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L’identità di genere spiegata a chi pensa di non averne una

19 Luglio 2021 8 min lettura

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L’identità di genere spiegata a chi pensa di non averne una

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di Giulia Blasi

Sarebbe impreciso dire che la discussione al Senato sul DDL Zan sta facendo uscire i mostri: li ha, piuttosto, concentrati in un’unica sala, nell’arco di pochi giorni. Non mi faccio problemi a usare il termine “mostri” per definire le teorie bizzarre e deformi portate avanti da chi si oppone alla legge contro i crimini d’odio per sostenere le proprie argomentazioni, e allora vai di fantasia, vai di distorsione, falsità, invenzione o negazione della realtà. Simone Alliva su L’Espresso ne fa una bella – vabbe’ si fa per dire – antologia, con alcuni grandi classici (“l’utero in affitto” tirato in ballo a casaccio, quando la legge si occupa di tutt’altro, ma come spauracchio funziona sempre; oppure il solito Simone Pillon, che non si fa scrupolo di tirare in ballo l’ignaro Federico Chiesa, strumentalizzando la sua chiamata alla mamma dopo la vittoria agli Europei) e qualche new entry (la senatrice Ronzulli, che se ne esce con un incredibile “fluid gender” sostantivato: “La teoria del fluid gender”, deve essere la cara vecchia teoria gender che sale di livello).

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Chiamarlo “circo” sarebbe fare un torto grave alla nobile arte dei Togni e degli Orfei, gente seria che il suo lavoro lo fa seriamente. Caciara, pipinara o ammuina forse funzionano meglio, ma comunque la vogliamo chiamare, la discussione intorno al disegno di legge proposto da Alessandro Zan ha avuto il pregio di far emergere la sostanziale impossibilità di mettere seriamente in discussione un disegno di legge già contrattato al ribasso: discutere del DDL si dovrebbe, ma non ci si riesce, perché chi è a favore ha la realtà empirica dalla sua, le vite di persone vere, le storie di chi è stato colpito da un crimine d’odio. Dall’altra parte, vuoti allarmismi e critiche radicate in un’idea di società che ha dimostrato di offrire più svantaggi che vantaggi, la società delle divisioni rigide, dei ruoli prestabiliti, del predominio dei maschi bianchi borghesi eterosessuali e cisgender che ogni tanto, con magnanimità, lasciano uno strapuntino libero per le loro ancelle. Peccato, perché ci sarebbe davvero bisogno di una discussione seria intorno a un argomento importante come il DDL, che se affrontata con la dovuta profondità apre scenari che vanno presi in considerazione, perché ci indicano come cambierà il mondo nei prossimi decenni. La compagine parlamentare, purtroppo, non ha voluto o potuto approfondire i temi connessi al DDL, liquidandoli come “ideologici”: le ideologie, si vede, sono sempre quelle degli altri. Nella vita reale, è in atto una quieta rivoluzione dell’essere che con il tempo ci porterà a guardarci reciprocamente in maniera del tutto diversa.

Le destre l’hanno intuito, e forse per questo sono inquiete. Non sono le uniche. Chi si è affacciato ai Pride del 2021 avrà notato che mai come quest’anno la questione dell’identità di genere ha scavalcato quella dell’orientamento: se per anni lo slogan del Pride è stata una variazione di “Love is love”, ora il punto non è tanto chi ami, ma direttamente chi sei e come ti definisci. L’assenza dei carri al Pride di Roma ha livellato la visibilità delle persone partecipanti, ed è diventato molto più evidente come “maschio” e “femmina” siano ormai solo due punti su uno spettro che non è lineare. “Di qua o di là” è roba degli anni ’80. I giovani del Terzo Millennio prendono la nostra definizione di genere e la buttano dalla finestra. Non funziona più.

Chi come me è cresciuto negli anni in cui le donne trans erano oggetti esotici o personaggi del porno e gli uomini trans non esistevano, ha ormai più o meno assimilato e digerito l’idea che esistano persone che nascono di un sesso (biologico) ma si sentono di un genere che non è quello associato al sesso alla nascita. Magari non lo comprende fino in fondo, ma lo accetta. Il concetto è passato, con tutti i suoi limiti e con la tendenza a raccontare le persone trans e a non lasciare mai che si raccontino da sole, confinandole nei ruoli di sex worker o facendo passare ogni narrazione per il dolore, funzionale a stimolare l’empatia. La comparsa di identità non binarie sta complicando le cose, e anche chi era arrivato a interiorizzare la narrazione (errata e parziale) del “corpo sbagliato” sta sbarellando.

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Riavvolgiamo un attimo. La frase “identità di genere” è diventata parte del vocabolario comune da relativamente poco tempo, nonostante sia già presente da un pezzo nel nostro ordinamento: come scrive la giurista Vitalba Azzollini, il primo pronunciamento della Consulta rispetto a questo dato dell’umano risale al 1985 (anche se, per amor di precisione, va detto che non è presente nella legge 164 del 1982, che ancora disciplina il percorso di transizione e i diritti delle persone trans, e che parla solo di “sesso” e “caratteri sessuali”). Sono rispettivamente del 2015 e del 2017 altre due sentenze in cui l’espressione viene utilizzata nella forma in cui la conosciamo. Non è proprio una novità, quindi. Ma cosa vuol dire, in termini pratici? In cosa consiste?

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Per spiegarlo devo andare sul personale, ma credo che l’esempio possa aiutare. Io sono – mi definisco – una donna. Alla nascita avevo i genitali femminili, e quindi si è detto: è femmina. Sono stata cresciuta da femmina, con le limitazioni (molte) e le opportunità (poche) associate al mio genere. Nonostante le discriminazioni e le piccole e grandi violenze che ho subito per il solo fatto di essere nata donna, non mi sono mai trovata a disagio con questa definizione, che sento mia e che adatto alle mie necessità. Al contrario, quando nella vita mi è capitato di essere scambiata per un maschio (per davvero o come insulto), ho provato un senso di fastidio, di scomodità, talvolta di umiliazione. Non mi riconosco nel genere maschile. La mia identità di genere è femminile: sono quello che ora si definisce una donna cisgender. Non potrei scegliere di essere un uomo, perché quell’identità non mi appartiene.

La stessa cosa vale per molte persone trans, nate con i caratteri sessuali di un genere, ma che si riconoscono nell’altro.

La sofferenza causata dal disallineamento fra quello che siamo (la nostra identità), e il nostro corredo biologico (il sesso) o l’espressione di genere (cioè il mix di di comportamenti, vestiario, interessi e aspetto che la società associa a un genere o all’altro) si definisce comunemente “disforia”, anche se negli ultimi tempi a questo termine si preferisce un più neutro “incongruenza” (che non implica una condizione di sofferenza), e riguarda molte – ma non tutte – le persone trans.

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Quando specifichiamo che la disforia non colpisce tutte le persone trans, ecco che la cosa si fa interessante, per noi che siamo cresciuti con l’idea che il genere sia binario. Non tutte le persone trans percepiscono il loro corpo come incongruente: non sono infastidite dai loro genitali o dal seno, non avvertono l’esistenza di un conflitto fra i loro caratteri sessuali primari e secondari e la loro identità, non sentono di doversi adattare completamente alla presentazione di genere (altro termine tecnico affine a “espressione di genere”, che si riferisce a come ci presentiamo in società) maschile o femminile, o di doverne adottare una che sia nettamente riconoscibile e collocabile da un lato o dall’altro della diade sessuale. Il termine “trans” include sia le persone che decidono di intraprendere il percorso di medicalizzazione, sia chi quelle che non vogliono o non possono farlo, per i motivi più vari.

Il terrore che questa riluttanza suscita all’allineamento forzato viene solo acuito dal fatto che oltre alle persone trans esistono anche le persone non binarie, non-binary (a volte abbreviato in “enby”: si legge come si scrive), vale a dire persone che non si identificano né con il maschile né con il femminile, che si riconoscono in entrambi i generi, con o senza una predominanza di uno o dell’altro. Comprendere questo passaggio è complicato, per chi è inscritto in maniera netta e definita in un genere solo. Proprio come chi si riconosce nel maschile o nel femminile non ha dubbi su quale sia la sua identità, chi si colloca al di fuori di quel binarismo ha una sua identità. Non è indeterminatƏ o indecisƏ, non è sospesƏ, non si trova in una fase in cui è alla scoperta di sé stessƏ: la sua identità è quella. E ci si trova a suo agio esattamente come qualsiasi persona cisgender si trova bene nella sua: può soffrire le costrizioni e le discriminazioni che ne derivano (come spesso capita alle donne, per esempio), ma non vorrebbe né potrebbe cambiarla. Non se l’è scelta. 

Per questo motivo, anche il mantra “le donne trans sono donne” rischia di essere riduttivo. Le persone sono più complesse di così, le identità sono stratificate, e non è possibile ridurre tutto all’aspetto, a come ci si presenta al mondo. Nel documentario Paris Is Burning e nell’ultima intervista rilasciata prima della sua morte, la leggendaria regina della scena ballroom di New York ,Octavia St. Laurent (persona trans e intersex), dà una definizione di sé che potrebbe essere riconducibile a un’identità non binaria: rifiuta la definizione “donna” anche se utilizzava pronomi femminili, aveva una presentazione di genere femminile e si faceva chiamare con un nome femminile.

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Insomma, per farla breve: l’identità di genere ce l’abbiamo tutti (maschile sovraesteso che mi serve a placare gli animi dopo aver fatto ricorso al micidiale schwa, che infiniti lutti addusse alle linguiste colpevoli di studiare le soluzioni possibili per una lingua inclusiva). Ce l’ho io, ce l’hai tu, ce l’ha Pillon, ce l’hanno le femministe trans-escludenti che hanno chiesto di eliminare la definizione “identità di genere” dal DDL Zan. Non è legata ai genitali, perché anche chi nasce con un apparato genitale non standard ha un’identità di genere (che può essere maschile, femminile, non binaria, come sopra). E non si indossa la mattina per smetterla il pomeriggio, né cambia con il tempo, da maschile a femminile o viceversa, come sostengono – senza che questa affermazione abbia il minimo fondamento – quelle che vogliono escludere le donne trans dagli spazi delle donne “in quanto maschi”.  Eliminare l’espressione dal DDL Zan per sostituirla con “transessualità”, termine obsoleto e impreciso fino a poco tempo fa usato per descrivere solo le persone trans medicalizzate, segnerebbe una discriminazione fra chi ha completato il percorso di riassegnazione (e che potrebbe godere della tutela della legge: le uniche persone trans “buone”) e chi invece no, perché affermandosi al di fuori del binarismo rifiuta di rientrare in una scatola identificabile. A questo si aggiunge che espungere la dizione “identità di genere” come causa del crimine d’odio per sostituirla con “omofobia e transfobia” non è solo un problema dal punto di vista dell’iter della legge, ma esclude la misoginia dal novero dei crimini d’odio, e quindi, paradossalmente, non tutela le donne cisgender. E soprattutto, e questa è la parte più surreale, non tutelerebbe gli uomini nel caso in cui la rivoluzione matriarcale rovesciasse il potere e le donne avessero il potere di discriminarli, perseguitarli e aggredirli senza conseguenze. Sì, lo so, è fantascienza, non è questo il mondo in cui viviamo, e se tutto va bene non lo sarà mai: ma una buona legge contro i crimini d’odio è capace anche di prevedere il futuro.

(Grazie ad Antonia Caruso per le preziosissime osservazioni in fase di prima stesura dell’articolo.)

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