Roberto Cingolani ha potuto illustrare al summit della pre-Cop26. Sempre lo stesso giorno, però, con una nota stampa, il MiTe rende noto di aver trasmesso alla Conferenza Unificata Stato-Regioni il Piano per la Transizione Energetica Sostenibile delle Aree Idonee (più noto con l’acronimo PiTESAI). Per spiegare a cosa serva, il ministero ricorre a una notevole dose di equilibrismo:

"Il Piano individua le aree in terraferma e in mare dove non sarà più possibile svolgere attività di ricerca e produzione di idrocarburi e quelle residue dove sarà possibile proseguire tali attività al termine di una verifica puntuale della loro sostenibilità in funzione di tutti i vincoli di tipo ambientale presenti sul territorio, tenendo conto che comunque l’utilizzo dei combustibili fossili si concluderà nel medio termine in funzione degli obiettivi di decarbonizzazione che rappresentano il cardine della politica energetica italiana."

Fin quando ce n’è, di petrolio e gas, si estrae. A patto di verificare che le attività di prospezione e di ricerca, propedeutiche poi all’estrazione vera e propria, siano sostenibili. Peccato che sia ciò che già avviene attraverso la Valutazioni di Impatto Ambientale (VIA) e la Valutazione Ambientale Strategica (VAS), con quest’ultima che è la stessa procedura a cui è stato sottoposto il PiTESAI.

A che serve, dunque, questo nuovo Piano? Ci si aspetterebbe che il ministero indicasse almeno, come lascia intendere l’acronimo, le aree idonee a nuove perforazioni. Invece, a guardare il rapporto ambientale che è stato presentato dal governo a febbraio, si intuisce che si tratta di un atto di indirizzo generale che individua i principi e i criteri in base ai quali saranno poi le amministrazioni ad ammettere o ad escludere le attività fossili.

Enzo Di Salvatore, docente di Diritto costituzionale all’università di Teramo e tra i promotori del master Diritto dell’Energia e dell’Ambiente, aveva spiegato a Economiacircolare.com che “un Piano per definizione deve pianificare, deve dire con certezza dove si possono realizzare le attività idrocarburiche e dove no, e invece ciò non succede. Il timore è che si finisca per lasciare ulteriore discrezionalità in mano agli enti locali, che andranno così inevitabilmente in ordine sparso”. Va specificato che la versione del Piano presentato a fine settembre fornisce qualche riferimento in più. Pur scegliendo di mantenere un complicato equilibrio lungo le 176 pagine del PiTESAI, il MiTE scrive che:

"I giacimenti a gas naturale di grande dimensione in termine di riserve accertate (classe di riserva alta e altissima) non sono frequenti in Italia, ma presentano riserve significative che, da sole, superano ampiamente quelle dei piccoli e medi giacimenti con un profilo di durata per l’estrazione oltre al 2040 in termini di riserve accertate; i giacimenti a mare sono in numero inferiore rispetto a quelli a terra, ma in termini di riserve certe rappresentano un potenziale residuo dell’80% sul totale delle riserve complessive dei campi a gas; a breve termine, un giacimento di estrazione di grandi dimensioni in termini di riserve certe è Argo e Cassiopea al largo di Gela, che potrebbe creare un picco temporaneo; o i giacimenti di petrolio attivi, a cui spesso è associato anche gas naturale, sono pochi, localizzati sia a mare che a terra nell’area meridionale italiana, ma hanno una durata e delle riserve significative; in Basilicata sono attivi i due più grandi giacimenti a terra europei (Val d’Agri e Gorgoglione)."

Il senso, insomma, è che si continuerà a estrarre nei giacimenti più grandi e più ricchi, cioè quelli più produttivi. Che poi è l’interesse delle stesse compagnie energetiche. I due esempi citati, la Basilicata sul petrolio e Gela sul gas, sono dunque destinati a un “fine pena mai”, visto che nella regione lucana si estrae da 30 anni e nella cittadina siciliana da 60 anni? 

Su entrambi i territori opera Eni, che continua ad avere parecchia influenza sul governo italiano e influenza da tempo la “rivoluzione verde” intrapresa col Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR). Il criterio, se così possiamo definirlo, del “poche estrazioni ma buone” lascia poi ulteriormente perplessi. Come si fa a individuare se in un determinato lembo di territorio ci sono le potenzialità per un giacimento corposo? Con le prospezioni e la ricerca, proprio le attività che dovrebbe disciplinare il PiTESAI. 

Nel Piano manca, inoltre – ed è una carenza evidente – , un’analisi di cosa ha significato e continua a significare la presenza delle aziende fossili sui territori. Sono più i vantaggi o gli svantaggi? Se Eni, giusto per tornare a citare i due casi di Gela e della Basilicata, ha operato male, perché le si dovrebbe consentire una nuova esplorazione in un’altra area idonea? Soprattutto considerando gli impatti ambientali, sociali e culturali delle attività estrattive su territori già precedentemente ritenuti idonei. Impatti che hanno “scioccato” il gruppo di lavoro ONU “Business and Human Rights” che ha viaggiato in Italia dal 27 settembre al 6 ottobre, focalizzando la propria attenzione su alcuni snodi fondamentali delle imprese italiane, da Prato ad Avellino. Sollecitato sulla Val d’Agri, il presidente del gruppo ONU, il professor Surya Deva, ha detto che:

“Eni ha detto di non sapere nulla delle preoccupazioni della comunità locale. L'impresa ha parlato delle attività che svolge, ci ha mostrato le modalità del monitoraggio delle emissioni ma la comunità continua a non credere a una parola. I vertici aziendali devono uscire dagli uffici e mettersi in ascolto e qui il ruolo del governo e degli enti pubblici è cruciale. Altrimenti ci sarà sempre uno squilibrio di poteri tra impresa e comunità”.

È questa l’idea di transizione ecologica del PiTESAI? È questa l’idea di transizione ecologica che il governo italiano intende sostenere alla Cop26 di Glasgow? All’appuntamento scozzese che tenterà di definire le future strategie per la lotta al cambiamento climatico, Cingolani rischia di arrivare con una posizione già vecchia.

Le “trivelle sostenibili” sono un ossimoro e, secondo i dati diffusi da Legambiente WWF e Greenpeace, e ripresi dal PiTESAI, occuperebbero potenzialmente porzioni molto ampie: circa 91mila chilometri quadrati di mare e 26mila kmq sulla terraferma. Si tratta del 42,5% del territorio nazionale e dell’11,5% delle aree a mare. Tra le zone interessate, il Canale di Sicilia (dove al Ministero sono state depositate 4 istanze), le coste dell’Adriatico tra le Marche e l’Abruzzo (7 istanze), le coste di fronte alla Puglia (10 istanze) e il Golfo di Taranto (3 istanze).

via Enzo di Salvatore

Ha fatto discutere anche che il Piano sia giunto nell’ultimo giorno utile. Prevedendo le proteste, il ministro Cingolani aveva commentato che “è stato un lavoro condotto con grande attenzione e in tempi ristrettissimi, dato che gli ultimi commenti da parte degli enti locali e delle Regioni interessate sono giunti in prossimità del 14 settembre, scadenza della consultazione pubblica nella fase di Valutazione Ambientale Strategica”. Come a dire: la colpa dei tempi risicati non è sua ma di chi è arrivato in ritardo. Ma è davvero così? 

La consultazione pubblica, con la possibilità di inoltrare le osservazioni ai documenti preliminari diffusi dal Ministero (una proposta di piano e una serie di allegati tecnici), è stata lanciata lo scorso 16 luglio. In 60 giorni, dunque, associazioni ed enti locali hanno inviato decine e decine di osservazioni, molto ampie e puntuali. Nulla ha detto Cingolani sul parere del Ministero della Cultura, invece, giunto soltanto il 22 settembre.

Quel che premeva al titolare del dicastero era mantenere la promessa fatta più volte in Parlamento. Anche se all’ultimo minuto. Il PiTESAI, però, è una partita lunghissima che si trascina da anni. Esattamente dal 12 febbraio 2019, quando è entrata in vigore la legge che converte il cosiddetto decreto Semplificazioni. Si era ai tempi pre-pandemici, con il governo Conte I, a doppia conduzione Lega-Movimento 5 Stelle. Frutto di una mediazione tra le due forze partitiche - con il M5S che spingeva per un provvedimento “blocca trivelle” e la Lega che invece chiedeva nuove attività estrattive -, la legge che introduceva lo strumento del PiTESAI indicava 18 mesi di tempo per approvare il Piano e 24 mesi di moratoria sulle nuove istanze di prospezione e di ricerca. Una vera e propria mediazione tra le due anime del governo Conte I che, su questo punto, erano antitetiche. Lo si evinceva dal fatto che la moratoria non ha riguardato né le istanze di concessione di coltivazioni già presentate né le coltivazioni già in essere. Sono state infine necessarie due proroghe ulteriori per giungere alla scadenza del 30 settembre 2021 (mentre il governo Conte I cedeva il passo al Conte II e poi a Draghi).  In questo lasso di tempo sono rimaste sospese le attività di 73 permessi di ricerca, 79 istanze pendenti di permessi di ricerca (54 a terra e 25 in mare), oltre a 5 istanze di permesso di prospezione in mare. Che succede però ora che la moratoria è scaduta? In teoria torna la possibilità di nuove prospezioni e nuove ricerche, così come sollevato l’1 ottobre dai Verdi Eleonora Evi e Angelo Bonelli. Poche ore dopo, sempre l'1 ottobre, sul sito dell’Ansa si apprende che fonti del ministero ribadivano che:

"Il Ministero della Transizione Ecologica non autorizza nessuna nuova attività di ricerca e di trivellazione di idrocarburi prima dell'approvazione definitiva del piano nazionale in materia, il Pitesai. Nessuna nuova attività partirà finché non ci sarà il piano, perché anche le società che hanno già autorizzazioni valide aspetteranno di avere il piano, per non rischiare di cercare gas dove non potranno estrarlo. Serviranno almeno un paio di mesi per approvare definitivamente il documento in Conferenza unificata Stato-Regioni."

A distanza di qualche giorno da quella rapida presa di posizione, il MiTe ha confermato a Valigia Blu che non ci saranno atti legislativi per impedire nuove perforazioni. Una posizione ben strana, in una sorta di limbo normativo in cui la legge prevede ufficialmente che le aziende possono tornare a estrarre ma il ministero spera che non lo facciano. Sollecitato da un’interrogazione parlamentare a firma M5S, durante la seduta di question time del 13 ottobre il ministro Cingolani ha ribadito che “non saranno concesse nuove autorizzazioni per attività e ricerca e produzione di idrocarburi, come già dichiarato, anche con riguardo alle autorizzazioni vigenti ma sospese per legge”. Parola di ministro. Basterà?

Il professore Enzo Di Salvatore su Facebook è tranciante:

La legge n. 12/2019 dice chiaramente che il piano deve essere “adottato” entro la data di scadenza della legge e che nel frattempo sono sospese le ricerche. Ora, la legge scadeva il 30 settembre e poiché il piano ad oggi non è stato ancora adottato, tutti i permessi di ricerca nel frattempo sospesi torneranno ad avere vigore (...) Ammesso che il ministro possa rifiutarsi di adottare un atto quando il procedimento sia giunto a termine (ma non era proprio lui a sostenere che i recenti decreti VIA fossero stati firmati perché “atti dovuti”?), osservo: e infatti nessuno sta parlando di “nuovi” permessi di ricerca, ma di permessi di ricerca già rilasciati, che la legge del 2019 aveva sospeso e che ora torneranno ad avere vigore perché la legge è scaduta. Se si fosse voluto evitare questo epilogo, sarebbe stato sufficiente adottare un decreto-legge e prorogare la sospensione delle ricerche di gas e petrolio per qualche mese ancora, nell’attesa che venisse varato il piano. E invece così non è stato (...). Quindi ora siamo passati da una sospensione prescritta dalla legge a una sospensione promessa dalle multinazionali. Ammazza che conquista.

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Un ulteriore rischio, come si legge su Il Fatto Quotidiano, è quello dei contenziosi perché, visto che il Piano non è stato approvato (ma solo inoltrato) entro il 30 settembre, se anche dovesse entrare in funzione potrebbe essere impugnato dalle compagnie energetiche che dovessero scoprire che una determinata area in cui intendevano cercare idrocarburi è stata dichiarata non idonea. I ritardi del PiTESAI preoccupano tra l’altro proprio lo stesso settore oil&gas.

Di fronte uno scenario così intricato, la domanda è: a chi conviene avere un Piano di gestione degli idrocarburi così raffazzonato? Il Pianeta non ha più tempo per compromessi al ribasso e interessi di parte.

Immagine in anteprima via terredifrontiera.info

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