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“Liberate i prigionieri della rivolta”: l’amnistia per i detenuti politici è la prima richiesta della Costituente cilena

8 Luglio 2021 6 min lettura

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“Liberate i prigionieri della rivolta”: l’amnistia per i detenuti politici è la prima richiesta della Costituente cilena

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di Susanna De Guio

Domenica 4 luglio si è inaugurata ufficialmente la Convenzione Costituzionale, composta dai 155 membri scelti dal popolo cileno per scrivere la nuova Carta Magna del Paese. Elisa Loncón, docente universitaria di mapudungun (lingua parlata Cile centrale e meridionale e nell'Argentina ovest-centrale dai Mapuche), linguista e attivista per i diritti del suo popolo mapuche, è stata eletta presidente e ha salutato con grande emozione l’apertura dell’organo costituente che “trasformerà il Cile in un paese plurinazionale, interculturale, che non attacchi i diritti delle donne e di chi si occupa della cura, un Cile che protegga la Madre Terra, che pulisca l’acqua, e contro ogni dominazione”. 

 

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Il compito che i delegati alla Convenzione sono chiamati a svolgere durante il prossimo anno infatti non è solo quello di riunirsi per riscrivere il testo costituzionale: il mandato consiste piuttosto nell’aprire un’ampia discussione politica sul modello che governa il Cile attuale e quello che si prefigura, e significa simbolicamente rifondare il paese. Per la prima volta la Costituzione sarà scritta da rappresentanti eletti dal popolo, con parità di genere e la presenza dei popoli nativi, per questo la scelta di una donna mapuche come presidente è un primo segnale di grande importanza circa la volontà politica che questo organo è in grado di esprimere.

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Attorno al palazzo in cui si è raccolta la Convenzione, migliaia di persone si sono date appuntamento fin dal mattino presto per accompagnare ma anche circondare i rappresentanti, vegliando sul ruolo a cui sono stati delegati e ricordando loro che non si può costruire un nuovo Cile mentre le persone che hanno reso possibile il processo costituente sono in carcere. 

La liberazione dei detenuti e delle detenute nel contesto della rivolta cilena è stata una rivendicazione costante fin dal primo mese di proteste, nell’ottobre del 2019, ed è diventata ora una premessa irrinunciabile per dare inizio ai lavori della Convenzione. Hanno richiesto questa condizione, all’indomani delle elezioni dello scorso 15 maggio, anche i costituenti della Lista del Pueblo, un eterogeneo coordinamento di dirigenti di movimento e referenti politici e territoriali nato a partire dalla rivolta, che aveva appena conquistato 27 seggi, superando perfino le proprie aspettative e infliggendo un duro colpo alla destra e ai partiti della ex Concertación. Inoltre a fine maggio il progetto di legge di indulto generale per i detenuti durante la rivolta sociale, che era fermo al Congresso da dicembre, è stato approvato dalla commissione del Senato ed è passato alla Camera. Attorno a questa iniziativa parlamentare e alle sue limitazioni si è riacceso un dibattito che attraversa la società cilena da un anno e mezzo. 

Lo scorso 8 giugno è uscito il primo comunicato, firmato da 34 costituenti, in cui si elencavano sei punti essenziali per dare avvio ai lavori della Costituente. Il gruppo, che si è denominato Vocería de los Pueblos, ha identificato a sua volta come priorità la liberazione dei detenuti politici della rivolta iniziata il 18 ottobre 2019 e dei prigionieri mapuche, insieme alla fine dell’impunità nelle violazioni dei diritti umani e alla riparazione alle vittime della violenza istituzionale. Inoltre il testo reclamava la demilitarizzazione del Wallmapu e lo stop alle espulsioni dei migranti, e infine il riconoscimento della sovranità della Convenzione, che le permetterebbe di svincolarsi dalle restrizioni definite nell’Accordo per la Pace e la Nuova Costituzione del 15 novembre 2019 quando, dopo un mese di rivolta in tutto il Cile, un ampio arco di forze politiche negoziò l’apertura del processo costituente, nel tentativo di allentare la pressione sociale che aumentava quotidianamente con proteste, scioperi e oceaniche manifestazioni.

Nonostante l’Accordo sia stato duramente criticato perché “cucinato a porte chiuse” dai partiti politici e poco rappresentativo delle istanze rivendicate nelle piazze, viene considerato una conquista della mobilitazione del popolo cileno di cui nessuna figura politica può appropriarsi. “Le detenzioni massive a partire dal 18 ottobre 2019 sono avvenute in un contesto di assoluta eccezionalità che è riuscito a produrre giurisprudenza, che ha ottenuto di riscrivere la Costituzione nazionale”, evidenzia Julio Cortés Morales, avvocato esperto del sistema penale e funzionario dell’Istituto Nazionale per i Diritti Umani (INDH). “Quando un’insurrezione vince, smette di rappresentare un reato, perché detta le nuove regole, e ci sono diversi esempi storici”, continua Cortés Morales, e cita Myrna Villegas, docente di Diritto all’Universidad de Chile e direttrice del Centro per i Diritti Umani. Commentando la possibilità di promulgare un indulto generale o un’amnistia, Villegas li definisce come “strumenti politici che permettono di dare soluzione a conflitti in determinati contesti” e segnala che nel caso cileno anche “lo Stato deve assumere la sua responsabilità nelle cause che hanno motivato la rivolta sociale”. Villegas individua cioè una corresponsabilità dello Stato e delle sue istituzioni “nella generazione di tali delitti vista la situazione di ingiustizia sociale che ha dato avvio alle proteste dall’ottobre 2019 in avanti”.

Nonostante siano documentate le responsabilità dei diversi apparati statali nel contesto della rivolta cilena, i numeri parlano di un evidente squilibrio tra le accuse che riguardano i manifestanti e quelle che coinvolgono le forze dell’ordine. “Sui detenuti a partire dal 18 ottobre non ci sono dati chiari, mi è toccato verificare che i numeri della procura non coincidevano con quelli della gendarmeria”, spiega ancora Cortés Morales. In linea generale, afferma, si è dimostrato che “durante la rivolta sono state arrestate quasi 30.000 persone, di queste circa 2.000 sono state detenute con carcerazione preventiva”. Oggi il numero è sceso perché una parte ha ottenuto gli arresti domiciliari, altri hanno accettato il rito abbreviato per tornare in libertà e altri ancora sono stati condannati e stanno scontando la pena.

D’altro canto, mentre il pubblico ministero ha ricevuto 8.827 denunce di violazioni dei diritti umani da parte delle forze di polizia, “si sono svolti solo tre processi al personale della forza pubblica, di cui due con rito abbreviato”, sottolinea Cortés Morales. I poliziotti denunciati non sono stati sospesi dall’incarico e oltre la metà delle indagini contro agenti dello Stato è stata chiusa senza risultato; la custodia cautelare in carcere viene applicata solo in situazioni eccezionali.

Nel caso di Fabiola Campillai, che ha perso completamente la vista il 26 novembre 2019 per l’impatto di un lacrimogeno in pieno volto mentre si recava al lavoro, il carabiniere responsabile è attualmente agli arresti domiciliari e solo la settimana scorsa è avvenuta una prima riunione con i dirigenti dei Carabineros, in cui Fabiola ha dichiarato: “Chiediamo giustizia e qui non c’è sostegno, non hanno presentato delle scuse […] non c’è stato un riconoscimento delle responsabilità dei Carabineros.” 

Gli oltre trenta omicidi avvenuti da parte delle forze speciali durante le mobilitazioni, i 460 casi registrati di lesioni oculari oltre alle migliaia di feriti, le centinaia di denunce di tortura e violenza sessuale parlano di una brutale repressione della protesta, una violenza istituzionale che è stata provata e denunciata tanto da rapporti nazionali che internazionali, e che si è abbattuta con particolare ferocia sulla generazione più giovane dei manifestanti. 

I capi d’accusa sono particolarmente duri, non solo per l’uso della Legge di Sicurezza dello Stato e della Legge del Controllo d’Armi, ma anche per l’applicazione di una legge nuova come la Antibarricate, approvata dal Congresso durante i mesi di proteste con l’unico fine di aggravare la persecuzione ai manifestanti e fortemente messa in discussione da organismi internazionali. 

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Una ricerca realizzata dal Centro Studi sulla Giustizia delle Americhe (CEJA) ha rivelato inoltre carenze nel sistema giudiziario cileno rispetto alle indagini sul ruolo dei Carabineros durante le proteste. Si segnalano “inadempienze generalizzate da parte della Procura circa i criteri di indagine nei casi di grave violazione dei diritti umani”. A questo proposito, in uno studio pubblicato per CIPER, i dati raccolti dall’accademico giurista Claudio Nash suggeriscono che la caratterizzazione politica o meno della detenzione dipende “dal contesto di persecuzione penale, dal tipo di legislazione applicabile e dal rispetto delle garanzie dei diritti umani, senza discriminazione”.

La Convenzione Costituente, inaugurata domenica, ha indicato la liberazione dei prigionieri della rivolta di ottobre come il primo tema urgente sul quale esprimersi. Sebbene il potere legislativo che può approvare l’indulto generale resti nelle mani del Congresso e non sia di competenza della Convenzione, il suo posizionamento attraverso una dichiarazione formale indica una volontà politica maggioritaria al suo interno ed è un segnale della capacità dell’istituzione di fare proprie le principali rivendicazioni che da oltre un anno e mezzo si sono installate nella società cilena a partire dalle mobilitazioni, dalle azioni di organizzazioni territoriali e movimenti sociali che costituiscono la voce del nuovo Cile. 

Immagine in anteprima: Jose Pereira, CC BY-NC-ND 2.5, via lepetitjournal.com

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