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Dalla rivoluzione dei gelsomini alla crisi costituzionale dopo le proteste del 25 luglio: il presidente Kais Saied decisore ultimo della democrazia tunisina

24 Agosto 2021 9 min lettura

Dalla rivoluzione dei gelsomini alla crisi costituzionale dopo le proteste del 25 luglio: il presidente Kais Saied decisore ultimo della democrazia tunisina

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Aggiornamento 24 agosto 2021: Abbiamo inserito l'annuncio del presidente Kais Saied di estendere i poteri straordinari oltre la scadenza prevista del 25 agosto: "Nella notte tra il 23 e il 24 agosto, attraverso un comunicato su Facebook il presidente ha dichiarato di avere esteso i poteri straordinari “fino a nuovo avviso”. Nei prossimi giorni si rivolgerà direttamente alla nazione. Una decisione che non coglie di sorpresa, salvo per un dettaglio: da ora i poteri esecutivo, legislativo e giudiziario riuniti nella stessa persona non hanno scadenza.

Messi su una linea temporale, dieci anni non bastano per capire se un percorso di transizione democratica abbia avuto successo o meno. Quello che è avvenuto in Tunisia il 25 luglio scorso, tuttavia, ha segnato più di una crepa sul processo costituzionale in corso.

La decisione del presidente della Repubblica Kais Saied di attribuirsi pieni poteri per almeno 30 giorni ha portato con sé una serie di questioni: come siamo arrivati a questa decisione? E, soprattutto, si è trattato di un colpo di Stato?

Per rispondere a questi due quesiti, mentre il tempo passa e la chiarezza diminuisce, bisogna fare due passi indietro: il primo di un mese, il secondo di dieci anni.

Il 25 luglio in Tunisia è la festa della Repubblica. Al termine di una lunga giornata di manifestazioni in tutto il paese contro il governo del premier Hichem Mechichi e assalti alle sedi locali del partito di ispirazione islamica Ennahda, il presidente della Repubblica Kais Saied decide di applicare l’articolo 80 della Costituzione determinando di fatto “uno stato di pericolo imminente”. Una decisione che lo porta a congelare le attività parlamentari per almeno 30 giorni; togliere l’immunità ai deputati e sciogliere il governo. 

La reazione della piazza è evidente. Recatosi nella notte in uno dei luoghi simbolo di Tunisi, avenue Bourguiba - là dove c’è la sede del ministero degli Interni - Saied viene accolto da un bagno di folla di migliaia di persone esasperate dalla crisi politica, economica e sociale che sta vivendo il paese. I giorni passano a colpi di purghe presidenziali, arresti e nuove nomine governative. Mancano però due elementi: l'istituzione della Corte costituzionale che dovrebbe decretare la fine o meno dello stato di eccezione e la nomina del primo ministro, promessa dal presidente della Repubblica ma che tarda ad arrivare. Quello che resta, invece, è un consenso palese per Saied e il suo colpo di mano. Secondo un recente sondaggio, l’87% dei tunisini ha appoggiato la scelta del responsabile di Cartagine. 

«Da qualsiasi prospettiva la guardiamo, è chiaro che l’applicazione dell’articolo 80 è anticostituzionale - a parlare è Vincent Geisser, islamologo e politologo francese - Abbiamo superato il quadro costituzionale perché sia i discorsi dei sostenitori di Saied che del presidente stesso sono al limite, non si fa più riferimento al testo ma alla volontà popolare. Ormai non si parla neanche più dei 30 giorni previsti dall’articolo 80». 

Sciogliere il quadro giuridico su cui Saied si è appoggiato è complicato. Lo stesso vale per chi volesse capire chi abbia effettivamente convocato le proteste del 25 luglio scorso.

Dalla cosiddetta rivoluzione dei gelsomini nel 2011 (secondo passo indietro) la Tunisia è un cantiere aperto. La cacciata del presidente autoritario Zine El-Abidine Ben Ali dieci anni fa ha portato a nuove elezioni, a un nuovo parlamento e a nuove riforme. Quello che è mancato è stato il rafforzamento e la creazione di alcune istituzioni fondamentali, come la Corte costituzionale appunto, che doveva essere messa in piedi nel lontano 2015 ma che ancora oggi non ha visto la luce. Un’impasse che si è sviluppata dentro e fuori gli organi decisionali per motivi politici, economici e sociali. 

Tra le miriadi di partiti che si sono venuti a creare dopo la rivoluzione del 2011, ce n’è uno in particolare che ha dettato l’agenda al paese godendo di una solida base di sostenitori: Ennahda, il movimento di ispirazione islamica guidato da Rached Ghannouchi, oggi presidente del parlamento. Dopo avere operato in clandestinità sotto il regime di Ben Ali, Ennahda ha saputo imporsi come il partito protagonista della fase post rivoluzionaria. Accordi e compromessi sono stati all’ordine del giorno con le altre formazioni politiche e con alcuni profili legati al vecchio regime. La sua condotta è stata giudicata insufficiente da parte della popolazione e il movimento islamico è finito più volte sotto la lente di ingrandimento a seguito dell’omicidio dei militanti di sinistra Chokri Belaid e Mohamed Brahmi nel 2013 o per il suo coinvolgimento più o meno esplicito con il terrorismo. Nel corso degli anni il partito ha perso progressivamente sostegno popolare e voti. La colpa più grave, tuttavia, è stata quella di non avere saputo gestire la più grave crisi economica del paese, arrivata al suo culmine con la pandemia di COVID-19. Non è un caso quindi che le proteste del 25 luglio abbiano avuto come obiettivo principale proprio Ennahda

Tasso di disoccupazione nazionale al 18%, un debito pubblico che rappresenta il 100% del PIL (la contrazione nel 2020 è stimata all’8,8%) e un prestito di 4 miliardi di dollari da parte del Fondo monetario internazionale in cambio di ingenti tagli alla spesa pubblica e alle sovvenzioni statali. Questi sono i dati più evidenti dell’economia tunisina oggi, alle prese con una corruzione galoppante reduce dall’epoca di Ben Ali e un futuro sempre più incerto. Abdeljelil Bedoui è il responsabile economico del Forum Tunisien pour les Droits Economiques et Sociaux (FTDES) e il suo giudizio è tranciante: «Tutti gli indicatori erano in rosso ben prima della pandemia. La situazione era catastrofica. Dopo il 2011 non abbiamo superato un tasso di crescita dell’1,5%. Prima era del 4,4%. L’economia è stata gestita solo in vista delle scadenze elettorali. Abbiamo dato libero accesso a delle filiere improduttive come le assunzioni indiscriminate nelle istituzioni pubbliche. Lo abbiamo fatto a titolo di ricompensa per chi ha lottato contro Ben Ali senza che ci fossero reali competenze economiche dietro». 

L’assunzione nel settore pubblico rimane una delle poche prospettive per i cittadini tunisini, in un paese che vive profonde fratture interne tra le regioni della costa e l’entroterra. Senza contare il settore informale, il tasso di disoccupazione giovanile arriva a toccare in alcune aree anche il 40%. Giovani che sono stati i protagonisti delle mobilitazioni di questi ultimi dieci anni. Conosciuta in Europa come la Rivoluzione dei gelsomini del 2011, in Tunisia viene chiamata “la Rivoluzione della libertà e della dignità”. Se sulle libertà passi avanti sono stati fatti, è stata la dignità a venire meno. Le rivendicazioni economiche e sociali non sono state attese e questo ha portato a diverse proteste e manifestazioni nel corso degli anni. Nel solo gennaio 2021, l’FTDES ha contato più di 1400 movimenti di protesta in tutto il paese a cui la polizia non ha faticato a rispondere. Duemila arresti arbitrari in meno di un mese e violenze da parte delle forze dell’ordine si sono registrate per tutta la prima metà del 2021 riaccendendo il dibattito sul loro ruolo e su quello del ministero dell’Interno.

Il 25 luglio è solo l’ultimo grande evento della transizione democratica tunisina. Nell’applicare l’articolo 80 della Costituzione, il presidente della Repubblica Kais Saied ha puntato fortemente su un parlamento e un governo completamente delegittimati. Le elezioni del 2019 hanno frammentato l’Assemblea dei rappresentanti del popolo, divisa tra gli islamisti di Ennahda e quelli radicali di Al Karama, il partito Qalb Tounes del magnate televisivo Nabil Karoui (su cui pendono diverse condanne di riciclaggio e corruzione) e i nostalgici del vecchio regime capeggiati dall’avvocata Abir Moussi, fino a un mese fa in testa ai sondaggi. 

«Il parlamento ha perso ogni tipo di legittimità con un livello di fiducia estremamente basso. Alle elezioni del 2019 la campagna si è estremizzata tra gli islamisti di Ennahda e i sostenitori di Qalb Tounes - commenta a Valigia Blu Amine Bouzaiene dell’osservatorio democratico Al Bawsala -  i primi davano ai secondi dei corrotti, i secondi trattavano i primi come dei retrogradi. Dopo le elezioni si alleano, la stessa cosa è successa nel 2014 con Ennahda e il partito di Nidaa Tounes. Questo ha esasperato gli elettori. Votavano per qualcosa e si sono trovati di fronte ad altro».

L’esasperazione di cui parla Bouzaiene si è riversata anche sul premier Hichem Mechichi quando, a fine 2020, ha proposto un rimpasto profondo alla sua squadra di governo, rigettato da Saied per alcuni casi legati a episodi di corruzione. Mechichi, figura tecnica proposta dal presidente della Repubblica a fine agosto del 2020 dopo le dimissioni del governo Fakhfakh, ha presto voltato le spalle a Saied buttandosi tra le braccia di Ennahda. Su di lui sono ricadute le colpe per la gestione catastrofica dell’epidemia di Covid-19. Circolano ancora oggi le immagini di Mechichi in un hotel di lusso di Hammamet mentre in Tunisia si cercava letteralmente l’ossigeno per respirare e si contavano più di 200 morti al giorno. 

Capire oggi le intenzioni di Kais Saied è pressoché impossibile. Nella notte tra il 23 e il 24 agosto, attraverso un comunicato su Facebook il presidente ha dichiarato di avere esteso i poteri straordinari “fino a nuovo avviso”. Nei prossimi giorni si rivolgerà direttamente alla nazione. Una decisione che non coglie di sorpresa, salvo per un dettaglio: da ora i poteri esecutivo, legislativo e giudiziario riuniti nella stessa persona non hanno scadenza.

Saied è una figura enigmatica del panorama politico nazionale. Docente di diritto costituzionale, ama esprimersi in arabo classico ed è famoso per la sua rigidità e il suo conservatorismo. Nel 2019 si è candidato alle elezioni presidenziali - ma non a quelle legislative - e il suo nome non era neanche tra i papabili per il ballottaggio. Venuto fuori da una nube di numerosi candidati, Kais Saied ha saputo interpretare la stanchezza della popolazione affidandosi a due elementi: la sfiducia nei confronti della “vecchia” classe politica e la lotta alla corruzione, il vero cancro del paese. 

Il presidente della Repubblica non ama parlare in pubblico e non è un caso che non abbia ancora rilasciato interviste ufficiali, limitandosi a comunicati social, visite lampo in qualche ministero o visite internazionali al palazzo di Cartagine. Un’intervista del 2019 rilasciata durante la campagna elettorale al giornale Acharaa e riemersa su Twitter, tuttavia, ha acceso i riflettori sulle posizioni di Saied. Alla domanda su una possibile abolizione dei partiti, la risposta fu molto chiara: «Non ho intenzione di cancellare i partiti. Il pluralismo rimarrà in campo fino a quando non scomparirà da solo. Se i partiti fossero stati capaci e funzionali, avrebbero guidato l’esplosione rivoluzionaria. La democrazia rappresentativa nei paesi occidentali non funziona più, la gente si sta organizzando in altre maniere. I partiti sono condannati». Altri passaggi significativi emergono sui diritti delle minoranze, in particolare della comunità LGBTQ+: «Perché questi gruppi ottengono supporto dall’esterno? Per colpire lo Stato. Ho un progetto per fermare il sostegno a tutte le associazioni nazionali e internazionali perché interferiscono nei nostri affari».

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Oggi i componenti della società civile sono vigili e attenti, in primis il sindacato più importante del paese, l’Union générale tunisienne du travail (UGTT), che ha più volte fatto appello a un dialogo nazionale e a un foglio programmatico per riportare la Tunisia sui binari democratici. Come l’UGTT, anche diversi partiti hanno dato la loro condizionalità a Saied, mentre Ennahda ha prima denunciato un “colpo di Stato” per poi affidarsi a posizioni più prudenti.

Al di là di qualsiasi speculazione, che possa essere la decisione di Saied di instaurare un nuovo regime presidenziale, riformare la Costituzione o tornare a una situazione pre 25 luglio, quello che è successo in questa calda estate tunisina può essere ricondotta a una sorta di “sindrome di Cartagine”, come l’ha definita il politologo Geisser: «In Tunisia abbiamo un regime parlamentare che salvaguarda gli attributi simbolici presidenziali della dittatura come la guardia presidenziale o il palazzo di Cartagine. C’è una contraddizione nella costituzione che non è il troppo potere al parlamento o ai partiti. Siamo usciti da 50 anni di potere presidenziale ma ne abbiamo ricreato l’universo simbolico». Teoricamente privo di poteri reali, bilanciati dal ruolo del parlamento e del governo, con una dubbia lettura costituzionale e il sostegno di gran parte della popolazione oggi Kais Saied si trova a essere il decisore ultimo della democrazia tunisina.

Immagine in anteprima: frame video Al Jazeera

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